Il Quadriregio/Libro secondo/XVIII

XVIII. Dove si tratta delli centauri

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
XVIII. Dove si tratta delli centauri
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CAPITOLO XVIII

Dove si tratta delli centauri.

     Quando giunsi nel monte suso ad alto,
mirai la valle, maledetta chiostra,
ove i centauri stanno a far l’assalto.
     Come soldati, quando fan la mostra,
5spronando lor cavalli, van gagliardi,
o come cavalier che vanno a giostra;
     cosí i centauri lí con archi e dardi
descorron per la valle a mille, a cento,
veloci piú che tigri o leopardi.
     10Palla scendea la costa a passo lento:
e ’l sesto miglio avea a scender forse,
quand’io ebbi timore e gran pavento;
     ché ’l maggior de’ centauri sí s’accorse
di noi che scendevamo, e presto e fiero
15con ben mille de’ suoi, venendo, corse.
     Non si mosse corsier mai sí leggiero,
né capriolo ovver corrente cervo,
com’ei correva superbo ed altiero
     coll’arco teso in man. Ed in sul nervo
20egli avea giá una saetta posta;
e, giunto, disse col parlar protervo:
     — Fermate i passi e fate la risposta:
con qual licenza qui, con qual valore
ardite voi di scendere la costa,
     25senza licenza del nostro signore,
che ’n mezzo il mondo siede triunfante,
come re principale e imperadore?

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     A te saettarei, che vien dinante,
se non che allo scudo mi rassembre
30amica di Perseo ed al sembiante.—
     La dea rispose:— O animal bimembre,
a cui ha dato forza il fiero Marte,
e con cui ’l sol sta in mezzo di novembre,
     l’onor dell’arme è anco mio in parte.
35Io son Bellona, che costui scorgo,
che do nelle battaglie ingegno ed arte.
     Veder lo puoi, se bene sguardi il Gorgo,
ch’io porto nel mio scudo de cristallo,
che per difesa innante al petto porgo.—
     40Chiron, che inseme è uomo e cavallo,
udito questo, gli fe’ reverenza,
e féla far a ciascun suo vassallo.
     Allora io scesi giú senza temenza
ivi fra loro; e, poi ch’io vi fui giunto,
45uomini vidi stare a gran sentenza;
     ché da’ centauri a lor bevuto e smunto
era lo sangue da tutte le vene,
quanto ve n’era insin ch’era consunto.
     E, quando è vòto, che piú non ne viene,
50e’ son compressi e messi allo strettoio,
e trattogli ogni umor con guai e pene.
     Io vidi alcun solo aver l’ossa e ’l cuoio,
e volergli esser anche il sangue tratto,
gridando lui:— Oimè, oimè, ch’io muoio!—
     55Tra lor iustizia ha posto questo patto:
che poscia son lasciati insin che cresce
in loro il sangue e l’umor sia rifatto,
     e poi ripresi, ed anco quanto n’esce
lor tolto è ’l sangue, e, poiché son bevuti,
60restretti sonno e messi alle soppresce.
     Fra quegli spirti magri e desvenuti
Minerva, andando, tanto mi condusse,
che tra quei duoli pungenti ed acuti

