Il Parlamento del Regno d'Italia/Tancredi Ubaldo De Riso
Questo testo è completo. |
◄ | Leopoldo Cannavina | Indice delle biografie | ► |
senatore.
Noi abbiamo in Parlamento degli uomini di altissimo valore, tanto sotto il rapporto dell’ingegno, come sotto quello della devozione da essi dimostrato in più di una circostanza alla patria, che non consentono ad ammettere la ragionevolezza e la irresistibilità, (serviamoci di questa parola) dell’aspirazione nazionale, che come cemento securo del grande edificio della patria e del coronamento di questo, tende a recare la capitale stabile e duratura d’Italia, nelle eterne città che fu un giorno madre e sovrana delle nazioni.
Cotesti personaggi ritengono che invece di giovare all’unità e all’indipendenza della rigenerata nazione, cotesta aspirazione verso Roma, non possa condurci ad altro, che a finire di metterci in contrasto assoluto col Pontefice, contrasto dal quale potrebbe derivare uno scisma religioso che produrrebbe gravissimi perturbamenti nel popolo italiano.
L’opinione di coteste egregie individualità, le quali hanno d’altronde in moltissime circostanze dato saggio di un patriottismo, il quale non potrebbe essere in verun modo messo in dubbio, ha il torto, a parer nostro, di basarsi sopra un esagerato timore di conflagrazioni, le quali non saranno per prodursi. Bisogna credere che si possa conseguire l’intento propostosi dalla grande maggioranza degl’Italiani, senza che vi debba esser luogo a toccare a quella santissima cosa, che è la religione cattolica.
Il conte di Cavour, che, come tutti sappiamo, era uomo pratico per eccellenza e che certo non avrebbe mai consentito che la grand’opera della costituzione italiana, potesse esser messa a repentaglio da discordie intestine, fossero poi civili o religiose, non ha messa fuora la famosa formola da tutti ormai conosciuta: «Chiesa libera in libero stato» , senza che egli andasse convinto, mediante l’applicazione di quella, potersi appunto ovviare ad ogni conflitto, e prima e poi pervenire a collocarsi sul terreno di una dure vole conciliazione.
Nulladimeno la gran teoria che in politica bisogna, per quanto si può lasciare piena libertà alle opinioni quando, bene inteso, queste emanano dalla coscienza, deve tanto più valere verso gli uomini, di cui sopra abbiam tenuto discorso, in quantochè essi, se non giovano alla patria perchè si astengono dal cooperare efficacemente alla pubblica amministrazione, sono però incapaci di nuocerle, dacchè per quanto dissentono dall’indirizzo dato alle faccende del paese coloro che sono chiamati a reggerne i destini, non vi è mai caso che si adoperino in maniera palese o subdola ad imbarazzar loro il cammino, o a suscitare opposizioni di natura tale, da volere turbare l’ordine pubblico.
Uno di questi uomini è appunto il De Riso, intorno al quale dobbiamo ora dare alcune esatte notizie a chi legge.
Egli è nato a Catanzaro, capoluogo, come ognun sa, della Calabria Ulteriore Seconda, nell’anno 1813. Trascorso in famiglia quella prima età infantile che si può dire sia la sola, nella quale l’uomo gode di una felicità senza nube e senza rimpianto, studiò le prime discipline, sotto la guida stessa degli amorevoli genitori, e nel liceo della città nativa.
Era appena giunto il De Riso all’adolescenza, che ebbe a provare una gravissima perdita, quella del padre, uomo probo e patriottico, se mai ve ne fu. Fortuna per Tancredi, che la di lui madre era una di quelle egregie donne, le quali comprendono l’alta missione affidata loro dalla Provvidenza qui in terra e sanno dedicarvisi con una fermezza ed una spontaneità non mai abbastanza lodevoli ed ammirabili. Essa, benchè giovane ancora, tralasciò di assistere, a quegli svaghi, a quei divertimenti, a quelle distrazioni più o meno piccoli, alle quali troppo di frequente le dame e le donne italiane sovr’altre si lasciano trascorrere, per attendere unicamente alla direzione della famiglia composta di otto figli, e alla sorveglianza assidua degl’interessi loro. Tancredi, una volta che ebbe terminati gli studi letterari e filosofici, si recò in Napoli onde apprendervi le scienze, ed istudiare, nel medesimo tempo, sul gran teatro di quella popolosa metropoli, quel libro voluminosissimo e di cui non saprebbonsi mai abbastanza svolgerne le pagine, che nomasi l’esperienza della vita umana.
