Il Quadriregio/Libro secondo/VI

VI. Come l’autore, uscito dall’inferno, venne nel mondo nell’emisfero di Satan

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
VI. Come l’autore, uscito dall’inferno, venne nel mondo nell’emisfero di Satan
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CAPITOLO VI

Come l'autore, uscito dall'inferno,
venne nel mondo nell'emisfero di Satan.

     Non è nella riviera genovese,
ovver tra gli Alpi freddi della Magna,
né trovariasi mai ’n altro paese
     aspera tanto e repente montagna,
5quant’una, che trovammo sí alpestra,
che fe’ maravigliar la mia compagna.
     Mirando intorno, io vidi una finestra
a piè del monte con questa scrittura,
la qual legger mi fe’ la mia maestra:
     10«Voi, che salir volete su all’altura
e che volete uscir di questo fondo,
intrate dentro questa buca oscura.
     Qui è la via che mena suso al mondo:
chi salir vuol, convien che pria qui entre
15e saglia poi, girando suso a tondo».
     Minerva poi mi mise dentro al ventre
del duro monte, e forse un miglio er’ito,
che dietro a lei insú salendo, mentre
     io venni manco, caddi tramortito
20e ratto al ciel, sí come Ganimede
quando Tonante fu da lui servito.
     Lí mostrato mi fu come procede
da Dio l’anima nostra, allora quando
al corpo organizzato la concede.
     25Infundendola Dio ’nsieme e creando,
non di materia, ma celeste forma,
l’unisce al corpo e dona al suo comando.

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     Poi torna’ in me com’uom che prima dorma;
e, su levato, presi il dur viaggio
30dietro alla dea, de’ piè seguendo l’orma.
     Sei miglia er’ito, quando vidi il raggio
del chiaro sole scender d’una buca;
onde Minerva a me col parlar saggio:
     — Insin lassú convien che ti conduca
35e per quel foro ti convien uscire,
se vuoi vedere il sole e che a te luca.—
     Allor piú ratto cominciai a salire,
ché di veder il sole avea disio;
ed ella mi spronava col suo dire.
     40Ma dicea meco:— Or come potrò io
caper pel foro di quel sasso fesso,
che non è una spanna, al parer mio?
     E, quando fui a quel pertuso appresso,
vi pontai ’l capo per la voglia presta,
45tanto che un poco fòra l’ebbi messo.
     E poscia ne cavai tutta la testa;
poi la persona mia sospinsi tanto,
ch’io n’uscii nudo senz’alcuna vesta.
     E caddi in terra con omèi e pianto;
50e quando prima il miser occhio aperse,
vidi una vecchia brutta starmi a canto.
     Questa le membra nude mi coperse;
poi, come donna riputando dice,
queste parole inver’ di me proferse:
     55— Io son la Povertá, prima nutrice,
che l’uom ricevo colle membra nude,
quand’egli arriva nel mondo infelice.
     E quando gli occhi a lui la morte chiude,
vo con lui alla fossa e lí rimagno,
60ove l’altre person si mostran Iude.
     E mentre in vita con lui m’accompagno,
sí impazientemente mi sopporta,
che fa di me sempre querela e lagno.

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     Niente reca, quando al mondo apporta;
65e fatica e timore è la sua vita;
ed al partir niente se ne porta.
     Allor conoscer può nella partita
che ’l vostro essere umano è come un sogno,
e sogno par la parte che n’è ita.
     70Sí come l’òr, ch’è falso e di mal cogno,
vanisce al foco, vostra vita manca;
e ciò ch’è falso manca nel bisogno.—
     Poi levai sú la mia persona stanca,
e la vecchia tacette e poi disparve;
75ond’io gli occhi voltai dalla man manca.
     Mentr’io mirava, una cosa m’apparve
mirabil sí, che, a volerla narrare,
le mie parol mi paion levi e parve.
     Vidi un gigante giovine cantare,
80bello e membruto e col leuto in mano,
e lieto lieto cominciò a ballare
     e coglier fiori su pel lordo piano;
e poi mi parve che s’inghirlandasse
di quelli fiori come garzon vano.
     85Ed una rota grande, che voltasse
di sopra a lui, e, quando ella si volve,
parea che a poco a poco il consumasse.
     Come di neve statua si risolve,
quando sta al sole, cosí a poco a poco
90si disfece e di poi diventò polve.
     Quasi fenice antica, che nel foco
arde se stessa e poi delle penne arse
un’altra nasce nuova ed in suo loco,
     cosí di quella polve un altro apparse
95giovin gigante e inghirlandò le chiome,
sotto la rota ancora a consumarse.
     Costui addomandai come avea nome,
ed anche dissi a lui ch’io avea brama
di quel disfar saper il quale e ’l come.

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     100Rispose:— Il nome mio come si chiama
non posso dir, ché da me fu negletto
quell’operar, che, morto, vive in fama.
     Io con mill’altri e piú sto qui subietto
a questa rota, che di sopra volta,
105che muta a parte a parte in noi l’aspetto;
     ché della vita breve avemmo molta,
e negligenti andammo a passo lento
sino all’estremo, dove ne fu tolta.
     Però ha fatto Dio che in anni cento
110nessun vive di noi piú di mezz’ora,
e l’altro tempo in polve giaccia spento.
     E questa pena ha l’uom nel mondo ancora;
che, mentre il ciel a lui si volve intorno,
a parte a parte conven ch’egli mora.
     115Cosí a morte corre in ogni giorno
mosso dal tempo, che volando passa
e, poich’è ito, non fa mai ritorno.
     E quella dea, che scrive il tempo e cassa
il cammin tutto dell’etá compiuta,
120un delli mille trapassar non lassa.
     Il cielo è quella rota che trasmuta
tutte l’etadi della vita breve
e che la testa bionda fa canuta.—
     Poi, come si disfá al sol la neve,
125cosí, parlando, colui si disfece,
o come cera che ’l caldo riceve.
     Minerva allor di lí partir mi fece;
ed io a lei:— Da che parlar non posso
piú con colui, rispondi a me in sua vece.
     130Se ’l cielo sopra noi non fosse mosso,
lo stare ei fermo sarebbe cagione
ch’ogni operar quaggiú fosse rimosso?—
     Ed ella a me:— Quest’altra gran quistione
richiede piú il dir aperto e sciolto,
135che non è questo, e piú lungo sermone.

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     Il tempo e ’l ciel, che sopra voi è vòlto,
è una cosa, e, non voltando il cielo,
ciò che da tempo pende, saria tolto:
     fatica, fame, sete, caldo e gelo,
140e ciò che segue al moto alterativo,
morte e vecchiezza col canuto pelo.
     E, non voltando, l’uomo saria vivo
e volontá e la virtú, che ’ntende,
ed ogni senso arebbe piú giulivo.
     145Qui quel che disse l’agnol, si comprende,
quando iurò per l’alto Dio vivente:
«Mai non sará piú tempo, ovver calende,
     ed ogni verbo avrá solo il presente,
e cesserá il preterito e ’l futuro,
150e ciò, che or corre, sará permanente»;
     e nell’Apocalisse è questo iuro.—