Il buon cuore - Anno IX, n. 20 - 14 maggio 1910/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno IX, n. 20 - 14 maggio 1910 Religione

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Le ultime ore di Massimiliano

Si è pubblicato per la prima volta un manoscritto del barone von Fürstenwäther che, prima ufficiale nell’esercito austriaco, passò poi nell’esercito messicano e durante gli ultimi mesi di regno dell’imperatore Massimiliano fu costantemente nell’«entourage» dell’infelicissimo Sovrano e gli fu accanto anche nel giorno fatale in cui egli cadde fucilato a Queretaro.

La pubblicazione è interessante non solo perchè è assolutamente inedita, ma anche perchè ci dà della fatale estrema giornata di Massimiliano un racconto di un testimone oculare — racconto che mentre dà dei particolari completamente nuovi, viene anche a rettificare in parte i racconti leggendari che sono corsi finora sulle ultime ore dello sfortunato Imperatore.

È interessante la pagina in cui è raccontata la scena dell’esecuzione:

«Il 19 giugno era giunto. La popolazione di Queretaro alla mattina della fatale giornata appariva assai triste. Anche i soldati — che erano al comando del generale Escobedo — parlavano poco e a bassa voce. Per fortuna il generale Corona e la Legione americana erano per tempo partiti per la capitale. Costoro erano infatti avventurieri che avevano reso, è vero, buoni servizi alla causa liberale; ma sarebbero stati forse amici pericolosi se avessero assistito a quanto si svolse quel giorno.

«I prigionieri lasciarono il convento dei Cappuccini, che era il loro carcere, alle sei e mezza del mattino — un mattino così puro e chiaro che appena l’Imperatore Massimiliano mise piede fuori della porta ed alzò lo sguardo al bel cielo ridente, si volse all’avv. Ortega che gli camminava a fianco, dicendogli:

«— Che bel cielo! così io l’avevo sempre desiderato nel mio ultimo giorno.

«Massimiliano si era già congedato da tutti i suoi amici. Il suo ultimo colloquio col principe Salm era avvenuto senza alcun testimonio.

«Ognuno dei condannati salì in una carrozza insieme al proprio cappellano. Tutte e tre attorniate da una forte scorta, giunsero quasi contemporaneamente alla Piazza San Francesco, da dove si diressero fuori la città, seguite da una folla enorme, variopinta e strana, nella quale si accumunavano soldati, borghesi, donne, ragazzi, bianchi, indiani, meticci. La folla si recava pure verso la piazza destinata all’esecuzione. Si vedevano molti occhi bagnati di lagrime, molte donne singhiozzavano, altre intonavano preghiere o lamenti, mentre la maggior parte degli uomini procedevano a capo basso, accigliati. Soltanto i soldati mostravano una certa indifferenza.

«Fuori la città si trovavano quattromila soldati in assetto di guerra che attendevano il tragico corteo.

«Tutti e tre i condannati erano vestiti di nero in borghese. Il generale Miramon era il solo dei tre che non apparisse triste e pensieroso. Egli guardava curiosamente fra il popolo accalcantesi intorno, come se vi cercasse qualcuno — e fu visto anzi una volta a salutare con la mano. Il suo viso, sebbene deturpato da una ferita sotto un occhio, conservava tutta la sua maschia bellezza. Il generale Meja era invece silenzioso e cogitabondo e sembrava non accorgersi della folla: il suo viso accigliato era piegato sul petto. Tuttavia egli non era accasciato: una vecchia malattia inguaribile lo aveva troppo assuefatto all’idea della morte perchè egli potesse averne paura. L’Imperatore aveva negli occhi un’espressione che quanti l’abbiamo visto in quel momento non dimenticheremo mai, finchè saremo in vita. Nel momento in cui la sua carrozza lasciò la piazza, pareva che egli cercasse qualcuno; forse i suoi cari, che erano invece in quel momento tanto lontani....

«Precisamente ad un centinaio di passi dal posto in cui Massimiliano il 15 maggio si era arreso, le carrozze [p. 154 modifica] si fermarono, e i tre condannati scesero. Massimiliano, tranquillissimo e col viso ridente, con quell’eleganza di gesti che gli era particolare, cominciò allora a scuotersi la polvere dal vestito con lenti colpettini delle dita.

