Il Quadriregio/Libro quarto/IX

IX. Nel quale ragionasi di assai antichi poeti, filosofi ed autori

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
IX. Nel quale ragionasi di assai antichi poeti, filosofi ed autori
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CAPITOLO IX

Nel quale ragionasi di assai antichi poeti, filosofi ed autori.

  Io ascoltava ancor con gran piacere,
quando su si levò quella virago
per far le cose a me meglio vedere,
     perché s’avvide ben ch’io era vago
5voler saper dell’altre cose belle,
le qual con questo stil ora ritrago.
     Surson dirieto a lei le sue donzelle,
ognuna in capo con una corona
splendente piú ch’a mezzanotte stelle.
     10Ad uno invito di bella canzona,
la qual dicía:— Venite qui su ad erto,—
salimmo al nobil monte d’Elicona.
     Quand’io andava, vidi il ciel aperto
ed un gran lume al monte ingiú disceso,
15tanto ch’egli ne fu tutto coperto.
     E tanto piú e piú pareva acceso,
quanto piú io mirava inver’ la cima,
insino al luogo, ov’egli era disteso.
     Li saggi e li poeti ditti prima
20s’acceson di quel lume, ed ognun tanto,
quanto piú o men nel saper fu di stima.
     Le muse vidi allor a lungi alquanto
venir ver’ noi; ed ognuna di loro
due rettorici avea appresso e accanto,
     25incoronati dello verde alloro
tutto splendente; ed avean tutti quanti
ancora in capo altra corona d’oro.

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     — Virgilio e Tullio son quei duo dinanti
— cominciò a dire a me la dea Prudenza:—
30quelli duo fênno i piú soavi canti.
     Inseme Roma e la sua gran potenza
venne in Augusto all’altura suprema,
ed in costor lo stil dell’eloquenza.
     E quanto alcun s’appressa al lor poema,
35tanto è perfetto; e quanto va da cesso,
tanto nel dir il bel parlar si scema.
     Omero è l’altro, che vien loro appresso,
il qual ad ogni dir giá detto in greco
andò di sopra e vinse per eccesso.
     40E, come ogni splendor oscuro e cieco
si fa, quando è presente un maggior lume,
cosí ogni altro dir, ponendol seco.
     Quell’altro è quel che fece il bel volume,
Tito Livio dico, il quale spande
45dell’arte d’eloquenzia sí gran fiume.
     Il quinto, in cui risplendon le grillande,
è l’alta tuba dotta di Lucano
con valoroso dire adorno e grande.
     Egli si lagna che ’l sangue romano
50fu sparso per li campi di Farsaglia,
sí che vermiglio fe’ tutto quel piano;
     e raccontò della civil battaglia
di Cesar e Pompeo e lor grand’onte
coll’alto dir, che come spada taglia.
     55Ovidio è l’altro, e ’l gorgoneo fonte
gli die’ nel poetar lingua sí presta
e nelli metri sí parole pronte,
     che ha maggior grillanda in su la testa
che gli altri qui, ma non però sí chiara,
60sí come agli occhi ben si manifesta;
     e canta quanto è dolce e quanto è amara
la fiamma di Cupido, e ch’al suo foco
né senno, né altro scudo si ripara.

