Il Raguet/Atto quarto
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ATTO QUARTO
SCENA I
Alfonso. Fazio.
in cittadin cosí cortese; queste
onestá, ch’ella ancor mi va facendo,
m’obligan senza cesso.
Fazio. Io cerco sempre
di far piacere ai forastieri.
Alfonso. Poco
fa, quando ha ben voluto ch’io conosca
quel letterato, mi sono avveduto
da ciò che ha detto, ch’ella è bello spirito;
però voglio pregarla d’onorarmi
del suo giudizio sopra una mia pezza.
Al mio parere è passata per una
de le piú belle pezze in questo genere,
ma sono assai ansioso di sentire
come sarebbe ricevuto qui.
Fazio. O signor, se è di tela, io me ne intendo
pochissimo.
Alfonso. Diman la porterò,
e la sommetterò alle sue lumiere.
Fazio. Oimé, non ne ho piú che appena una:
sgraziatamente e andò in pezzi.
Alfonso. Fi, fi,
ella non entra nel mio senso. Or dicami:
c’è qui chi si diletti di medaglie?
Fazio. Intende, penso, di medaglie antiche.
Alfonso. Sí, vostra signoria.
Fazio. Ce n’è piú d’uno.
Alfonso. Ho veduto un che se ne mela e m’ha
mostrato un medaglione molto spesso,
ma ne dubito. C’è qui qualche bella
serie di mezzan bronzo e di gran bronzo?
Fazio. Per questo poi converrá andar da chi
lavora in ferro e in rame.
Alfonso. E come stiamo
d’imprimeria?
Fazio. Vuol dire: imprimitura?
Alfonso. E troverò chi faccia de’ be’ tagli?
Fazio. So d’un chirurgo che ne ha fatto un ieri,
che non è troppo bello.
Alfonso. Intendo: tagli
dolci.
Fazio. Diamin chi taglia dolce?
Alfonso. Intagli,
stampe. Non gusta il linguaggio alla moda?
Pur corre in oggi fra i puliti; un piede
e un pollice or vuol dire un piede e un’oncia,
e non il dito della mano.
Fazio. Io giá
mi son accorto ch’ella parla appunto
come uno de’ nostri cittadin di qui,
ch’essendo stato due o tre mesi fuori,
non sa conoscer piú le nostre carte
e non vuol piú spade, danari o coppe,
ma trifoli e carotte, e la bassetta
ricusa e parla sol di faraone,
e la consorte sua giocando all’ombre,
per dir: «Qual è il trionfo?» chiede in suono
languente e rifinito: — Cos’è a tu? —
Ma presso noi sí fatte affettazioni
fanno ridere e dánno gran disgusto.
C’è anche un tal che non vuol mai scommettere,
ma sempre piria, onde or non ha altro nome
che il signor Piria.
Alfonso. 0 dica pure come
le pare, ché parlar come i plebei
non mi fará giá mai. Ma tutti questi
son conti. Se sapesse qual affanno
porto nel core, avria forse pietá
di me.
Fazio. Oimé, che gli è avvenuto mai?
Io mi dichiaro pronto ad adoprarmi
per lei, dove potessi.
Alfonso. Il suo sembiante
ed il proceder suo mi dán coraggio
di pregarla. Mi dica in grazia prima:
conosce Ersilia, la figlia d’Anseimo?
Fazio. Sí signor, l’uno e l’altra, ma non ho
in quella casa confidenza alcuna.
Alfonso. Vien detto che fra poco seguiranno
le sue nozze con certo forastiero
venuto qua da pochi giorni; or io
ho infinita premura di sapere
se ciò sia vero e se giá la parola
veramente sia data.
Fazio. In questo facil‐
mente potrò servirla. Ho un amico
che tutto giorno è in quella casa, suole
capitare al giardino su quest’ora
da la parte di lá; venga, da lui
sapremo il tutto.
SCENA II
Idalba, Anselmo.
signor Anselmo, par vergogna che
il parlare a la moda in queste parti
non si curi. Vedrá che spicco fanno
que’ due parlando in tal modo; io starei
tutto il giorno ad udirli, e tuttoché
non intenda a le volte quel che dicono,
non pertanto mi par che dican bene.
Anselmo. O Idalba, se poteste ben comprendere
che abuso sia lo storpiar cosi,
per non saperne veruna, le due
piú belle lingue del mondo! Perdiamo
i nostri piú be’ termini, le nostre
piú belle forme; nasce ciò da incuria
e dal non legger mai chi ha scritto bene.
Piacevi forse anche la crescimonia?
Idalba. Io credo in fatti che abbiate ragione;
ma, non saprei perché, gusto grandissimo
vo’ prendendo ancor io nel dir fi fi
in cambio d’oibò, nel dire in séguito
invece di dappoi, e debocciato
per dissoluto, e andare in tutti i sensi
cioè per ogni verso, e non s’intende
per dir che non si sente, e panno spesso
e lettera toccante e che so io.
