Il buon cuore - Anno IX, n. 20 - 14 maggio 1910/Religione

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Educazione ed Istruzione Società Amici del bene

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Vangelo della Solennità di Pentecoste


Testo del Vangelo.

Disse il Signore Gesù a’ suoi discepoli; Se mi amate, osservate i miei comandamenti; ed io pregherò il Padre, e vi darà un altro Consolatore, affinché resti con voi eternamente; lo Spirito di verità, cui il mondo non può ricevere, perché non lo vede, nè lo conosce, voi però lo conoscerete perché abiterà con voi, e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: tornerò a voi. Ancora un po’ di tempo, e il mondo più non mi vede. Ma voi mi vedete, perché io vivo, e vivrete anche voi. In quel giorno voi conoscerete che io sono nel Padre mio, e voi in me ed io in voi. Chi ritiene i miei comandamenti e li osserva, questi è chi mi ama. E chi ama me, sarà amato dal Padre mio; e io lo amerò, e gli manifesterò me stesso. Dissegli Giuda (non l’Iscariota): Signore, donde viene che manifesterai te stesso a noi, e non al mondo? Rispose Gesù e gli disse: Chiunque mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e verremo a lui, e faremo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole. E la parola che udiste, non è mia ma del Padre che mi ha mandato. Queste cose ho detto a voi dimorando in voi. Il Paracleto poi, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel nome mio, egli insegnerà a voi ogni cosa, e vi ricorderà tutto quello che ho detto a voi. La pace lascio a voi, la pace mia do a voi.

S. GIOVANNI, Cap. 14.


Pensieri.

«E io pregherò il Padre, e vi darà un altro consolatore, che resti con voi in perpetuo; lo Spirito di verità, cui il mondo non può ricevere, perchè non lo vede, nè lo conosce: ma voi lo conoscerete; perchè abiterà con voi e sarà in voi».

La chiesa oggi, festeggia questo Spirito, infuso, donato all’umanità.

In quale misura noi lo possediamo? Osserviamo i frutti dello Spirito e, da una meditazione sincera sul come e sul quanto li ritroviamo in noi, potremo dare il nostro giudizio.

Il mondo non ha l’amore della verità,

Questa osservazione potrebbe sollevare delle obbiezioni: come, si potrebbe dire, non ha l’amore della verità l’uomo della scienza?

Ma altro è l’amore della cognizione, altro l’amore della verità per se stessa.

Noi possiamo dimenticare il sonno, ad esempio, per risolvere un problema di matematica, ma non possiamo dire che amiamo quel problema. La cognizione interessa, ma non si ama.

La verità non si può amare se essa non è una persona che agisce, che influisce su di noi. E un amore simile per la verità è proprio e solo dei cristiani.

Gesù prosegue: «Egli — lo Spirito — il consolatore v’insegnerà ogni cosa».

Ma altro è l’amore della verità e altro la cognizione: l’amore non potrebbe essere in questo campo, un elemento perturbatore?

No, l’uomo che ama la verità, la coglie, la vede e, se non vede chiaro, sospende il suo giudizio finchè si sia fatta la luce e, così, non sbaglia.

E lo Spirito di verità sarà il consolatore. — Se si aderisce pienamente alla verità e alla giustizia, se non si vive che per essa, anche se per essa si soffre e si patisce, se ne gusta tutta l’intima, ineffabile felicità, quella felicità che è il principio, un pregustamento della eternità beata, che è il possesso della più magnifica signoria che all’uomo sia dato da godere quaggiù.

E un’altra cosa grande disse Gesù: «ch’Egli aspettava la glorificazione sua dal Padre».

Gesù criticava e s’opponeva alla religiosità deficiente formalista del tempo suo — per una sua conoscenza, più nobile e più pura di Dio — e fu contrariato, condannato e ucciso.

Ma Egli a giustificazione delle sue parole, dell’opera sua s’appellò allo Spirito, a Dio!

E in Gesù l’umanità ha trovato e trova l’attuazione di ciò che in essa c’è di migliore e il suo Vangelo è il codice della più perfetta morale.

Come questa considerazione deve confortare tutti i martiri che han sofferto e soffrono per la verità!

Come deve render loro dolcezza il pensare che quella verità ch’essi mettono alla luce con dolore e con pianto sarà la rivelazione, il conforto, il sostegno di quei che verranno!

Oh, che grandezza in certe pene! Che dignità in certe umiliazioni! Che esultanza in certi strazi!

Perchè son misteriosamente uniti così fra loro le gioie spirituali più somme e i dolori dell’anima più profondi?... Questa che pare una legge, è certamente legge di provvidenza, legge d’amore adoriamo, taciamo, godiamo!

Rientriamo in noi stessi, esaminiamo la nostra coscienza, vediamo se in noi è l’amore per la verità, se ne viviamo, se in essa poniamo la nostra gioia, la nostra felicità.

L’amore della verità è un dono, ma senza di esso ogni altra cosa è vana.

