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capitolo xviii 187

     Diomede son io, che son sí guasto—
— diss’egli a me,— che giá gli uomini vivi
diedi a’ cavalli miei per biada e pasto.
     Se tu nel tuo emispero mai arrivi,
140prego che di lassú da te si dica
(ed a chi nol puoi dir, fa’ che lo scrivi)
     che chi degli altru’ affanni ovver fatica
pasce cavalli o altra cosa vana,
e chi, robbando, sua vita nutríca,
     145sará menato in questa valle strana,
ove stan questi del sangue assetiti
vieppiú che ’l cervio alla viva fontana.—
     Poscia che avemmo i suoi sermoni uditi,
Minerva verso un monte la via prese,
150nel qual senz’ali mai saremmo iti;
     ch’avea le ripe sue tanto distese,
che, secondo che disse la mia scorta,
nullo mai vi salí ovver descese.
     Vero è che giú ai piè era una porta,
155la quale aveva scritto su l’usciale
queste parole in una pietra smorta:
     «Chi vuol montare insú, di qui si sale;
e suso sta in una gran pianura
il gran Satán altiero e triunfale».
     Allora intrammo quella porta scura.