«Nel posto dell’esecuzione era stato innalzato un muro di mattoni, di fronte al quale le truppe avevano formato un quadrato. Ad ognuno dei tre condannati era stato in precedenza assegnato il posto, che essi presero tranquillamente. Allora l’avvocato fiscale lesse ad alta voce le motivazioni della sentenza di morte. Appena egli ebbe terminato, Massimiliano domandò al comandante delle truppe, generale Escobedo, il permesso di parlare; ed avutolo, disse queste precise parole:

«— Nego recisamente di aver mai avuto il desiderio o anche la sola idea di avvantaggiar me a detrimento del Messico. Proclamo che la procedura con la quale fui condannato è illegale. Fui giudicato da una Corte incompetente. Io ho il diritto di chiedere un tribunale neutrale — lo chiedo — e lo chiederò ancora fino all’ultimo istante della mia vita.

«Il silenzio mortale che si era fatto appena l’Imperatore fece cenno di voler parlare, non fu rotto da alcuno dopo le sue parole; nè del resto pareva che egli attendesse una qualsiasi risposta. Egli, infatti, appena ebbe pronunziato quelle parole, si volse verso il plotone di esecuzione che era comandato dal capitano Josè Montemajor. Costui, un giovane e bell’ufficiale, si accostò allora all’Imperatore e con voce accorata gli disse di non conservargli rancore pel fatto che egli era destinato a comandare il plotone di esecuzione, giacchè egli si trovava a quel triste posto senza propria volontà e nel suo cuore era ben lungi dall’approvare ciò che era costretto a fare. Massimiliano gli rispose in tono semplice ed amabile:

«— Il soldato deve compir sempre il suo dovere. Vi ringrazio dei vostri sentimenti. Fate quello che vi è stato ordinato. Ma di un solo favore vi prego: comandate ai vostri soldati che mirino al cuore; e dopo la mia morte distribuite loro questo denaro.

«E gli diede una borsa che conteneva un’oncia di oro per ogni soldato del plotone. Si volse allora ai suoi due compagni e li abbracciò con le parole:

«— Ci rivedremo presto in un altro mondo!

«Poi prese la mano di Miramon e gli disse:

«— Un coraggioso ha diritto al rispetto anche dei Re. Innanzi alla morte, io voglio lasciare a lei il posto d’onore.

«E così dicendo fece l’atto di prendere il posto del generale, il quale però si oppose con dolce violenza. Rivolgendosi poi a Meja, gli disse stringendogli la mano:

«— Generale, quel che non può essere compensato in terra, lo sarà in cielo.

«Meja rispose con una lunga e forte stretta di mano. Quindi, rivolgendosi ancora una volta al pubblico e avanzando di un passo, Massimiliano disse:

«— Messicani, gli uomini del mio rango e della mia razza sono destinati a formare la felicità e la fortuna del loro popolo o a diventare dei martiri, quando hanno i miei sentimenti. Io venni a voi senza prevenzioni ostili, pieno di speranza, animato dalla fiducia di fare del bene, chiamato qui dai messicani, da coloro che oggi si sacrificano per la mia patria adottiva. Muoio con la consolazione di aver fatto tutto il bene che potevo e di non vedermi abbandonato dai miei fedeli generali. Messicani, io spero che il nostro sangue sia l’ultimo che si sparge e che esso riesca prezioso per questa mia infelice patria adottiva.

«Fece quindi un passo indietro, riprendendo esattamente il suo posto, posando le mani sul petto e dicendo ai soldati del plotone:

«— Mirate bene. Addio!

«Miramon allora volle parlare a sua volta, e alzando fieramente la bella testa girò lo sguardo sulle truppe e con l’accento non di un condannato, ma di un comandante gridò:

«— Soldati messicani, compatriotti miei! Voi mi vedete qui condannato a morte come un traditore. In questo momento in cui la mia vita non mi appartiene, qui sull’orlo della tomba, io proclamo in faccia al mondo che mai ho tradito la mia patria. Ho lottato pel mantenimento dell’ordine e cado vittima di questo mio dovere. Lascio dei figliuoli, che non possono però venire insozzati da questo fango che si è voluto buttare addosso a me. Messicani, viva il Messico!

«Il comandante del plotone guardò Escobedo, il quale fece un segnale. I soldati spianarono le armi. In quel momento il mare di popolo che ondeggiava al di là del quadrato delle truppe parve agitarsi, e si sollevarono alte grida di protesta. Si videro balenare in alto le sciabole degli ufficiali e agitarsi minacciosamente i fucili dei soldati. Fu un momento: la folla ripiombò in un silenzio di morte, nel quale improvvisamente si alzò la voce tonante del generale Miramon, che gridò:

« — Viva l’Imperatore!

«Massimiliano disse a voce bassa ma distinta:

«— Carlotta... Carlotta...

