Il Tesoro (Latini)/Illustrazioni al Libro IV/Capitolo VII

Capitolo VII

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Brunetto Latini - Il Tesoro (XIII secolo)
Traduzione dalla lingua d'oïl di Bono Giamboni (XIII secolo)
Capitolo VII
Illustrazioni al Libro IV - Capitolo VI Libro V
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Capitolo VII.


L’ammaestramento poetico e morale di ser Brunetto intorno alle Sirene, fu occasione al genio del suo divino discepolo di questi ammirabili versi:

     Mi venne in sogno una femmina balba.
Con gli occhi guerci, e sovra i pie distorta,
Con le man’ monche, e di colore scialba.

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     Io la mirava: e, come il sol conforta
Le fredde membra che la notte aggrava,
Così lo sguardo mio le facea scorta
     La lingua, e poscia tutta la drizzava
In poco d’ora, e lo smarrito volto,
Come amor vuol, così le colorava
     Poi ch’ella avea ’l parlar così disciolto,
Cominciava a cantar sì, che con pena
Da lei avrei mio intento rivolto.
     Io son, cantava, io son dolce sirena.
Che i marinari in mezzo al mar dismago:
Tanto son di piacere a sentir piena.
     Io volsi Ulisse del suo cammin vago
Al canto mio, e qual meco s’ausa
Rado sen parte: sì tutto l’appago.

                                                       (Purg. XIX.)


Ancora sul Capitolo VII.


Ammaestra Brunetto: «La lussuria fu fatta a modo dell’acqua, che così come nell’acqua non si trova fine, così nella lussuria non si trova fine.»

Rispettando l’ottimo suo intendimento di insegnare a qualunque proposito la buona morale, quest’opinione è un ultimo riverbero della dottrina mitologica, secondo la quale, Venere era nata dal mare. Aveva per questo altresì il titolo Anadiomene, cioè [p. 128 modifica]uscente dal mare, applicato già alla Venere di Fidia. Apelle rappresentolla in atto di asciugarsi mentre usciva dal mare. Diconla uscita dal mare, Esiodo nella Teogonia: Orfeo nell’Inno 54: Museo, nel poema Leandro ed Ero: Omero, Inno II: Antipatro, Anthol IV. Virgilio, Eneid. lib. V: Catullo, Epigram. 37: Tibullo, Eleg. lib. I. eleg. 2: Ovidio, Eroid. 15, Fast. lib. IV: Ausonio, Epigram. 106: Teocrito, Idillio XV ecc.

Cantò Ugo Foscolo nel primo delle Grazie:

     Eran l’Olimpo, e il Fulminante, e il Fato,
E del tridente enosigèo tremava
La genitrice Terra. Ancor dagli astri
Pluto ferìa; nè ancora eran le Grazie.
Una Diva scorrea lungo il creato
A fecondarlo, e di Natura avea
l’austero nome: fra’ Celesti or gode
Di cento troni; e con più nomi ed are
Le dàn rito i mortali, e più le giova
l’inno, che bella Citerea la invoca.
Perchè, clemente a noi che mirò afflitti
Travagliarci e adirati, un dì la santa
Diva, all’uscir dei flutti ove s’immerse
ravvivar le greggie di Nereo,
Apparì colle Grazie; e la raccolse
l’onde jonia primiera, onda che, amica
Del lito ameno e dell’ospite musco.
Di Citera ogni dì vien desiosa
A’ materni miei colli. Ivi fanciullo
La deità di Venere adorai.

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Questo mito adombrava la dottrina dei Nettunisti, che prima fosse stata l’acqua, e da essa avessero avuto origine i viventi. I Vulcanisti insegnavano, che prima era stato il fuoco, e da esso aveva avuto origine la vita nelle creature.

Il mito di Venere, e la dottrina dei Nettunisti, è un’eco della Genesi, secondo la quale prima fu l’acqua, indi gli animali acquatici, poi i volatili, appresso i quadrupedi, ed ultimo l’uomo.

Per questa ragione Brunetto incominciò coi pesci la sua descrizione degli animali, come disse in principio. Segue poi cogli uccelli, e finisce coi quadrupedi. Ammaestra l’uomo nei quattro ultimi libri.