Il Quadriregio/Libro secondo/VIII
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CAPITOLO VIII
Dove trattasi della pena del gigante Tizio e quello ch'e' significhi.
Caròn la nave irato addietro mosse
e Palla opposta a lui mosse le piante;
e quasi un miglio credo andato fosse,
che trovammo giacere un gran gigante
5legato in terra e dietro resupino,
e sopra lui un gran vóltore stante,
che ’l becco torto avea come un uncino:
il petto gli smembrava il grande uccello
con grave doglia al misero tapino.
10— Minerva mia— diss’io,— che mostro è quello,
a cui il fegato dal vóltore è roso
tanto, che poco n’è rimaso d’ello?—
Perché «mostro» il nomai, gli fu noioso,
al mio parer; però la testa grande
15alzò, parlando irato e desdegnoso.
E disse:— O tu, che qui di me domande,
Tizio son io, a cui ’l fegato pasce
questo avoltore e tutto il giorno prande.
E poi la notte in petto mi rinasce
20e fassi preda allo bramoso rostro:
queste pene sostengo e queste ambasce.
Simile a me, che m’hai chiamato «mostro»,
in ciascun uomo è la parte mortale;
e che questo sia vero, io tel dimostro.
25Come vóltore, il caldo naturale
l’umido radicale in voi divora,
poi rinasce del cibo, ma non tale,
però che sempre la lega peggiora;
oltre la gioventú putrido fasse;
30per questo l’uomo invecchia e discolora.
Se ’l cielo sopra voi non si voltasse,
non averebbe il detto uccello il pasto,
né converria che cibo il ristorasse.
E se a me il petto è roso e guasto,
35la notte integramente lo risaldo;
sí che io in sempiterno vivo e basto.
Ma quel ch’è in voi consumato dal caldo,
se si rifá per prandio ovver per cena,
non sempre è sí perfetto, né sí saldo.
40E questo alla vecchiezza e morte mena,
e fame e sete; sí che vostro stato
vien meno ed ha a questa simil pena.—
Io non risposi, quand’ebbe parlato,
ché non volle Minerva; ond’ei la testa
45ripose risupina insú quel prato.
Trovammo poi in una gran foresta,
quant’un gigante grande, la Vecchiezza
tra molta gente dolorosa e mesta.
Ell’era guizza e piena di gravezza,
50magra, canuta e senza nessun dente,
poggiata ad un baston per debilezza.
Dirieto a lei veniva una gran gente,
che parevano vivi, ognun coniunto
inseme con un morto puzzolente.
55Cosí erano uniti a punto a punto,
sí come san Macario e san Bordone,
quand’un viveva e l’altro era defunto.
Quand’io considerai cotal passione
esser coniunti i vivi colli morti:
60— Oimè!— diss’io,— oh quanta afflizione!—
La vecchia mi guatò con gli occhi torti
e dissemi:— Se mai nel mondo riedi
dietro a colei che t’ha li passi scorti,
simile a quella pena, che tu vedi,
65lí troverai e le person penose.
Ma, perché forse questo a me non credi,
sappi che ’l mondo nomina le cose
non per diritto, ma per lo traverso:
però le veritá gli son nascose.
70Quando l’uom nasce nel mondo perverso,
che a vivere incomincia usate dire;
ma questo dir dal ver tutto è diverso,
però ch’allora incomincia a morire;
e, perché insieme insieme vive e more,
75col vivo il morto è lí anco l’unire.
Tutti gli anni, li mesi e tutte l’ore
che son passate, e ciò c’ha ’l tempo scemo,
nell’uomo è morto ed è di vita fuore.
Oh quanto è stolto quel, che ’l «ben faremo»
80conduce insino al serrar delle porte
e ’l ben poi principiar in sull’estremo!
Queste alme son dannate a cotal sorte,
perché nel mondo non fûr le lor vite
vive nell’operar, ma pigre e morte.