«In quell’istante, con un fragore orribile, le fucilate scoppiarono».

Proprio nei giorni in cui vede la luce questo vecchio manoscritto di un testimone delle ultime ore di Massimiliano, parte dal triste castello belga la notizia che Carlotta, l’invocata dal Sovrano nobile e sventurato nel suo ultimo istante, comincia, dopo più di quarant’anni di taciturna pazzia, a dar segno di un ritorno alla ragione.

E riandando l’atroce tragedia di Queretaro, vien fatto quasi di chiedersi se non sarebbe da augurare all’infelice consorte dell’Imperatore fucilato che non si diradi la nebbia di follia che ha ottenebrato finora il suo spirito.

G. Gabasino Renda.

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Piccolo Eroe?...

(Continuazione, v. n. 19).

― Tutto questo è affar vostro; e se voi dite di sentirvi da tanto, non posso che ammirarvi, gioire con voi, perchè, se non altro, mostrate di essere un carattere. E allora tutto è finito tra noi. Avevo sperato di chiudere gli ultimi miei giorni, rassicurato della continuazione della mia Casa industriale, e rassicurato da voi che ho amato come un figlio: ma vedo di essermi ingannato. Però... — e qui la voce rauca e dura del signor Whiteman, fattasi più dolce, passionata, tremolante, si spezzava fra qualche singhiozzo di pianto — però, dacchè non anteponete alla mia Casa e a mia figlia un’altra Casa e un’altra donna... ma un’Istituzione che io pure venero, per quanto di fede anglicana, voi potrete sempre contare sulla mia amicizia per voi, e venire in casa mia come in casa vostra, come avete fatto sino ad oggi.

― Grazie infinite, e scuse anche se, pure senza volerlo, ho dovuto amareggiare e contristare il vostro nobile cuore....

Gustavo Ricci stranamente commosso, gonfio il cuore, l’occhio imperlato di lacrime, usciva dal salottino del suo padrone come barcollando, trasognato, meravigliandosi di essersi potuto spiegare abbastanza su un tema che quasi celava a se stesso per paura di profanarlo. Ma potè rimettersi subito nella sua calma normale, più sereno e alleggerito da uno sfogo di pianto e una confessione così giustificata a chi ne aveva tanto diritto.

Dopo una quindicina di giorni lasciava quella Casa definitivamente; la scena di commiato fu dolorosa, ma improntata alla massima educazione e schiettezza da ambo le parti. I bimbi, che gli si erano profondamente affezionati, non lo lasciarono sì presto; e col loro pianto sconsolato, convulso, gli straziavano il cuore. Gustavo ultimate le pratiche di accettazione entrava nel gran Seminario.

Il suo fu un sospiro di sollievo, di soddisfazione infinita, quando potè dire a se stesso di aver finalmente raggiunto il porto desiderato, e respirò con voluttà quell’aria santificata dalla preghiera e dallo studio. Con ardore indicibile si dedicò alle discipline sacre, moltiplicando se stesso, le sue energie, per guadagnar tempo e famigliarizzarsi quelle nozioni di dogmatica e di morale che sono indispensabili a qualunque sacerdote. Ma un altro studio non trascurò, quello con cui si forma lo spirito dei seminarista e del prete. E perciò si provvide d’una mirabile raccolta delle migliori vite di Santi e Servi di Dio: anzitutto La Vie de Jésus Christ del Le Camus e The Life of Christ del P. Elliot; poi Vie de M. Olier, Vie di Mgr. Dupanloup, Vie de S. Charles del Silvain, la Vita del B. Curato d’Ars, di S. Vincenzo de’ Paoli, del Wiseman, del Ven. Olivain, del P. Ravignan, di Lacordaire, del Car. Newman con tutte le sue Opere; altre e altre; e curvo su quei volumi passava ore deliziose ogni giorno, nella meditazione profonda dei casi e delle dottrine degli eroi della Fede, bevendone a larghi sorsi, assimilandosi il loro spirito largo e generoso.

Non staremo però a fare la storia della sua vita seminaristica; diremo soltanto che adempiendo sempre con gran voglia e gran cura i suoi doveri di studio, di disciplina, distinguendosi per la pietà e lo zelo di mettere a contributo le tante belle qualità di spirito onde era fornito, potè giungere dopo più di tre anni al momento ardentemente desiato di ricevere l’Ordinazione sacerdotale, che dovea coincidere con un’altra cerimonia gradita al suo cuore di cui diamo conto.

