Il bacio di Lesbia/II
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II
ORAZIO E AUGUSTO
Augusto fu colui che seppe unire insieme principato e libertà. Principato e libertà seguirono molti altri imperator romani, ed erano di lontane genti e nazioni.
Ora Augusto ebbe due poeti, molto a lui cari: Orazio e Virgilio. Perciò domandiamo un po’ di pazienza se prima di parlare dei baci di Lesbia completiamo questo capitolo sui costumi dei Romani con un discorso che il divo Augusto ebbe col suo poeta Orazio.
Sull’alto del colle Palatino, fra il sacello alla Dea Vesta e il tempio di Apolline, sorgevano le case di Augusto.
Benché non piú giovane, Augusto era di elegante e armoniosa persona. Di colorito era olivastro, occhi chiari, splendenti.
Ora avvenne che Augusto fece un giorno con l’indice cenno a Orazio:
— Desidero dirvi una cosa Orazio. Mentre questo barbitonsore mi rade la barba, possiamo parlare. Potete dire liberamente: è un greco di Siracusa, non intende latino. Accomodatevi.
Disse a Orazio:
— Mi congratulo con voi per questi vostri versi: essi sono senza spuma di parole vane e senza fetore di parole morte: versi veri per me e veri anche per un ingenuo adolescente. E questa è massima lode per un poeta.
E Augusto, con bella e pacata voce declamò:
— «Dolce e onorevole cosa è morire per la Patria». Benissimo! «O Dei, date ai nepoti di Romolo potenza e prole, insieme con ogni onore». Anche meglio! «O divino sole che ogni giorno porti la luce, tramonti e rinasci sempre uguale, deh, possa tu nel tuo viaggio eterno non vedere cosa piú bella di Roma». Qui voi, Orazio, arrivate senza sforzo alla sublimità pindarica.
E qui forse ci dovremmo meravigliare come Augusto si intrattenesse con la poesia. Egli non aspirava a glorie poetiche: egli era uomo essenzialmente politico. Bene o male che fosse, aveva messo la poesia al servizio dello Stato. Aveva suoi criterii che potevano servire tanto per la politica quanto per la poesia. Age quod agis, festína lente («fa bene quel che fai! va adagio perché ho fretta!»), ma non rimandare ad kalendas graecas! Maturo il consiglio, veloce l’azione, erano i suoi motti preferiti. Era un uomo preciso anche nella parola, come il divo Julius bonae memoriae, il grande suo parente. Per amore di precisione non esitava a ripetere le stesse parole. L’oratoria asiatica di molti senatori lo infastidiva. Quando il suo ministro Mecenate gli parlava con quei riccioli di parole effeminate, gli veniva da ridere: il popolarissimo poeta Ovidio gli faceva pena con le sue esagerazioni.
Insomma la dignità della parola e la dignità di Roma erano per Augusto un’unica dignità. Piú in là non oseremmo andare: se Augusto, quale uomo politico, fosse sospettoso dell’ingegno, specie di quella gente variabile che sono i poeti: ma il fatto di avere chiamato a collaborare con lui e Orazio e Virgilio ci fa credere che non temesse l’ingegno.
— Molto belli, molto a me graditi, — continuava Augusto, — questi vostri versi.
Aveva in mano un bastoncello di cedro con borchie d’oro, attorno al quale si avvolgevano membrane di finissima carta. Orazio, fissando gli occhietti un po’ cisposi, riconobbe il volume delle sue poesie.
Sempre con voce pacata Augusto leggeva:
— «O Dea, sia che tu ami essere chiamata Lucina, sia Genitale, sia Ilithia, di questo noi ti preghiamo: sciogli il grembo alle madri, sii tu levatrice ai parti ben maturati e per giuste nozze concetti. Deh, veglia, o cara Dea, su le madri romane. Aumenta la prole di Roma». Bravo, Orazio! Parole disposte bene che resteranno a lungo nella memoria degli uomini. Darò ordine che siano cantati in coro questi vostri versi, da giovinetti puri e da fanciulle bennate.
— Grazie, Augusto, — rispose Orazio. — Le preghiere degli innocenti arrivano facilmente fino al trono di Giove.
— Volete dire che le mie non arrivano?
— O Augusto, prole divina! — esclamò Orazio.
— Lasciate, lasciate queste espressioni untuose: qui non siamo in Senato.