Anselmo. Ma un matto ne fa cento, e il mal s’attacca
di leggeri e per tutto si propaga
con gran facilitá.
Idalba. Quando da prima
su la persona erâmo in dubbio ancora,
Ho anech’io i miei fini e negar non vi posso
che, dopo aver saputo esser Ermondo
il destinato a vostra figlia, il genio
che mi portava a lui non sia passato
al nuovo forastiero. A voi ben nota
è la necessitá che ad altre nozze
mi costringe.
Anselmo. Ma che? Cosí in un subito?
E senza altre notizie?
Idalba. Oh è ben da credere
che non concluderei sí presto e senza
cautele; ma egli è ricco, i’ so che egli ha
gran roba seco e di prezzo.
Anselmo. lo le auguro
buona fortuna, e m’offro al suo servigio.
SCENA III
Fazio, Alfonso e Aliso.
fatto trovare, in vece de l’amico
ch’io cercava, quest’uomo che vi è noto,
perché alloggia a lo stesso albergo vostro.
Affermand’egli d’essere al servigio
di quel signor medesimo, niuno
meglio di lui può darvi ogni notizia.
Alfonso. Galantuomo, io vi prego di appagare
in grazia una mia curiositá.
Dicesi che il padron vostro fra poco
sia qui per accasarsi, ma altri dice
che sia in trattato ed altri che il negozio
sia giá del tutto stabilito. Io vi
priego di palesarmi intorno a questo
palese a tutti.
Aliso. Dirò volentieri
quel ch’è giá noto a molti: il maritaggio
è fissato, anzi il tocco della mano
seguirá forse questa notte.
Alfonso. E ciò
voi sapete di certo?
Aliso. Tanto certo
che appunto a me sono appoggiati alquanti
apprestamenti, e mi convien però
con lor licenza andarmene.
SCENA IV
Fazio e Alfonso.
che questo fatto a lei rechi gran noia.
Applicava fors’ella a quella giovane?
Alfonso. O amico, se sapeste! Era giá fatto
— si può dire — il negozio, lo trattava
un amico per lettere, poc’altro
rimaneva, se non ch’io la vedessi
e ne fossi contento. Ora mi spiace
estremamente d’averla veduta,
perché ne sono amoroso. Assai piacemi
il suo bel tinto e molto la sua taglia.
Ma vi assicuro ch’ella ci discapita
molto; io non son di condizion sprezzabile,
mio padre presso noi vien detto «il ricco»,
tutto curto. Io le avea portata una
toeletta, fatta giustamente come
quella di certa principessa. Prenda
saggio da questo stuechio d’oro: è fatto
Fazio. Sará forse
la bottega: i’ n’ho uno, ch’è assai simile,
fatto a «la Vigilanza».
Alfonso. E in oltre poi:
che letto! che ridò!
Fazio. Forse dal ridere?
Alfonso. Vuol dir cortine, tendine, bandine.
Avrebbe in casa mia ritrovata una
superba stanza, dove non avrebbe
dal basso all’alto veduto se non
specchietti, scodellini e pignattelle.
S’io produrrò solamente le cose
che ho meco —
Fazio. O capitano, dove, dove
con tanta fretta?
SCENA V
Capitano e detti.
ma per usanza e natural costume
passeggio di quest’aria.
Alfonso. È capitano
questo signore?
Fazio. Al certo, e dèe fra poco
marciar col reggimento.
Alfonso. Opportunissimo
al mio pensiero ei giunge, perch’io, a dirlavi,
mi trovo cosí afflitto cosí arrabbiato
per questo mancamento di parola
che mi vien fatto che né voglio piú
star qui, né ritornare a casa: io voglio
cercar fortuna alla guerra, ci ho sempre
se c’è modo.
Fazio. Noi faccia cosi in fretta,
vuoisi prima pesar tutto; il corrivo
facilmente s’imbarca. Ma su questo
l’ufizial che abbiam qui può dar buon lume,
e lo fará volentieri, ch’è pieno
di cortesia.
Alfonso. Signor, mi favorisca:
suo reggimento è di cavalleria?
Fazio. Signor, si.
Capitano. Signor, no; è di dragoni.
Fazio. Ma non vanno a cavallo?
Capitano. Veramente
c’era cavalleria grossa e leggera
una volta, ma or parlan cosi.
Alfonso. S’ingaggia qui al presente?
Fazio. Che^è mai questo?
Capitano. Voglion dire: arrotare ; io intendo tutto,
perché piu d’uno parla cosi arabico
anche fra noi ; e dirá per esempio
come un tale è venuto di levare
la paga, il che Dio sa che effetto faccia;
né va sul terrapien, ma sul ramparo.
Si, signor, si fa gente a tutto andare,
e tre scudi si dán di donativo.