Quando Gustavo lasciò per l’ultima volta la casa del signor Whiteman, quella che più ne rimase urtata fu Edith; e per più giorni restò di così nero umore, così intrattabile, velenosa, che nessuno ardiva più rivolgerle la parola. Poi si calmò e uscì dal suo mutismo irritante, per tornare ancora la fanciulla normale, chiassosa di prima. Però tutto quel piccolo dramma di anime l’indusse a pensare. Come mai il Cattolicismo aveva tale potenza da portare ad eroici sacrifizii quando l’età, la fortuna, le circostanze avevano il massimo di seduzione di irresistibilità? Come mai uno può decidersi ad abbandonare senza rimpianto, a spregiare dei beni che altri idolatrano, per cui lavorano tutta la vita? Una ragione sufficiente va pure assegnata a cotali fenomeni. Bisognerà supporre che oltre i beni sensibili e caduchi, altri ce ne siano e senza confronto più stabili e degni d’uno spirito immortale; bisogna anche supporre che la Religione che persuade certi sacrifizii, debba essere bene autorevole, potente e di necessità la sola vera.

Questo lavorio molto filosofico, nella mente di Edith punto avvezza a raziocinii severi, non poteva protrarsi molto senza esaurire la piccola munizione di energie; ma agì guanto bastava per condurla, tra sodi riflessi vane ribellioni ad una logica inesorabile ma legittima, a concludere qualche cosa.

E concluse di lasciare la religione nativa che del resto, per lei, si riduceva a vuote e sterili forme, per farsi cattolica. Quante altre spinte non la gettavano in questa direzione, quante altre attrattive non l’invitavano al gran cambio! Fece pertanto tutti i passi opportuni, e un bel giorno si mise sotto la direzione di un dotto e pio religioso Barnabita, si istruì, si preparò all’abiura solenne dell’Anglicanismo e al Battesimo e alla prima Comunione, stabilendo che coincidesse col giorno della prima Messa di Gustavo.

Quel giorno memorando — il 31 maggio 1887 — la Basilica di S. Maria di Carignano, tutta splendente di apparati in aggiunta alla ricchezza di marmi e sculture dipinti insigni, aveva un aspetto più solenne, più festoso, e un nuovo fremito pervadeva la folla immensa di divoti e curiosi venuti per le grandi cerimonie del giorno. Il ricordo ne restò indimenticato e caro nel cuore di tutti.

Edith tornata cattolica fervente alla sua casa, vide subito qual posto le spettava di dovere e di diritto in quel santuario della pietà: il posto di Suora di Carità ma senza voti solenni e senza abito monastico accanto a un padre supremamente diletto e bisognoso di cure le più affettuose e gentili; e subito inaugurò la sua [p. 156 modifica] nuova vita. Dal canto suo il signor Whiteman gioì di questa dedicazione della figlia, per quanto non avesse mai dubitato della tenerezza del suo cuore. Ma in certo senso si poteva ben dire d’averla meritata, provocata. Intanto non aveva menomamente protestato contro la sua abiura, ma le lasciò in tale bisogna la più ampia libertà d’azione. Aveva fatto di più. Come non dimenticò Gustavo Ricci nel giorno bello della sua prima Messa, fu splendido con lui, regalandogli tra altro un calice d’oro di mirabile lavoro con un motto tutto un’insinuazione vuoto d’amarezze; così alla figlia regalava un magnifico merletto di Valenciennes e un Trittico di artistico pennello rappresentante il S. Pietro di Roma al momento della Messa papale tra i massimi splendori dei riti cattolici; e il dono era accompagnato dalla dicitura allusiva apertamente al passo importante del 31 maggio: Maria optimam partem elegit.

Intanto fu bello vedere questa fanciulla avvezza all’ozio e alle frivole preoccupazioni della vanità, trasformata in tutt’altra, ora operosa, affaccendata sempre; non paga del molto che aveva a fare in casa sua, darsi dattorno in cento opere di beneficenza, instancabile in bene dei poverelli di Cristo.