Era bastato uno sguardo di Augusto a turbare Orazio. L’occhio di Augusto era insostenibile. Il volto era solare, ma guai se si veniva cambiando! Il segreto di Augusto stava in questo: che il piú lieve increspare del sorriso dava lietezza ai cuori: sorrideva il Senato, sorrideva Italia; e lo scomparire del sorriso metteva sgomento.
Orazio era uomo senza paura perché « integro di vita e puro di scelleratezze», come egli dichiarò; al punto che andando solo e distratto a guisa di poeta per un bosco, un lupo terribile gli si fece incontro. Ebbene: non fu lui a fuggire, ma il lupo.
Ma avendo Orazio studiato da bambino le favole di Esopo, era stato avvertito dall’ottimo suo padre che il leone è generoso, ma ha tanta memoria che non dimentica mai. Ora Orazio aveva combattuto sotto Bruto contro Augusto alla battaglia di Filippi: e da uomo saggio qual era, viveva in sospetto che Augusto ricordasse.
La memoria di Augusto era quasi spaventosa.
Ma scomparve presto quella nuvoletta, e riapparve il sereno di un lieve sorriso sul volto di Augusto; il quale disse:
— Voi predicate bene e razzolate male.
— A quale proposito, o Divino?
— Che cosa facevate voi, — domandò Augusto, — il giorno delle calende di marzo?
Sacre erano le calende di marzo, e Augusto, pur avendo rivoltato la repubblica in impero, era fedele alla tradizione. Il giorno primo di marzo era proprio il giorno consacrato alle buone mogli. Esse andavano in processione al tempio della Dea Giunone, o Lucina, o Genitale, o Ilithia, e facevano sacrificii affinché l’anno che comincia fosse felice tanto per la fedeltà coniugale quanto per la prole che sta per venir fuori dalla buia casa di carne. Le matrone invocavano: «O Giunone, dacci soccorso!». Dicevano anche: «Aiutaci, o casta Lucina, a restare fedeli ai nostri mariti»; e in questo caso la Dea Lucina sarebbe stata Diana di cui è ben conosciuta la castità.
Dunque era gran festa familiare alle calende di marzo! Le matrone col soccorso delle ancelle facevano focacce dolci di miele, e adornavano la casa con fiori e corone, si scambiavano le focacce e gli augurii di fedeltà.
Alla domanda di Augusto, Orazio passò in rapido esame la sua coscienza e non gli risultò nessun peccato, in quel giorno.
— Non mi ricordo, Augusto.
— Allora vi richiamerò io alla memoria. — E lentamente svolgeva i fogli attorno al bastoncello, e lesse: «Martiis, caelebs, quid agam kalendis?».
Allora Orazio si ricordò di quelle parole: «Che cosa farò io, che sono celibe, oggi che è il primo giorno di marzo?». Erano il principio di una sua odicina, la piú innocente, la piú semplice: un invito a pranzo al suo buon patrono Mecenate, se si degna. «Siamo scapoloni tutti e due», aveva pensato Orazio, «ma vogliamo onorare lo stesso le feste dello Stato». Ecco quello che Orazio scriveva in quella sua odicina. E aveva detto a Fíllide, una graziosa servetta campagnola, di intrecciare corone di fiori, fare focacce con miele e rosmarino, arrostire un caprettino. Dispose alcune anfore di buon vino di sua produzione; e Mecenate, benché gran signore, e che sapeva mantenere le distanze, benché discendente dagli antichi re etruschi, benché consigliere di Augusto, aveva, nel caso speciale di un poeta come Orazio, superato anche le distanze fra Roma e Mandela, dove lí presso era la bella villa di Orazio. Avevano trascorso una giornata di vacanza in onesta allegria.
— Ah, non sapevate voi, celibe, che cosa fare alle calende di marzo? — continuò Augusto —. Ve lo dirò io che cosa dovevate fare: prendere moglie.
Questa intromissione nel tabernacolo della sua coscienza, Orazio non la avrebbe tollerata sotto Bruto, e gli convenne tollerare sotto Augusto.
