Il bacio di Lesbia/I
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Presentazione | II | ► |
I
PROEMIO SU I CELEBRI CORROTTI
COSTUMI DEI ROMANI
Perciò, prima di cominciare il nostro racconto, bisogna pure che anche noi ci soffermiamo un momento in questa noiosa stazione.
Quando si dice «corrotti costumi», anche dei non Romani, di solito si intende mangiare e bere, vivere in lussuria, in mollezza, far baccanali, far saturnali. Andiamo però adagio, o santi Numi, tanto per i Romani come per noi! I corrotti costumi non sono una esposizione dove tutto è accumulato: ma sono spaziati nel tempo e nei luoghi; altrimenti si finisce a non credere più nemmeno ai corrotti costumi. E anche non dimentichiamo che di buoni costumi ci sono miniere, specie fra l’umile gente, sí da bastare alla salvezza dell’umanità.
Ma questa spiegazione orgiastica di corrotti costumi è superficiale: i corrotti costumi sarebbero piuttosto un imbastardimento, una disarmonia, un fenomeno di gigantismo e nanismo, una glandola che non funziona, un corto circuito, una disgrazia come alle pecore di Panurgio. Le stesse guardie che stanno con le spade di qua in difesa dei buoni costumi, allora le rivoltano di là; e si salvi chi può.
Prima, dunque, ci sarebbero stati i «virtuosi Romani» che poi sarebbero diventati i «corrotti Romani».
I virtuosi Romani non amavano l’oro, ma amavano comandare a quelli che possedevano l’oro.
La colpa fu di Annibale che giurò odio eterno contro Roma.
Oppure fu Giunone?
Quando Virgilio fa dire a Giunone: «gente inimica a me, malgrado mio, naviga in mar Tirreno», non si sente piú la favola: si sente il passo misterioso della Storia.
Annibale fu vinto nell’anno 202, e Cartagine fu poi distrutta poco piú di mezzo secolo dopo.
In quel mezzo secolo quale furore di forza e di gloria invade Roma? Mai il mondo conobbe gesta piú memoranda. Non furono soltanto i due Scipioni, fulmini di guerra, Scipione il giovine che vinse Annibale e Scipione Emiliano, il savio, che abbatté Cartagine: fu tutto un popolo. Fu lei, la lupa di Roma. Un impeto eroico la trascinò. A lavare la sconfitta del Trasimeno, di Canne, non bastò l’onda del Metauro, non il Nilo, dalle sette foci: alla vendetta non bastò la rovina fumante della città di Didone. Cadde Corinto. Cadde Numanzia. Crollò l’impero di re Alessandro. Quello che era stato l’impero di Alessandro trapassò in Roma. L’oro vi si riversò. I Romani si trovarono immersi in un mare d’oro: vi galleggiavano statue, monili, preziose bellezze, piú care dell’oro. E anche qui riappare il misterioso Virgilio quando dice: «A quali delitti tu non costringi i mortali, o sete orrenda dell’oro?»
A manovrare quell’oro, accorsero in Roma scribi e farisei: hanno corteo di gabellieri, dazieri, imprenditori, appaltatori, esattori. Si chiamano publicani, si chiamano cavalieri, diventano senatori: Fabrizio, Cincinnato, Decii, Fabii, van scomparendo. Il campicello di Cincinnato, chiamato al potere supremo dall’aratro e dal rastro, si ammalò e morí. O, console che da la chioma scomposta fosti chiamato, ecco gli unguentarii a profumare e lisciare i capelli ai nepoti di Romolo!
Dovunque Roma guarda, piú non vede nemici: dalla Fenicia alle Colonne d’Ercole il mare dei popoli è diventato mare romano.
In quelle guerre puniche molta cittadinanza romana si era spenta, nuove genti e costumi eran defluiti a Roma come onde per dighe spezzate.
L’oro, però, porta scalogna.
E anche qui viene a mente il capriccio degli Dei.
Oppure si potrebbe fare questa supposizione:
Quando avvenne la distruzione di Cartagine, i sacerdoti romani dissero agli Dei di Cartagine che se volevano, potevano trasferirsi a Roma, dove avrebbero avuto onori e templi. Fu allora che Scipione Emiliano disse a quei sacerdoti che pregavano di aumentare la potenza di Roma: «Roma è grande e potente abbastanza. Preghiamo gli Dei che la conservino sempre cosí».
Gli Dei orientali, essendo venuti ad abitare in Roma, si presero vendetta?
L’oro fa come l’idropisia: gonfia e asciuga. Molti divennero scarni, cioè falliti nel patrimonio. Bisogna rifare il patrimonio. Come si fa? si diventa conduttori di cori, di masse corali, ciò che i Greci dissero «demagoghi». Ecco demagoghi e plutocrati: i due poli dell’elettricità. Quanto popolo nuovo era defluito a Roma! Tutti cittadini romani, signori del mondo, ma pochi erano i grandi ricchi, moltissimi i poveri, le genti medie erano disperse. E allora quante leggi per far ritornare all’aratro e alla vanga quelli che si erano disabituati! ma per costoro era piú comodo vivere di elargizioni pubbliche o della sportula alle case dei ricchi. E poi, e poi? Questa plebe era la massa di manovra nelle elezioni per i demagoghi. Bei parlatori! Le leggi delle dodici tavole tremavano.