Passate le feste, bisognava pure che Gustavo si mettesse al lavoro dandosi a quell’apostolato di amore, di illuminazione delle coscienze, di rigenerazione dei cuori, per cui tanto aveva sospirato e patito. Aggregato senza speciali mansioni di cura d’anime alla Basilica di Carignano, attese sopratutto ad una predicazione tutta sua dalle linee ampie e concessive di quanto poteva concedersi alle esigenze dei tempi nuovi, brillante, accurata, moderna insomma. Inoltre si assunse in un Istituto femminile della città il compito di cappellano e di insegnante; fu in cotale ambiente dove lavorò di più, cogli entusiasmi schietti che i giovani sanno portare nelle loro intraprese, con infinita passione del suo lavoro. Poi ad altro speciale ministero consacrò la sua attività intrepida e coraggiosa; a realizzare quella che per molti resta sempre una teoria simpatica e ammirata finchè non c’è da scomodarsi o incontrar noie: all’amore pratico e costante degli umili, alla protezione dei perseguitati, al sollievo degli oppressi; a tener alto il prestigio del ceto sacerdotale salvandolo da accuse vere o false; che se vi era uno scandalo, un’ingiustizia, una durezza di cuore che partisse dal Santuario, lo faceva fiammeggiare di indignazione, e non gli lasciava riposo finchè non avesse paralizzato la triste impressionè prodotta nel laicato e salvata la vittima di quei trattamenti.

Moderno nelle idee, ahi! non lo era ugualmente in tutte le forme pratiche della vita religiosa d’oggidì. L’uscire di sagrestia per es. non lo credeva gran male; ma era spaventato dal modo con cui si traducea in azione il nuovo programma, delle audacie a cui si arrivava. E di scienza propria lui poteva ben dire quanto il laicato si scandalizzava dall’immischiarsi troppo che faceva il prete negli affari suoi; nello scoprire dalla troppo vicinanza e famigliarità col sacerdote, le debolezze del clero, che prima, veduto da lontano gli pareva tutto sacro e venerando; lui poteva ben dire di scienza propria quanti — accomunati soverchio col sacerdote — abbandonavano la Confessione. Insomma i vantaggi non compensavano le perdite.

E di queste sue idee non faceva mistero a nessuno; convintissimo, nella sua rettitudine e nel suo candore che si potesse impunemente dir tutto l’animo proprio su tutti i problemi e opporsi ai molti che avrebbero trovato motivo di offendersene, inimicarglisi. Perché non si dovrebbe alzare la voce impavidi per predicare certe dure verità, e frenare inconsulti impeti e ardori di fanatismo, a protestare contro certe esteriorità di parata, odiose alla coscienza moderna? Lo si vide nel 1898, e due anni or sono, in occasione di scene ben dolorose al cuore d’un sacerdote a che cosa si riducano nelle ore di maggior bisogno le cosiddette forze della Chiesa reclutate in maggior parte tra cristiani solo di nome e di rumore. Nel 1898, fu un fuggi fuggi coraggioso di tatti innanzi all’impeto delle misure rigorose dell’autorità militare; e due anni or sono, quando imperversava la bufera contro il prete dileggiato in pubblico, fatto ludibrio della piazza, non un cattolico irregimentato nelle formidabili falangi, osò prenderne all’aperto le difese.

Una riprova di trovarsi nel giusto, nello stigmatizzare certe esteriorità di vita religiosa credeva di trovarla nel fatto che quelle esteriorità furono mutate, riformate, soppresse, sconfessate, voltate in altre dalla competente autorità.

Così sentiva Gustavo Ricci, e così si esprimeva; non sospettando che altri non sentivano certo all’istesso suo modo, meno ancora vi si pronunciavano. Aveva in misura sovrabbondante le semplicità della colomba e in difetto la prudenza del serpente; ma era solito ripetere col gran santo di Sales, che avrebbe dato cento serpenti per una colomba. Secondo il modo di vedere.

Il peggio però venne dopo, quando le nuove correnti del pensiero religioso, le nuove vedute in fatto di culto esterno, le varie tendenze verso un programma di riforme, affluirono come ad un punto convenuto per concretarsi e procedere ad un’azione unita di mutamento, di rifacimento della Chiesa, classificate con un vocabolo molto generico, modernismo.

Appena si levarono le prime voci a condannare la eresia del secolo ventesimo; meglio, quando Pio X, con un gesto che lo renderà immortale, condannò così severamente eppure con tanta ragione, un moto religioso affatto rivoluzionario, soffocandolo inesorabilmente tra le fascie e per sempre; dovunque, in tutti si credè di vedere dei modernisti, si corse alla caccia spietata, brutale, di veri e supposti modernisti; si denunciò, si scomunicò con una facilità spaventevole, anche i meno meritevoli di quelle atroci misure.

(Continua).

CASA FAMIGLIA PER IMPIEGATE


Somma retro L. 6122 ―

Clerici marchesa Giuditta, seconda offerta |||
   » 100 ―
Signora Adele Rusconi Beltrami |||
   » 10 ―
Rusconi cav. Mario, Consigliere comunale |||
   » 100 ―
Signora Carolina Ponzio |||
   » 10 ―


(Continua). Totale L. 6342 —