— Non mi meraviglio di voi, — continuava Augusto; — ben mi meraviglio di Mecenate! Questi obesi etruschi seguitano a ridere anche sopra le tombe. Ebbene, beviamo papàliter!, — avete detto —, e vi siete ubbriacati come bertucce tutti e due; e allora avete visto tutto bello, tutto felice, tutto color di rosa: i Daci, i Persiani, gli Spagnoli, gli Sciti: tutti vinti e domati. I Parti sagittarii, sterminati. E lascia che i barbari si ammazzino tra loro! Non ci manca da conquistare che le ricchezze degli Arabi e i tesori dell’India. Meglio di cosí non può andare. Eia! Eia! Caro Mecenate! Stiamo allegri e pensiamo alla salute. Al resto ci pensa Giove. Consigli questi, — concluse Augusto con mutata voce — , da dare a un consigliere di Augusto?
Veramente Orazio aveva terminato la sua odicina con meno parole, anzi due parole che volevano dire: «per quest’oggi, Mecenate, non ti occupare di politica».
Piú che per lui, il rimprovero di Augusto dispiaceva a Orazio per riguardo di Mecenate; ma non era il caso di ribattere e molto meno poi di discutere chi aveva piú spirito: se i Romani a prendere tutto sul serio, o gli Etruschi a sorridere anche su le tombe. Però volle rispondere al primo rimprovero.
— Posso parlare?
— Parlate, — disse Augusto.
Orazio disse:
— Quando venni a Roma, ero un povero scrivanello che a fatica tiravo avanti la vita, eppure l’avrei sposata quella cara fanciulla! Ci eravamo fidanzati, ma è morta di mal sottile: brevi giorni gli Dei concessero a Cinare, e da allora sono rimasto fedele a quella santa memoria.
— Oh, compassionevole Orazio, — disse Augusto: — ciò non vi impedisce peraltro di frequentare le case di quelle scortille e meretricole galanti.
E gira ancora i fogli intorno all’asticella e dice:
— Versi, del resto, molto graziosi!
E lesse:
Finché io ero caro a te, |
— Vi avverto però che da una statistica da me fatta eseguire, risulta che due terzi di queste ragazze non sono elleniche, ma false elleniche: sono della Comarca e Ciociaria. Ciò non toglie! Badate che non vi faccio, no, Orazio, questione di moralità. Siamo uomini! Vi faccio soltanto osservare che il seme sparso su quell’arido terreno è infecondo. Da giovani, esse distraggono gli uomini dalle giuste nozze, turbano le famiglie; da vecchie non sono meno perniciose: diventano negromanti, indovine, strie: fan fatture, sortilegii, incantesimi.
— Anche dopo che Cinare morí —, disse Orazio — , ci avrei pensato a prendere moglie.
— Bravo, Orazio, non rimandate questa bella decisione ad kalendas graecas. Da genitori buoni e forti nascono alla patria figliuoli forti e buoni. L’avete pur detto!
— Già, la bontà c’è: ci sarebbe l’intenzione di continuare la stirpe di mio padre: ma è la gotta..., la terribile gotta.
— Bagni freddi e lattuga cotta a lesso, — disse Augusto. — La conosciamo la vostra sobrietà contadinesca: me pascunt olivae, me cichoreae, levesque malvae. Diàmola per vera. Io, invece, sul serio! E mi trovo bene per la prudenza del mio medico Antonio Musa. Ma vi regalerò un rècipe piú prezioso di Antonio Musa: la volontà. Io sono guarito con la volontà. Antonio Musa ne è meravigliato.
— Grazie del consiglio. Proverò, — rispose Orazio; — ma c’è di peggio, oltre alla gotta: temo anche di essere condannato al celibato...
— Oh, che diamine mi state dicendo? — esclamò Augusto.
E Orazio disse:
— Disgrazia, o Augusto! Non vedete? Sono obeso. Obeso e di mediocre statura. Non sono adorabile. Per di piú a me mi ha rovinato Ovidio; dal giorno che lui ha proclamato che ogni amante ha il dovere di essere pallido, nessuna damigella di buona famiglia mi vuole piú. Io sono rubicondo! Mi farò io il volto sbiancato con la cerussa?
— I romani di biacca! — esclamò Augusto per la prima volta iracondo: — «Ogni amante deve essere pallido!». I guasti che mi fa in Roma quello sciagurato di Ovidio, voi non li potete imaginare! Non vi parlo dei casi miei personali. Ah, voi, il vostro servo, potete avere dei casi personali: Augusto non deve avere casi personali! Quel ciarlone di Ovidio crede di essere originale con le sue metafore! Chiamare la via lattea, «la gran via per dove passano gli Dei quando vanno a fare omaggio al gran Tonante?» Oltre che stupido, ciò è irreligioso.