Alfonso. Cioè d’ingaggiamento.
Capitano. Come vuole.
Alfonso. Nel reggimento suo ci son ussári?
Capitano. Non giá, ma ben molti sassoni. Voglio
parlar anch’io coiti’ ei fa.
Alfonso. La montura
è bella?
Fazio. O che dici?
Alfonso. Poco fa ho veduto
delle monture con bei para man.
Capitano. Il mese scorso
un colonnel mandò a dire a un mercante,
che gli Iacea bisogno della roba
per far dei paramenti. Quei credette
volesse fare dei parati, e molta
quantitá fe’ venir tosto di drappi.
Ma bastò poca roba, non cercavansi
se non le mostre dei vestiti nuovi ;
il mercante però volea far lite
per la spesa del pòrto. Ora la prego:
che nuove porta? come va il famoso
assedio?
Alfonso. Gli assedianti giá hanno fatto,
piú giorni sono, sommare il presidio.
Fazio. Non era meglio sottrarlo?
Capitano. Eh, significa
intimare la resa.
Alfonso. E non essendosi
voluti rendere, è stata piantata
una gran batteria su la montagna
Capitano. Eli’è una collinetta.
Alfonso. — che comanda
la cittá.
Fazio. Ha il comando la collina?
Capitano. In nostra lingua si dice che domina.
Alfonso. Essendo i pezx.i carichi a mitraglia.
Capitano. E come dire a sacchetto.
Alfonso. È seguito
gran massacro.
Fazio. Che c’era mai di sacro?
Capitano. Eh, vai macello, strage.
Alfonso. E son rimasi
massacrati molt’altri in altro sito,
perché ci han fatto fuoco sopra per
p 1 u t o n .
per Plutone?
Capitano. Eh, non c’è Pluton, né Cerbero;
in francese si scrive peloton.
E pronunziando stretto par ploton ,
che vuol dir per manipolo, per truppa,
per spartimento. Ed alcuni hanno inteso
di Plutone, e Plutone han sempre in bocca.
Ma in grazia, amico Fazio, permettetemi
di seguitare il mio passeggio; io debbo
con sua grazia, signor, portarmi altrove.
Alfonso. Io veggo il mio valletto di buon passo
venir vèr qua, forse mi va cercando.
Fazio. La lascio adunque in libertá con esso.
SCENA VI
Lrppo e Alfonso.
Alfonso. che hai? Che c’è?
Lippo. Una gran cosa vi ho a dir: son corso
si forte che ho inciampato e quasi quasi
mi son rotto la testa.
Alfonso. È stato forse
rubato?
Lippo. Si, ben altro; ora i’ so tutto.
Caspita, voi non sapete; io non posso
dir tutto a un fiato: quell’Ermondo, quegli
ch’è alloggiato ove noi; ma c’è un Anseimo,
e Aliso servitor, da cui pian piano
ho ricavato.
Alfonso. Che? Non ti confondere.
Tu sai pur quante volte i’t’ho grondato
per questo tuo parlar senza proposito.
Lippo. Qui non c’è gronda né pioggia: stanotte
si toccherá la mano.
Alfons > Il so pur troppo.
Lippo. Non vi voglion per nulla, e tutti vogliono
solamente quell’altro.
Alfonso. Or hai tu altro
da nunziarmi il mio pazzo?
í.ippo. Ma voi
non sapete il perché; voi non sapete
come sta la faccenda: cercan voi.
prendendo quello; quegli è come voi;
séte voi che si ammoglia, ma la sposa
l’avrá quell’altro; e a voi la dá suo padre,
ma Ermondo dormirá con essa, lo dico...
io dico ben, se ben m’imbroglio un poco.
At.fonso. Deh! adagio, prendi fiato, parla chiaro.
Lippo. Dico ch’Ermondo vieti creduto Flavio;
onde, se vi dá l’animo di fare
che si conosca che voi siete voi,
non la daranno piú a lui.
Alfonso. Che di’ tu.
Lippo? E possibil ciò? Come ne puoi
saper tanto?
Lippo. Da Aliso il cameriere,
ch’è mio amico, rilevo eli’è cosi
come vi espongo; perché il suo padrone
arrabbia che lo chiamali Flavio e che
non voglion ch’egli sia chi è; ma
per accomodarsi ed aver la fanciulla,
per cui è cotto, il furbo lascia correre,
pensando poi — non mi ricordo il come
rappattumare ogni cosa.
Alfonso. Un c o c h i n o
convien ch’e’sia; ben ne avrá ciò che merita.
Vo’ a ritrovarlo súbito e gl’insegno
ch’ei non fará altre nozze.
Lippo. Il conoscete
voi, padrone? È vestito di giallò.
Ecco che mi ricordo ancor di quando,
perché non seppi dir dorè e giallò,
voi mi deste de’ piedi nel culò.