Il Quadriregio/Libro secondo/III

III. Come l’autore mediante la dea Minerva ritornò dell’inferno, dove era disceso

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
III. Come l’autore mediante la dea Minerva ritornò dell’inferno, dove era disceso
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CAPITOLO III

Come l'autore mediante la dea Minerva ritornò dell'inferno,
dove era disceso.

     Denanti a me andava la mia guida,
e poi io dietro per una via stretta,
seguendo lei come mia scorta fida.
     Andando come alcun che non sospetta,
5subitamente un gran tuon mi percosse,
sí come Iove il fa, quando saetta.
     E questo il sentimento mi rimosse,
tanto ch’io caddi quand’egli mi colse,
sí come un corpo che senz’alma fosse.
     10Dal punto che li sensi il tuon mi tolse,
insin che ’n me tornai, una gross’ora,
al mio parer, di tempo il ciel rivolse;
     ché, quando io caddi, veniva l’aurora,
e giá toccava l’orizzonte il sole;
15e poscia il vidi un mezzo segno fuora.
     Su mi levai senza far piú parole,
cogli occhi intorno stupido mirando,
sí come l’epilentico far suole.
     Dicea fra me:— Oh Dio! or come e quando
20son qui venuto?— e stava pauroso.
Dov’è Minerva, ch’andai seguitando?
     Sotto qual parte del ciel io mi poso?
Sto sotto il Cancro, o sto io sotto l’Orse
con quelli che han sei mesi il sol nascoso?—
     25Cosí, mirando intorno, alfin m’accorse
che mi guardava e stava a destra banda
la saggia donna, che la via mi scorse.

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     A me parlando senza mia domanda,
mostrò due vie, e disse:— D’este due
30prendi qual vuoi, ed a tuo piacer anda.
     Questa, ch’è arta e che mena alla ’nsúe,
è nel principio molto aspera e forte,
ma poi nel fine ha le dolcezze sue.
     Quest’altra, che tu ve’, che ha sette porte
35e che è lata e mena giuso al basso,
è dolce in prima e poi mena alla morte.—
     Oh semplicetto me, ignorante e lasso!
Presi la via, che all’ingiú conduce,
perché piú lieve mi parea al passo.
     40E nell’entrata è ver che quivi è luce;
ma, perch’è scura quanto piú giú mena,
andai poi come un cieco senza duce.
     Cosí, privato di luce serena,
io giunsi in poco tempo insino al centro,
45onde nullo esce senza forza e pena.
     Quando mi vidi condutto lí entro,
dicea tra me:— Come son qui venuto
in questo fondo, ove io cosí m’inventro?
     — Non cercar ora come se’ caduto
50— disse Minerva dalla lungi alquanto,—
ma pensa uscirne e che a ciò abbi aiuto;
     ché ’ngiú andando sei disceso tanto,
che piú che ’n testo loco non si scende,
e chi n’uscisse sal da ogni canto.
     55— Io prego, o dea, il braccio a me distende
— diss’io,— ché uscirne m’affatico invano,
se tu con la tua destra non m’apprende.—
     Allor dea Palla stese a me la mano
e di quel fondo, dove io m’era messo,
60mi trasse su, tirandomi pian piano.
     Quand’io fui ito un miglio su da cesso
dal loco, che Satán lassato ha vòto,
trovai Cocito e ’l laco suo da presso.