Invochiamo su di noi questo Spirito di verità e di amore; non poniamo ostacoli alla sua effusione in noi, siamogli docili, diventiamo la sua rivelazione ai fratelli....



Ricordatevi di comperare il 15.mo fascicolo dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI che esce in questa settimana.


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Era un nome famigliare per noi, che ebbimo la ventura di conoscere la gentile poetessa nel periodo più tranquillo e sereno della sua vita, quando, nel pittoresco eremo di Basalghelle di Oderzo, circondata dall’affetto dei genitori e di quattro gentili sorelle, si faceva ammirare ed amare da tutti per il suo ingegno, per la sua semplicità signorile, per la sua grande bontà cogli umili.

La rivediamo come la vedemmo per tre anni di seguito in quel luogo di quiete, dove traevano sovente, attirativi dalla giovane pensosa dagli occhi neri e dal mesto sorriso, distinti letterati, scienziati ed artisti.

Il golfo di Napoli, Venezia e il suo rifugio di Basalghelle diedero alla poetessa le prime ispirazioni. Il silenzio dei campi, lo stormir delle frondi, il vento o la pioggia, il cielo burrascoso o stellato, l’alba o il tramonto, tutta la natura, nelle sue alterne manifestazioni, parlava al cuore di Vittoria che si compiaceva di confidare i suoi pensieri ai foglietti rinchiusi sempre nella sua cartella d’artista.

Benchè circondata da affetti profondi, idolatrata dai genitori e dalle sorelle, ossequiata da personaggi, benedetta dai poveri, la poetessa inclinava a mestizia, e i suoi lavori, anche nell’età giovanile, avevano sempre malinconiche note.

La rivediamo sul suo carrozzino, guidatrice sicura de’ suoi prediletti cavallini, e la rivediamo nella sua semplice espressione di visitatrice di contadini infermi, col canestro al braccio, colla nera chioma ricciuta al vento, cogli occhi parlanti di pietà e di amore.

L’abate Zanella fu il maestro prediletto di Vittoria Aganoor e fu quello che indusse la ritrosa scolara a pubblicare i suoi primi versi, presentandoli poi con una lettera paterna. Più tardi, per aderire al desiderio dell’amatissima madre, ella si decise ad una raccolta completa — Leggenda eterna — che uscì con una dedica destinata alla genitrice, quando la notte di dolore non era ancora discesa nella mia anima... «Tu non vedesti la dedica — così scriveva la figlia orfana — non vedesti il volume... Ma soltanto adesso nella tua nuova vita, hai potuto leggere tutto il libro nel suo fondo oscuro, vedere gl’incerti pensieri, le varie fantasie, le passioni onde usci verso a verso, lento e triste, portandone seco l’ombra; soltanto adesso che meglio mi sai e meglio mi ami, non curando lodi nè censure altrui, cingendoti, nella memoria con le mie braccia, lo consacro a te».

Vittoria Aganoor aveva già perduto il padre amatissimo, e scriveva:

..........io t’odo
dell’infanzia narrar, fiorita al sole
della Asia, là, tra i bianchi intercolonni
della superba tua dimora, al vento
del tuo selvaggio mar, dentro le intatte
selve, o t’ascolto con solenni accenti
parlar di Dio.... Quanto t’ho amato, e quanto
t’amo, e quanto t’invoco!

Fedele all’amicizia, gentile e buona sempre, amante di tutte le opere di beneficenza, Vittoria Aganoor non negò mai i suoi fiori poetici a chi ne la richiedeva a vantaggio di pie istituzioni, ed ebbe sempre una predilezione per il Bene dei Figli della Provvidenza, per il Buon Cuore dei Ciechi e per la strenna della Pensione Benefica delle Giovani Lavoratrici.

Orfana di padre e di madre, Vittoria Aganoor andò sposa all’on. Guido Pompilj e di lui fu compagna indivisibile, seguendolo anche al congresso dell’Aja.

Abitò a Perugia, ove s’intese subito colla grande poetessa Alinda Brunamonti. Ma quella sublime amicizia fu troppo presto troncata dalla morte, che rapiva a Perugia la sua stella, e Vittoria Aganoor deponeva il suo fiore sulla tomba dell’amatissima Alinda con questi versi:

Vedi? è il trionfo. I sonori
inni odi tu? Pel sepolto
tuo corpo stanco hanno còlto
tutte le rose e gli allori.
Questa dei vati la sorte.
L’uom non li cura o disama;
sorge, comprende ed acclama
solo al passar della Morte.
Te, quando ancora nel sole
le tue pupille eran fisse,
segnò la Gloria, e ti disse
le sue profonde parole.
Ma dall’avel riconduce
tra le sue braccia possenti
te rediviva ai viventi
incoronata di luce.

S. M. la Regina Margherita fece deporre sul feretro della Brunamonti una corona di candide rose, ed ora effettuò il medesimo pensiero gentile per la poetessa Vittoria Aganoor.