Cosí si dice: ma chi ne capisce qualche cosa?
Ne capiamo cosí poco del tempo in cui viviamo: che cosa possiamo capire di tempi tanto lontani? Le caste Vestali assistevano, impassibili, alle grandi ferite dello sport circense, e noi impassibili non assistiamo a altri spettacoli?
Se il gran Giudice verrà, come ci giudicherà?
Si direbbe che nel mondo cambia, ogni tanto, il modo di interpretare la vita. Si forma, si dilata una data interpretazione, che poi diventa norma di vita. La prudenza cambia nome e diventa stultizia, la parsimonia diventa grettezza. Le parole perdono il loro significato.
Storici solenni e poeti satirici latini esagerarono davvero! Celebre la cena di quel plebeo arricchito di Trimalcione: celebre il caso di quella dama imperiale che non riusciva a prendere sonno, perciò si travestí, e andò in incognito in luoghi disonesti. Quante esclamazioni! Oh, vergogna! oh, pudore! oh, orrore! Pareva che Roma dovesse precipitare e invece avanzò universale sul mondo per secoli ancora.
E come si poteva persistere a mangiare rape, fave, ceci, quando dall’Oriente venivano i Re Magi a fare omaggio di nuove sensazioni gioiose alla città trionfale?
Con quella loro classica sobrietà avendo i Romani accumulato grande sanità, ne potevano anche abusare: e in quella gioia dei triclinii c’è quasi una primitività.
Potevano le signore romane seguitare a stare in casa a filare lana, a tessere rozzo orbace, quando dall’Oriente arrivavano stoffe lievi, di lino e di seta, modelli di chitoni, clamidi, dalmatiche, anforette di rari profumi? vezzi, monili, esotismi di belle creanze, di parole e di riti?
Potevano le signore romane andare a piedi quando c’erano le basterne dove esse stavano sdraiate sotto i baldacchini? Efebi, galanti, con toghe lascive, volti imbiancati, chiome profumate, attendono le belle dame che passavano per il corso.
Come la basterna andava lenta al passo dei giganteschi servi di Siria e di Cappadòcia, cosí lente andavano le portantine del Settecento con la damina incipriata. Scalpitarono poi attelati ai landò i destrieri lucenti dell’Ottocento. E oggi le dame del Novecento premono su l’acceleratore, e via che vanno senza paura.
Non solamente gli Dei e le Dee avevano accolto l’invito di venire a Roma, ma anche le Muse alessandrine, e tutte decorate erano venute, ed era arrivata la carta alessandrina a formare «i volumi» attorno a un bastoncello con brighe porporine.
Insieme con le Muse alessandrine vennero in Roma alcune fanciulle che portavano bei nomi alla moda, e di Làlage, e di Lidya, e di Leuconoe. Oppure nomi derivanti dagli astri piú luminosi quali il sole e la luna: tali suonano i nomi di Dèlia e di Cynthia. Sapevano ballare danze sacre e profane, cantare canzonette leggiadre: far fremere le corde alle arpe e alle cetre. Erano intellettuali. Piú la civiltà si faceva piena e piú esse aumentavano; come le vespe quando l’uva diventa dolce.
Trovarono grazia, non solo fra i giovani, ma fra uomini maturi, gente politica e di studio. Le gravi matrone corsero in concorrenza.
Queste amabili fanciulle riempiono anche molte odi del caro poeta Orazio.
Ora queste fanciulle son tutte morte, e chi sa se questa terra di Roma, dove cosí riccamente germogliano le rose, tale non sia anche per le belle creature che quivi furon sepolte?
Orazio, pur uomo savio e moderato in tutto, si recava qualche volta a far visita a queste damigelle; e a Pyrrina la bionda, e a Myrrine la profumata, e a Leuconoe la bianca, e a Làlage la chiacchierina, e dava assennati consigli per il bene loro e della patria.
Come è? Come non è? Mi par di vederlo in casa di Pyrrina la bionda. Ella si adorna allo specchio. Si profuma, si pittura, si fa pettinatura da ragazza per bene.
— Va, va che ti conosco — , dice Orazio — io so quello che c’è sotto quel visetto sereno. Che spaventosi temporali! Per chi ti fai bella, o sirena? Chi è il giovane galante che ha preso il mio posto e t’aspetta giú nel roseto? Ah, come lo farai soffrire! Poverino, poverino!
E poi va dalla signorina Lidya.
— In nome di tutti gli Dei, — esclama Orazio, — vi prego, o bella dama, di non rovinarmi quel bravo giovine. Non cavalca piú quei terribili cavalli che hanno bisogno di freni tremendi: non si butta piú nel Tevere a nuoto. Non frequenta piú la palestra, ha abbandonato lo sport guerriero nel campo di Marte. Non fa piú i massaggi! Trascura il pentathlon!
Lui, Orazio, può frequentare quelle case e quelle dame con relativa immunità. Sembra dire: «A me, figliole, non me la fate! Io sono vecchio marinaio, ho fatto naufragio, ma mi sono salvato, sono arrivato a riva. Guardate, o profumate mie belle, il quadretto votivo che ho sospeso nel tempio al dio Nettuno per essermi salvato da voi».