Del resto il marchese De Riso, non si applicava a questi diversi studi con altro scopo, se non con quello di divenire un distinto e culto gentiluomo, un cittadino fornito di quei lumi necessarî a poter essere di giovamento alla patria.
Durante il soggiorno in Napoli il De Riso ebbe occasione e discernimento bastevole, malgrado la sua giovine età, ad iscorgere l’abbietto meccanismo del governo borbonico, e fin da quel punto risenti contro di esso quell’antipatia e quell’odio che ad ogni uomo onesto ha sempre ispirato.
Tornato in patria, ebbe cariche municipali e provinciali, nel cui esercizio si mostrò oculatore fornito di un senno superiore all’età sua; più tardi, manifesto sentimenti e tendenze liberali, che si tradussero in fatto, dopo la nefasta carneficina del 15 maggio, mentr’egli partecipo, in qualità di membro, di un comitato di salute pubblica, costituitosi in Calabria, e composto di parecchi dei più liberali ed influenti cittadini, nell’intento di mantenere intatto lo Statuto, e provvedere onde certe classi di persone non mettessero quelle tristi circostanze a profitto per trasmodare in deplorevoli eccessi.
E una volta reduci da Napoli i deputati cacciati fuora dall’aula parlamentare dalla soldatesca che vi penetrò colla baionetta in canna, e fra questi deputati trovandosi il fratello Eugenio, l’insurrezione crebbe gigante, e compiè tutto quanto potevasi, onde ricondurre colla forza il fedifrago Ferdinando II, sulla via del progresso e della libertà. Ma nonostante tutti gli energici sforzi di quei generosi, sforzi cui i De Riso presero efficacissima parte, la rivoluzione fu vinta, e la reazione trionfante di essa, misesi ad esercitare implacabilmente le sue vendette.
Eugenio pervenne a stento a salvarsi sopra una barchetta che il condusse a Corfü; Tancredi venne destituito da tutte le cariche che la fiducia dei suoi cittadini gli aveva fatto ottenere, e ben presto, sorvegliato, perseguitato dalla polizia, fino al giorno in cui senza l’ombra di giustizia e di procedimento legale, venne arrestato, condotto a Napoli, chiuso entro le prigioni di stato del castello dell’Ovo, in cui ebbe a dimorare sette mesi, prima di subire interrogatorio di sorta alcuna. Questo gli venne fatto da un giudice commissario di polizia, dal quale seppe ch’egli era accusato di tener criminose corrispondenze col fratello suo Eugenio, per opera del quale e di altri emigrati, riceveva e diffondeva proclami mazziniani, ed era così reo del delitto di tentativo diretto a cambiare la forma del governo esistente.
Dopo quell’interrogatorio, le condizioni in cui gemeva l’infelice prigioniero, si migliorarono alquanto, avvegnacchè egli fosse condotto in un carcere alquanto più sano e meno orrido, di quello in cui era stato chiuso fino a quel giorno.
Due anni in tutto durò quella abusiva e crudele carcerazione; poi, siccome non fu possibile alla polizia di rinvenire la benchè menoma prova dei delitti imputati al De Riso, essa lo lasciò partire dal castello dell’Ovo, a condizione però, che avesse subito a recarsi in Catanzaro, e vi dimorasse a domicilio coatto, sotto la più minuziosa ed insopportabile sorveglianza poliziesca.
Noi abbiamo tralasciato di narrare una circostanza la quale vale di per sè sola, a caratterizzare il governo borbonico, e a mostrare com’egli non si ritenesse dall’aver incorso ai mezzi i più infami, onde giungeva a due fini: quello di vendicarsi contro i generosi i quali osavano dirgli in faccia com’egli lo abborrissero; l’altro di corrompere viemmaggiormente gl’infelici sudditi di un sovrano senza fede.