— Cosa volete, Augusto? — ammise Orazio, — Ovidio è nato coi versi belli e fatti nel ventre di sua madre.
— Non mi difendete quel vostro collega. Suggeritemi piuttosto un rimedio.
— Contro la letteratura di Ovidio? Come dichiarar guerra alle meretrici: niente da fare.
— Forse avete ragione, ma ci penserò io allora, — disse Augusto: — lo confinerò nel paese dei Cimmerii, dove c’è sempre nebbia e neve, e gli passeranno i calori.
— Grazia per lui, Augusto! Ha ormai cinquant'anni e dice che sta cosí bene in Roma, che è la città che proprio ci vuole per i suoi costumi. Orazio guardò Augusto e lo vide pensoso.
— Parliamo d’altro, — disse. — Da quanto tempo siete a Roma?
— Il padre mio mi ci ha condotto da Venosa che ero ragazzino.
— Lo sappiamo, lo sanno tutti che siete venosino. Non ve ne abbiate a male, Orazio: siete rimasto provinciale. Posso convenire con voi che ai poeti è lecito dire tutto quello che passa loro per la testa: ma voi oggi siete il poeta d’Augusto.
E Augusto riprende ancora a giocherellare con i fogli di carta intorno al bastoncello.
— Voi fate sottomano del frondismo contro la mia politica edilizia.
— Sottomano, proprio no!
— Sarà sopramano: ma i palazzi che si costruiscono in Roma vi irritano. Per poco non mi denunciate ai Romani come afflitto da mania monumentale. Considerate che quello che i posteri piú vedranno di Augusto, saranno questi marmi. Cerco che non siano deformi. Cosí almeno diranno: «Augusto non era deforme». E voi, Orazio, non siete a vostro modo monumentale?
Augusto gira i fogli e legge:
— «Innalzai coi miei versi un monumento piú imperituro del bronzo». Io mi accontento di travertino e marmo apuano. Voi volete bronzo!
— In poesia, o Divino!
— Andate andate, ché siete un bel fintone: vanitoso anche voi per la vostra parte. — E continuò: — Mi accusate anche di sperpero del danaro pubblico: «sedicimila libbre d’oro, gemme e perle per un milione e mezzo di sesterzii offerti a Giove capitolino. Le ville, le moli regali lascieranno poco spazio all’aratro; il platano sterile abbatterà gli olmi, mariti delle viti; i giardini odorosi faranno scomparire gli oliveti. E perciò Roma, diventata immensa, precipita per la stessa sua mole». Queste cose le avete scritte proprio voi, e mi dispiace. Caro Orazio! Guai se Roma perde il senso della sua eternità! Non ripetete più quel Roma ruit? — , E Augusto continuò: — Quando voi avete fatto il ritratto del vecchio brontolone, siete riuscito benissimo: avete copiato voi stesso. Basta, caro, con la saliera paterna, con le casette basse. Per poco non mi fate l’elogio degli Sciti e dei Geti che vivono errabondi come gli zingari nelle carovane. Voi siete di Venosa e io sono di Frascati: ma presentemente siete romano; avete anche voi una posizione ufficiale. Ora voi eccedete in questa vostra predilezione per il genere umile. State quasi per creare un luogo comune: l’aurea mediocrità. È un principio che potrebbe diventare pericoloso. A volte siete pindarico: esaltate Attilio Regolo, la vittoria di Azio, i trionfi romani; a volte siete anti-pindarico: le grandi opere umane le dite vietate dagli Dei. Vietato aver rapito il fuoco a Giove ? Vietato il volo di Icaro? Vietate le triremi che vinsero a Myle? che approdarono in Britannia con Cesare?
Questa grandinata irritò Orazio. Gli si leggeva in faccia: più che l’offesa al poeta, gli bruciava quella specie di derisione per la saliera paterna. Vada tutto, ma non la saliera di suo padre, contadino della sua propria terra, aratore della sua terra. Perciò disse:
— Posso parlare o devo tacere?
— Ma parlate.