85E, se ben miri, son qui ben punite,
ché vive dalli morti hanno tormenti,
e come morte a morti sono unite.—
Quando ebbe detto delli negligenti,
piú oltre mi mostrò quivi dappresso
90l’Infermitá, che facean gran lamenti.
E disse:— Su nel mondo vanno spesso;
non può fare Ipocráte ed Avicenna
che ’l corpo uman non sia da loro oppresso.—
Non poteria giammai scriverlo penna
95la schiera grande che io vidi de’ Morbi,
che fere all’uom, o che ferir gli accenna.
Quivi eran zoppi, monchi, sordi e orbi;
quivi era il Mal podagrico e di fianco,
quivi la Frenesia cogli occhi torbi.
100 Quivi il Dolor gridante e non mai stanco,
quivi il Catarro con la gran cianfarda;
l’Asma, la Polmonia quivi eran anco.
L’Idropisia quivi era grave e tarda,
di tutte Febbri quel piano era pieno,
105quivi quel Mal che par che la carne arda.
Sí d’ammirazione io venni meno,
ch’arei laudato l’error d’Origene,
se non che Fede a me tirò il freno.
Dice che l’alma, che nel corpo viene,
110è un dimonio, il qual Iddio rinchiude
dentro alla carne sol per dargli pene.
E però il corpo umano è fatto incude
di tutti i colpi che ’l mondo saetta,
perché di sua superbia si denude.
115— Sta’ fermo su la Fede, ch’è perfetta,—
disse Minerva, che, senza mio sermo,
vedea l’opinion, ch’i’ avea concetta.
Ed io a lei:— Perché nel corpo infermo,
subietto al cielo e brutto e tanto vile,
120che tanto o poco piú è vile un vermo,
l’anima nostra, ch’è tanto gentile,
Dio la rinchiude ed in lui la trasfonde?
Trovò piú miser loco o sozzo o vile,
ove materia in nulla corrisponde
125alla sua forma? E però maraviglio
che l’anima del corpo si circonde.—
Come si schiara il padre verso il figlio,
che si rallegra quando egli ha ben detto,
cosí la dea ver’ me rallegrò il ciglio.
130E disse:— Se ’l volere e lo ’ntelletto
con vostra carne fosse insieme unito,
il vostro arbitrio saria al ciel subietto.
E s’egli fosse dal cielo impedito,
non ritrarria la carne, che rimove
135spesse fiate dal vano appetito;
ché, se lo corpo all’obietto si move
e ’l voler vostro fusse uno con lui,
fren non sarebbe a ritirarlo altrove.
Questo è principio per provare a vui
140che puote l’anima aver subsistenza,
forniti che ha ’l corpo i giorni sui.—
Io anche dissi:— O dea di sapienza,
se ’l ciel mi tira, ed io tirato vado,
mosso dal corso ovver dall’influenza,
145dunque che biasmo avrò, se fo alcun lado?
O che loda e che onor io debbo avere,
s’io surgo al bene o s’io nel mal non cado?—
Ed ella a me:— Il ciel ’n voi ha potere
solo nel corpo, e s’e’ al mal corresse,
150il vostro velle il puote ritenere.
Se prava ancor complessione avesse
da tempo o loco o da suoi genitori,
esser potrebbe ch’al mal si movesse;
perché, secondo che ’n voi son gli umori,
155cosí si move il carnal desidèro
ad ire, invidie, ad odii ed amori.
Ma volontá in voi ha ’l sommo impero
di ciascun senso umano, e può guidarlo
e soggiogarlo ad ogni ministero.
160Dunque l’arbitrio, del qual io ti parlo,
perché guida il timon di tutto il legno
e può a scoglio ed a porto drizzarlo,
di biasmo e loda egli diventa degno,
secondo che va ritto o che devia
165dal dritto porto ovver dal dritto segno.—
Poscia di quindi noi andammo via.