Nei primi tempi della carcerazione del De Riso, e quando questi si trovava immerso in quello scoraggiamento che non può non assalire un uomo, il quale d’un tratto, si trova svelto dal seno della propria famiglia, dalla compagnia di amici e di parenti affettuosi, dagli agi di una vita comoda ed utile a sè come altrui, per essere gettato in un carcere malsano, orribile, in cui soffre tutte le privazioni,una persona che si fece misteriosamente incontrare all’infelice prigioniero, quasi che fosse stato causale quell’incontro, finse di interessarsi assaissimo alla triste sorte di lui, e dopo avere esternata la simpatia che eccitavano in esso le sventure di Tancredi, si fece a porgergli delle consolazioni, passando ben presto da queste ai consigli - Io mi sono taluno, dicevagli l’emissario con voce insinuante, che ho qualche esperienza, e anche qualche potere: vorrete voi, veder schiudersi con prontezza le porte del vostro carcere? ebbene, io vi additterò un mezzo, il quale varrà a restituirvi quella libertà che è uno dei migliori beni, che l’uomo possa godere in questo mondo. Voi non avete che poca cosa da fare: dichiarate soltanto che vostro fratello Eugenio vi porta odio e rancore, e che, onde compromettervi, ha inviato al vostro indirizzo quelle carte criminose che vi si accusa aver da esso ricevuto: così facendo, voi sarete giustificato non solo, ma prontamente riposto in libertà.
Come era naturale, il marchese De Riso respinse recisamente non solo, ma con orrore ed isdegno l’infame proposta; l’officioso suggeritore di consigli disparve per non più mostrarsi.
E qui non finirono le persecuzioni della polizia a riguardo del De Riso, mentre gli si fecero altre visite domiciliarie, e lo si imprigionò per ben due volte. Non fu che quando Francesco Il si vide costretto di con cedere una costituzione, ch’egli sarebbe stato senza alcun dubbio disposto a ritirare come fecero il padre suo e l’avo, di quelle da essi accordate, che il De Riso potè rientrare in Napoli per abbracciarvi i due fratelli Eugenio ed Ippolito ch’egli non aveva più veduti da lunghissimi anni.
Tancredi De Riso fu uno dei primi napolitani, chiamati da re Vittorio Emanuele a sedere nel Senato del Regno, dopo il plebiscito, che riuniva le provincie meridionali alle centrali e nordiche d’Italia. Ma il De Riso non è ancora intervenuto nell’augusto consesso del quale fa parte, e non vi è intervenuto, perchè appunto, come dicevamo sul bel principio di questa nostra notizia, egli si è alquanto scoraggiato e atterrito per l’andamento preso delle cose pubbliche col nuovo Regno. Second’esso, i Governi che si sono succeduti fin ora, non hanno corrisposto all’aspettazione sua, nè ei vede giunta per anco, per colpa in parte dei tempi, e in parte degli uomini, quell’era di libertà e di giustizia, da esso ardentemente desiderata, essendo succeduti, a parer suo, a quei primi sogni di felicità sociale, più di un disinganno, in ispecie per ciò che concerne la moralità pubblica e l’amministrazione della giustizia.
Preso da una certa sfiducia, e quasi da stanchezza, ei vive raccolto in sè e solitario, sebbene non disperi dell’avvenire di Italia, e dell’umanità, quando il progresso avrà migliorati i costumi.
Egli si pregia di essere un liberale cattolico, della scuola dei Balbo, dei Ventura, dei Cantù, dei Lacordaire, degli O’Connell, e la sua fermissima convinzione è che non vi possa esistere libertà senza morale, nè che questa possa dal canto suo sussistere mai ove faccia difetto la religione. Gli rincresce assaissimo l’antagonismo ora esistente tra il Papato e il Governo del nuovo Regno, e fa voti perchè possa presto succedere la tanto da lui desiderata conciliazione, e avvenirne il sacro connubio della religione colla libertà.
Egli teme che possa prodursi uno scisma, il quale divida più che mai gli animi degli Italiani. Del resto egli approva la convenzione colla Francia e il trasferimento della capitale, che vorrebbe tuttavia veder trasportata a Napoli, e non a Firenze, mentre ritiene che non si potrà pacificare completamente, e ben reggere l’Italia meridionale, ove il Governo non risieda nella grande metropoli napoletana, avvegnacchè egli non creda, che si possa seriamente pensare ad acquistar Roma per capitale definitiva.
Noi, lasciando piena e intera la responsabilità di queste opinioni all’onorevole senatore, facciamo voti perchè egli esca dalla sua tenda, e venga a portare il suo tributo d’ingegno e d’esperienza, al consesso senatoriale di cui meritamente fa parte.
FINE.