Orazio disse:
— Parlerò in prosa. La parte agricola è stata affidata a ben più degno poeta di me. Riconosco nei miei versi dove manco e dove gonfio. Non dirò più Roma ruit! ma Roma in agricoltura sta poco bene. Virgilio e io, tutti e due del medio ceto rurale, angariato e impoverito, abbiamo fatto bene, lui dal nord, io dal sud, a diventar poeti di Roma? Comunque, io e Virgilio siamo esempi viventi di una gran trasformazione. Alla terra, o Augusto, non si ritorna più dopo che la si è abbandonata. Ve ne siete offeso di quello che ho detto? Augusto ascoltò pensoso, poi disse:
— Anzi! Virgilio, in fatti, sotto quel suo Deus nobis haec otia fecit, mi pare nasconda qualche rancura per le alienazioni e le distribuzioni che io feci ai veterani delle terre sul Mincio. Urgevano le necessità della guerra. Rimedieremo come potremo.
Mutò discorso, e domandò:
— Ditemi una cosa: avete molta paura della morte? Mi pare che voi abbiate una paura tremenda della morte. Troppo spesso vi accennate come quando dite: «Godiamo il piacere che quest’oggi ci appresta e non curiamo il domani». Ne derivano dottrine epicuree deplorevoli.
Orazio rispose:
— Vi dirò, o Augusto, che andare fra le genti camuse a cui la Morte rode il naso, non è un pensiero gradito. Negli affari di questo mondo, con un regalo di un paio di buoi si possono transigere molti affari: laggiù Plutone è illagrimabile anche col sacrificio di trecento buoi. Del resto anche Achille temeva la morte.
— Achille era un greco, — ribattè Augusto, — non era romano. La morte si accetta, si sottintende, si tace. Sarebbe un morire due volte se fossimo oppressi anche dall’ansia dell’oltretomba. Ma non parliamo più di queste cose. Scusate, Orazio, dimenticavo che voi siete immortale. Augusto invece, no. È mortale il suo organista. — Qui Augusto diede in un largo sorriso che turbò Orazio.
— Mai detto questo, — disse Orazio.
— Si che l’avete detto: ecco qui! — E Augusto puntava col dito sopra una pagina del volume dove un verso era notato col lapis niger. — Se non immortale in tutto, immortale in gran parte, — disse Augusto; e lesse: — «Una gran parte di me eviterà la sepoltura». Come sono vanitosi questi poeti ! Caro Orazio, siamo a un dipresso della stessa età. Io ho due anni più di voi e, a regola di giuoco, dovrei andarmene prima di voi. Perciò ordinerò per voi un bel mausoleo. Io, Augusto, avrò un mausoleo pili grande: ma, o mio lepido e illepido Orazio, quello che c’è dentro il mausoleo di Orazio non varrà molto di più di quello che c’è dentro il mausoleo di Augusto.
— Ma perché questi discorsi? — disse Orazio — . Se morite prima voi, vi vengo dietro e invito Mecenate a venire anche lui, come alle calende di marzo. Se muoio prima io, vi nomino mio erede universale; cosi vi pagherò l’imposta sul celibato.
— A parte gli scherzi, — disse Augusto, — credo che voi vivrete a lungo nella memoria degli uomini, e sarete ricordato specialmente come Orazio satiro. È li che siete più sincero e veramente amabile. Dite la verità: come sareste felice di poter fare la satira d’Augusto!... Quando tu mi guardi, o Orazio, io vedo nei tuoi occhi un’ombra: tu cerchi nella mia toga traccia di sangue. Io ho ucciso la libertà di Roma. Non impallidire, Orazio. Non è cosí che tu pensi in segreto ? Io ho immerso la spada nel petto di Bruto. Non ti faccio rimprovero del tuo rimpianto per Bruto. Un po’ usuraio, ma rispettabile romano. Pare a te che io sia il tiranno?
Questa domanda fece paura a Orazio.
Augusto riprese:
— Tu poi per farmi onore hai fatto ritrattazione dicendo che alla battaglia di Filippi hai buttato via lancia e scudetto. Ebbene, ti voglio contracambiare con un regalo.
Augusto si accostò a una mensola. Prese uno strumento che allora era comune e oggi fa spavento perché rappresenta il tempo e la morte: era una clepsidra.
— Tenete, Orazio, questo orologio, per esso meglio misurerete il tempo e i movimenti del tempo. Venite, venite, Orazio.