Pur troppo la grande sventura sconvolse la mente del vedovo consorte, che credette non poter rassegnarsi al suo grande dolore e scomparve nel bujo della notte in cui errava il suo spirito smarrito.

Angelo Maria Cornelio.

La morte di GEROLAMO ROVETTA

Aveva 60 anni; la morte lo ha colto quasi d’improvviso, con una lotta di poche ore, stramazzando un organismo che pareva fatto per dominare il tempo e il male.

«Nato di salda schiatta bresciana e vissuto lungamente a Verona — così Renato Simoni — egli aveva [p. 159 modifica] insieme la rudezza franca e cavalleresca del suo paese nativo e la gaia finezza veneta. La sua conversazione era tutta tratti vivi, scoperte geniali, luci improvvise; il suo spirito era pronto ed inesauribile, ma era uno spirito buono, senza malizie, pieno di sorriso; allietava lui e gli altri. La sua causticità non lasciava il segno. Nasceva sempre dal suo buon umore non mai dal suo astio, e quel caratteristico dialetto mezzo lombardo e mezzo veneto che parlava, conferiva ad essa non so che garbatezza casalinga, non so che disinvoltura signorile. Quale dei suoi amici non ricorda ore stupende passate con lui, quando egli aveva l’aria di burlarsi sopratutto di sè e rideva sonoro sulle cose che diceva, e nel riso illuminato dal candore dei denti bellissimi risplendeva tutta l’innocenza della sua anima? Non era l’uomo dall’umorismo bizzarro e funambolesco. La sua originalità nasceva appunto dal suo equilibrio.

«I suoi motti bene temprati e bene scoccati erano fatti di logica e di semplicità; ma egli trovava nella logica e nella semplicità quello che non sapevano trovarvi gli altri. Si può dire che si riflettevano sulla sua mente i rossi riflessi dell’antico morbin veneziano che era segno di pienezza di vita, di rigoglio di salute, di senso ottimistico del reale. Non che egli fosse un illuso, un estraneo alla verità amara che è il lievito del nostro pane quotidiano. Ma aveva il dono della misura, era parco nei suoi desiderî, e la sua profonda e dignitosa modestia gli faceva trovar l’appagamento dove altri avrebbero trovato l’acre incitamento a volere di più. Gli è che sapeva bastare a sè stesso, e per gustare un po’ di gioja non aveva bisogno di aver intorno i testimoni che gliela invidiassero. Gli piaceva godere la limpida intimità del suo spirito. Se in compagnia era adorabile, sapeva anche star assai bene solo, e questa è una difficilissima virtù ed è solo degli ottimi. Gustava da sè i suoi pacati pensieri. S’era costituito un piccolo mondo interiore dove egli viveva quasi in un felice sdoppiamento»

Nè l’artista fu molto dissimile dall’uomo, e come fu retta ed onesta la sua vita, così fu limpida e proba la sua arte. Vivacità di colore e di movimento, intimo, diretto e costante rapporto fra l’espressione e l’osservazione, profondo senso di umanità, sagace arguzia e sottile ironia; fremito violento e tumultuoso di passioni, in una parola: vita e verità!

Questi è l’uomo che ora dorme in una pace profonda, lasciando il più vivo e cocente rammarico della sua dipartita. Ma come ultimo saluto di un’anima credente e sincera, fu il foglietto che esprime l’ultima sua volontà: «Desidero esser sepolto a Milano al Cimitero Monumentale. Desidero funerali religiosi, dichiarandomi lieto di poter morire serenamente nella religione nella quale sono nato. Ma voglio funerali modestissimi e brevissimi, senza fiori e senza discorsi: e senza musica!!».

Pace allo spirito buono e sereno; riposo a chi lavorò nel nome fulgido dell’arte, con elevatezza d’ideali ed onestà d’intendimenti!

A. M. C.

Per l’Asilo Convitto Infantile dei Ciechi


SOCI AZIONISTI.

Terza rata.

Somma retro L. 107802 20

Erminia Benso Santini |||
   » 5 ―


Totale L. 107807 20


S. E. il Cardinale Arcivescovo si è degnato ricordare, con atto di paterna benevolenza, i piccoli figlioli dell’Asilo Infantile. Ha inviato alla loro Direttrice una magnifica e gustosa pasta dolce, in forma di cestino ma ricolmo di fiori e frutta. Il dono, già per sè tanto gradito ai piccoli ghiottoni, era accompagnato da un prezioso bigliettino:

Ai cari bambini dell’Asilo dei Ciechi,

Mi fu donato quest’oggi, e lo mando in dono ai più cari dei bambini, ai quali affettuosamente benedico.

Arcivescovo di Milano.

Del dono e delle parole gentili, grati e commossi, insieme coi loro Superiori, ringraziano i piccoli figlioli, pregando da Dio, per il loro Padre venerato, le più elette benedizioni.