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     E, perché questo laco è piú remoto
65da ogni caldo di sole e di foco,
piú fredda cosa non ha ’l mondo toto.
     E tutto il freddo e ghiaccio, ch’è ’n quel loco,
ove la tramontana fa ’l zenitte,
rispetto a quello par niente o poco.
     70De’ traditori l’anime confitte
vid’io nel ghiaccio, che Iuda e Caino
seguiron giá con fatti e parol fitte.
     E, perché in poco tempo gran cammino
avea a far, di lí la dea mi trasse
75inverso a un monte, a quel laco vicino.
     Per una grotta volle ch’io andasse
dentro fra ’l monte, e sette miglia suso
per la via oscura e con le gambe lasse.
     Quant’io vedrei con ciascun occhio chiuso,
80tanto vedea lí con l’occhio aperto,
insin che uscimmo fuor per un pertuso.
     Quand’io fui giunto su nel monte ad erto,
l’anime vidi di chi Dio biastema,
in un gran piano di fumo coperto.
     85Ancor, pensando, al cor me ne vien téma,
ché io vedea a tutti arder la bocca,
e tutti quanti avean la lingua scema.
     E come spesso la grandine fiocca,
sí caggion sopra lor saette accese,
90e non invan, ch’ognuna ad alcun tocca.
     Satáno trasse fuor d’esto paese,
sí come Palla disse, i gran giganti,
quando co’ vizi suoi il mondo prese.
     Vero è che lí ne stanno ancora alquanti
95distesi in terra e con caten legati,
sí che non son nel mondo tutti quanti.
     Io vidi lor quando son fulminati,
che biastimavan la virtú eterna,
superbi, altèri e con li volti irati.

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     Poi ne partimmo e per una caverna
intrammo un monte, e tanto la dea salse,
che fummo insú la terza valle inferna.
     Chiunque con fatti e con parole false
inganna altrui con doli ovver con frode,
105quivi ha lo scotto con amare salse;
     ché strascinati son dietro alle code
in forma di cavalli da’ dimòni,
e chiunque corre piú, quello è piú prode.
     E sopra quelli stan cogli speroni
110altri dimòni, e tra le pietre dure
strascinan l’alme supine e bocconi.
     E quivi del mal peso e di misure
si fa vendetta e d’ogn’infedel arte,
de’ giochi, d’arcarie e di man fure.
     115La dea mi disse:— Andiamo in altra parte,
ché ’n poco tempo al cerchio d’Acheronte
di piaggia in piaggia a me convien menarte.—
     Allor intrammo per un alto monte,
sempre montando, ed al sommo salito
120vidi gran valle, quando alzai la fronte.
     Il vizio contro natura è punito
acerbamente in quella valle piana;
lí sta in tormento ciascun sodomito.
     Questi omicidi della spezie umana
125l’amor, che figlia e fa congiunti insieme,
spreggiano e gittan come cosa vana.
     Sopra esti destruttor dell’uman seme
il foco e ’l zolfo puzzolente piove,
e dentro al fuso rame ancor si geme.
     130Salimmo poi nel quinto cerchio, dove
li sette vizi avevan giá le case,
anzi che gisson dell’inferno altrove.
     Ell’eran grandi e vacue rimase,
sí come a Roma sono le ruine
135delle anticaglie con le mura pase:

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     sordide tutte e piene di fuline,
deserte dentro e con le mura rotte,
piene di rovi, d’ortiche e di spine.
     La dea a me:— Lá dentro in quelle grotte
140stava Cerbero giá rabbioso cane
con tre bocche latranti aperte e ghiotte.—
     Per una intrammo di quelle gran tane,
sinché le male bolge ebbi salite:
alfine uscimmo in contrade lontane,
     145ove trovammo la cittá di Dite
con le mura di foco intorno intorno,
con le torri alte e con le case igníte.
     Ogni casa parea ardente forno.
Vedea i demòni colle acerbe viste,
150che lí per manegoldi fan soggiorno.
     Io vidi tormentar l’anime triste;
e secondo le colpe, che han commesse,
cosí conven che lí doglia s’acquiste.
     Io vidi molte per mezzo esser fesse
155con dure seghe, ed alcune co’ denti
mordevan sé, lacerando se stesse.
     E questo è ’l duol che piú gli fa dolenti,
il verme della stizza, e maggior gridi
fa trarre a lor che tutti altri tormenti.
     160Vidi i rattori e vidi gli omicidi
tagliare a pezzi e le lor membra crude
rifar, e poi tagliarle ancor gli vidi.
     Io farò come quel che ’l dir conchiude.
Sappi, lettor, che ’l Iudice del tutto,
165che vede il core, il vizio e la virtude,
     non vuol mai che ’l ben far non abbia frutto
d’onore e di letizia, e non vuol mai
che ’l male alfin non partorisca lutto
     con piena e con tormento di gran guai.