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     io trovai ’l Laberinto; e ch’ello fusse
65nol conoscea, se non ch’io vidi dentro
quel che del toro Pasife produsse.
     Egli mugghiava fortemente, e, mentro
stav’io a vederlo e ad udir i lamenti,
che l’anime facean nel cieco centro,
     70venían tre alme a quelli gran tormenti
belle e membrute, pien di sangue e grasse,
ma nella vista angosciose e dolenti.
     Come leon, che allegro e crudo fasse,
vista la preda, e mostra maggior ira,
75non altramente Nesso inver’ lor trasse,
     il quale amò la bella Deianira.
Trasse il centauro che nutrí Achille,
e come sanguesuga il sangue tira.
     Trasse Medon ed Imbro e piú di mille;
80ed ognun le succhiava quanto puote,
come cagnol che succhia le mammille.
     Poscia che l’alme fûn del sangue vòte,
divennon magre, ed ognuna si fece
qual è la fame indosso e nelle gote.
     85Diss’io:— O spirti, se parlar vi lece,
chi foste e perché sète sí destrutti?
per qual iustizia o colpa o in qual vece?
     — Capitan di campagna fummo tutti
— rispose l’uno,— e qui per un cammino
90venuti a queste pene e a questi lutti.
     Ed io, che parlo a te, sono Ambrosino,
figliuol di Barnabò, del gran lombardo,
e sol qui tra costor io fui latino.
     L’altro, ch’è qui, è Annichin Mongardo;
95fra Moriale è ’l terzo; e questa asprezza
abbiam, ch’ognun fu crudo e fu bugiardo.
     E molt’erra chi crede aver fermezza
fede d’uom d’arme ovver di meretrice,
da che ’l denaio a suo piacer la spezza.

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     100Se ben attendi al mio parlar che dice,
vedrai ch’amor e fede mal si fonda,
quando l’utilitate ha per radice.
     Perché alla colpa la pena risponda,
noi siam succhiati, che smongemmo altrui,
105quando noi fummo in la vita gioconda.
     Se tra li vivi perverrete vui,
dite a color che vanno a saccomanno,
che faccian sí ch’e’ non vengan fra nui.
     Dite a Ioanni Aguto il nostro affanno,
110a Ioan d’Azzo, agli altri compagnoni,
che per centauri su nel mondo stanno,
     che la lor crudeltá li fa pregioni,
ed e’ si fan la corda che li mena,
ove stan questi del sangue ghiottoni.—
     115Ed io a lui:— Ai miseri c’han pena,
avervi compagnia, o n’han diletto,
o veramente alquanto il duol raffrena.
     Però mi di’ perché hai tu suspetto
che alcun non venga qui in questa soglia,
120ché non intendo ben perché l’hai detto.—
     Ed egli a me:— Non per ben ch’io lor voglia,
ma come su in ciel di piú consorti
è piú letizia, qui è maggior doglia.—
     Poi, perché funno allo strettoio attorti,
125per quella afflizion piú non mi disse;
onde n’andammo tra’ centauri forti.
     E poco er’ita Palla, che s’affisse;
e trovammo un gran mostro, in cui coloro
curson cogli archi, e ciascuno el trafisse.
     130Sí come fa il leon che prende il toro,
che ’l morde e per la fretta nol manduca,
ma succhia il sangue dove ha fatto il foro,
     ovver come fa l’orso, quando suca
il favo mèl; cosí facean ad asto,
135succhiando il sangue a quel per ogni buca.
     —

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     Diomede son io, che son sí guasto—
— diss’egli a me,— che giá gli uomini vivi
diedi a’ cavalli miei per biada e pasto.
     Se tu nel tuo emispero mai arrivi,
140prego che di lassú da te si dica
(ed a chi nol puoi dir, fa’ che lo scrivi)
     che chi degli altru’ affanni ovver fatica
pasce cavalli o altra cosa vana,
e chi, robbando, sua vita nutríca,
     145sará menato in questa valle strana,
ove stan questi del sangue assetiti
vieppiú che ’l cervio alla viva fontana.—
     Poscia che avemmo i suoi sermoni uditi,
Minerva verso un monte la via prese,
150nel qual senz’ali mai saremmo iti;
     ch’avea le ripe sue tanto distese,
che, secondo che disse la mia scorta,
nullo mai vi salí ovver descese.
     Vero è che giú ai piè era una porta,
155la quale aveva scritto su l’usciale
queste parole in una pietra smorta:
     «Chi vuol montare insú, di qui si sale;
e suso sta in una gran pianura
il gran Satán altiero e triunfale».
     Allora intrammo quella porta scura.