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ei vede giunta per anco, per colpa in parte dei tempi, e in parte degli uomini, quell’era di libertà e di giustizia, da esso ardentemente desiderata, essendo succeduti, a parer suo, a quei primi sogni di felicità sociale, più di un disinganno, in ispecie per ciò che concerne la moralità pubblica e l’amministrazione della giustizia.

Preso da una certa sfiducia, e quasi da stanchezza, ei vive raccolto in sè e solitario, sebbene non disperi dell’avvenire di Italia, e dell’umanità, quando il progresso avrà migliorati i costumi.

Egli si pregia di essere un liberale cattolico, della scuola dei Balbo, dei Ventura, dei Cantù, dei Lacordaire, degli O’Connell, e la sua fermissima convinzione è che non vi possa esistere libertà senza morale, nè che questa possa dal canto suo sussistere mai ove faccia difetto la religione. Gli rincresce assaissimo l’antagonismo ora esistente tra il Papato e il Governo del nuovo Regno, e fa voti perchè possa presto succedere la tanto da lui desiderata conciliazione, e avvenirne il sacro connubio della religione colla libertà.

Egli teme che possa prodursi uno scisma, il quale divida più che mai gli animi degli Italiani. Del resto egli approva la convenzione colla Francia e il trasferimento della capitale, che vorrebbe tuttavia veder trasportata a Napoli, e non a Firenze, mentre ritiene che non si potrà pacificare completamente, e ben reggere l’Italia meridionale, ove il Governo non risieda nella grande metropoli napoletana, avvegnacchè egli non creda, che si possa seriamente pensare ad acquistar Roma per capitale definitiva.

Noi, lasciando piena e intera la responsabilità di queste opinioni all’onorevole senatore, facciamo voti perchè egli esca dalla sua tenda, e venga a portare il suo tributo d’ingegno e d’esperienza, al consesso senatoriale di cui meritamente fa parte.

FINE.