E Augusto condusse Orazio in vetta a una torre del palazzo imperiale. Sotto, immensa tumultuante, si distendeva Roma. Un murmure di alveare umano arrivava sino lassù. Si vedeva la serpe gialla del Tevere; i monti Albani erano nitidi in un velo di azzurro e di oro. — Osservate attentamente, o Orazio, questa turba umana. Si racconta che, un tempo, essa fu Senatus Populusque Romanus. Ora è un torrente che romba, che scorre, si urta, si rincorre, fa vortici e spume. Eppure sono miriadi di gocce, e ogni goccia ha un’anima. Chi le governa? Io? Iddio? Tutto è volgo. Volgo i senatori, volgo i censori, volgo i tribuni, volgo i cavalieri. Siete voi certo che tutto sia volgo? o non vi sorge il dubbio che anche i Trecento delle Termopili erano volgo? Voi dite « odio il volgo profano e me ne sto lontano »; infatti voi abitate nella vostra villa di Tivoli. Augusto non dice «odio», dice «amo»! Io non mi allontano; ci vivo in mezzo. Questo volgo balzerà dalle tombe ogni volta che una voce lo chiami a difendere la sua Roma. Voi, Orazio, dormite le placide notti. Augusto veglia! Si sveglia a mezzo la notte. Ode nella notte le sterminate genti che si affoltano, che muovono dalle rive dell’Istro e del Reno: mai Roma gli si parte dal cuore. Prega gli Dei affinché mai il sole non veda cosa piú grande di Roma. C’è sangue su la mia toga? C’è in Augusto nequizia di chi vuole un popolo di automi? un Senato di servi? Hai confuso Augusto con un re asiatico!
E rientrando la voce dell’Imperatore nella sua pacatezza, disse: — Sai piuttosto dove è il pericolo? Che manchi l’agapè, che manchi l’amore, che venga meno la fede. Allora è facile diventare tiranno. Mi aiutino gli Dei!
— O Augusto, — disse Orazio commosso, — concedete che il libero uomo Orazio vi abbracci le ginocchia.
E stava per chinarsi, ma Augusto lo raccolse dicendo:
— Potete abbracciare dove batte il cuore. C’è Virgilio che va sognando libertà in certi suoi versi strani, fuor dei secoli umani: « Già ritorna la Vergine, già stanno per ritornare i regni di Saturno ». Non capisco. La Vergine è la Dike celeste? Io non so interrogarlo con quella confidenza con cui interrogo voi. Come può il presente tornare alle origini? Il passato diventare futuro?
Augusto si tacque, e Orazio rimase senza parola con la sua clepsidra in mano.
Ruppe quel silenzio Augusto, dicendo:
— Siete invidioso di Virgilio?
— Invidioso io? Tutti i difetti, fuorché l’invidia.
— Bravo Orazio. Sto pensando a un ordine cavalleresco per gli uomini senza invidia. Uno dei primi decorati sarete voi.
— Grazie. Soltanto vorrei domandarvi: perché a me soltanto avete fatto rimprovero che non ho moglie? E Virgilio è celibe come me.
— Appunto quello che vi stavo dicendo: Virgilio, a differenza di voi, ha del sacerdotale e i sacerdoti sono esonerati dal matrimonio. Voi siete ineguale e contradittorio; eppure voi vi capisco di più. Virgilio pare assorto in non so quale mistero di fati lontani. Fugge via da Roma più che voi. Qualche volta direi che dentro la sua anima sia un enigma. E un curioso uomo, Virgilio! Egli sembra avere dubbii su la cagione delle cose. Sarà benissimo: ma io non posso ammettere agnosticismi! Quel mago di Virgilio però sa una cosa che io non so: sa arrivare al sentimento con la rapidità di una colomba. Io non sono facile alla commozione, ma quando Virgilio mi ha letto quei versi su mio nepote Marcello, ho provato un brivido: «Heu, miserande puer! Mànibus date lìlia plenis: porpùreos spargam flores». Mia sorella Ottavia pianse veramente e ne fu confortata.
— Cosi è, Augusto, — disse Orazio — : contro la forza della morte c’è appena rimedio nel palpito di pietà dei poeti.
Augusto non rispose. I suoi occhi si erano fatti vitrei. Parve a Orazio vedervi un velo di pianto che per quella dilatazione cercava occultarsi. Senti dire: .
— Addio, Orazio. Statevi bene. E come vanno i vostri olivi e le vigne di Tivoli?