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     Stazio napolitan tien l’altro loco;
65Orazio è l’altro e poscia Giovenale;
Terenzio e Persio vengon dietro un poco.—
     Il pegaseo cavallo con doppie ale
io vidi poscia, e mille lingue ed occhi
aveva intra le penne, con che sale.
     70Avea pennuti i piedi e li ginocchi;
e tanto sal, che non è mai che Iove
cosí da alto le saette scocchi.
     E vidi poscia come ben si move,
volando fuor del fonte pegaseo,
75ov’io pervenni e vidi cose nòve.
     Demostene trovai ed anche Orfeo,
che sí soave giá sonò sua cetra,
con lo influir di Nisa e di Lieo,
     che moveva i gran sassi ed ogni pietra,
80e con la melodia della sua voce
scese in inferno in quella valle tetra;
     Pluton, senza piatá crudo e feroce,
mosse a piatá, e l’anime de’ morti
fece scordar del foco, che le coce;
     85facea tornar a drieto i fiumi torti;
alfin ne trasse fuor la sua mogliera,
col suon facendo a lei li passi scorti.
     Prudenzia, tra cotanta primavera,
salir mi fe’ nel gran monte Parnaso,
90dove la scòla filosofica era.
     Infino a piè del colle, a raso a raso,
splendeva il lume grande di quel sole,
che mai ebbe orto e mai averá occaso.
     Mentr’io sguardava a quelle grandi scole,
95un poníe mente a me coll’occhio fiso,
come chi ben cognoscer altrui vuole;
     e poi la bocca mosse un poco a riso,
che fu cagion che lo splendor s’accese
ed illustrògli piú la faccia e ’l viso.

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     100Allor Prudenza a me la man distese
dicendo:— Va’, quello è mastro Gentile
del loco onde tu se’, del tuo paese.
     La sperienza e lo ’ngegno sottile,
ch’ebbe nell’arte della medicina,
105e ciò che egli scrisse in bello stile,
     demostra questa luce e sua dottrina.—
Allor mi mossi ed andai verso lui,
quando mi disse:— Va’— quella regina.
     — O patriota mio, splendor, per cui
110e gloria e fama acquista el mio Folegno
— diss’io a lui, quando appresso gli fui—
     qual grazia o qual destin m’ha fatto degno,
che io te veggia? Oh, quanto mi diletta
ch’io t’ho trovato in cosí nobil regno!—
     115Come fa alcun che ritornare affretta,
che tronca l’altrui dire e lo suo spaccia,
cosí fec’egli alla parola detta,
     e ’l collo poi mi strinse colle braccia,
dicendo:— S’io son lieto ch’io ti veggio,
120el mostra il lampeggiar della mia faccia.
     E son venuto dal celeste seggio
qui per vederti ed anche a demostrarte
della filosofia l’alto colleggio.
     Colui, che vedi in la suprema parte,
125è Aristotel, l’agnol di natura:
egli è che aperse la scienzia e l’arte,
     tanto che chi al ver vuol poner cura,
nullo, in quanto uomo, pescò tanto al fondo,
quanto fec’egli, e volò sí in altura.
     130Alberto Magno è dopo lui ’l secondo:
egli supplí li membri e ’l vestimento
alla filosofia in questo mondo.
     Il gran Platone è l’altro, che sta attento,
mirando al cielo, e sta a lui a lato
135Averois, che fece il gran comento.

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     Socrate poscia tiene il principato,
dottor nella moral filosofia;
e Seneca è con lui accompagnato.
     Pitagora, che ’l conto trovò pria,
140è l’altro; poi Parmenide e Zenone
e quel che pone che ’l gran caos sia.
     Sguarda Avicenna mio con tre corone,
ch’egli fu prence e di scienza pieno
ed util tanto all’umane persone.
     145Ipocrate è con lui e Galieno
e gli altri, per cui ’l corpo si defende,
che innanzi al tempo suo non venga meno.
     Questo splendor, che questo monte accende,
da Dio deriva e ’nsin quaggiú procede,
150e negli angeli suoi prima risplende,
     e poi nelli dottor di santa fede.
E sappi ben che ciò che ’l ciel su cela,
nullo intelletto, in quanto umano, el vede,
     se Dio con maggior lume nol rivela;
155e questo lume qui, rispetto a quello,
è tanto, quanto al sol parva candela.—
     Poi su pel raggio, ov’è piú chiaro e bello,
egli n’andò colle celesti penne,
volando inverso il ciel sí come uccello;
     160e retornò al loco, onde pria venne.