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36 | alfredo panzini |
reste felice di poter fare la satira d’Augusto!... Quando tu mi guardi, o Orazio, io vedo nei tuoi occhi un’ombra: tu cerchi nella mia toga traccia di sangue. Io ho ucciso la libertà di Roma. Non impallidire, Orazio. Non è cosí che tu pensi in segreto ? Io ho immerso la spada nel petto di Bruto. Non ti faccio rimprovero del tuo rimpianto per Bruto. Un po’ usuraio, ma rispettabile romano. Pare a te che io sia il tiranno?
Questa domanda fece paura a Orazio.
Augusto riprese:
— Tu poi per farmi onore hai fatto ritrattazione dicendo che alla battaglia di Filippi hai buttato via lancia e scudetto. Ebbene, ti voglio contracambiare con un regalo.
Augusto si accostò a una mensola. Prese uno strumento che allora era comune e oggi fa spavento perché rappresenta il tempo e la morte: era una clepsidra.
— Tenete, Orazio, questo orologio, per esso meglio misurerete il tempo e i movimenti del tempo. Venite, venite, Orazio.
E Augusto condusse Orazio in vetta a una torre del palazzo imperiale. Sotto, immensa tumultuante, si distendeva Roma. Un murmure di alveare umano arrivava sino lassù. Si vedeva la serpe gialla del Tevere; i monti Albani erano nitidi in un velo di azzurro e di oro.