Il Parlamento del Regno d'Italia/Luigi Torelli
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senatore.
Si può amare la patria svisceratamente e servirla in momenti difficili con molto zelo e con tutta devozione, senza tuttavia amarla utilmente per essa, e senza che i servigi che le si prestano ridondino a suo positivo vantaggio. E lecito affermare con sicurezza di non venire ragionevolmente contraddetti, che, quando si ha di mira il vero bene del proprio paese, - scevri da seconde mire di ambizioni personali, e quando per iscoprire in che questo bene consista, e quali debbano essere i mezzi e i modi i più opportuni a conseguirlo, la Provvidenza ci fu larga di facoltà intellettuali che l’educazione e lo studio valsero a maturare e a perfezionare, le cure che si presteranno nell’intento sacrosanto di giovare alla terra che ci vide nascere, saranno tanto disinteressate quanto illuminate e feconde di ottimi risultamenti.
Łuigi Torelli è uno di quelli italiani che si son sempre studiati di riuscire col consiglio e coll’opera utili alla gran madre comune, e mostreremo con animo lieto in queste pagine, quanto e l’opera sua e il suo consiglio siano stati per lo passato, e siano tuttora, saggi, pratici ed efficaci.
Nato da cospicua famiglia in quella forte provincia della Valtellina, in cui sortirono i natali altri illustri patriotti, educato nel collegio dei nobili a Vienna, ed entrato giovinetto nell’amministrazione governativa Lombarda, non tardò a provare un insormontabile avversione pel dominante straniero, ond’era asservita, non solo la Lombardia, na tutta quanta la penisola.
Fu pronta conseguenza di quel sentimento il suo dimettersi dall’impiego e il ritirarsi nella provincia nativa.
Benchè giovine, e di carattere ardente e attivissimo, il Torelli possedeva quella forza di volontà che caratterizza l’uomo veramente elevato e che d’ordinario è riserbato a grandi destini. Egli seppe pertanto contenersi, frenare l’impeto d’una indegnazione generosa, e pur confidando in un avvenire di lotta e di trionfo per la patria oppressa, comprese che la miglior maniera di affrettare quell’avvenire era quella di studiare profondamente le risorse del nemico comune, e le vie le più praticabili onde venire a combatterlo e a vincerlo. Questo studio domandava tempo, cure continue, e dissimulazione; giacchè, se la sospettosa polizia austriaca avesse scoperto quali fossero gl’intendimenti del giovine, egli non avrebbe potuto durare a lungo nell’opera, per compier la quale era pur d’uopo rimanesse, non vigilato, nel proprio paese.
Primo risultato notevolissimo delle sue indagini e delle sue meditazioni, fu la publicazione del suo libro intitolato Pensieri sull’Italia, avvenuta nel 1845 a Losanna, e non firmata col proprio nome, ma portante la sottoscrizione di un Anonimo Lombardo.
Questo libro è diviso in tre parti distinte; la prima delle quali contiene importantissime e profonde riflessioni sulle condizioni dell’Italia all’epoca in cui venne scritto: la seconda traccia il piano che l’autore reputava il più adatto a conseguire l’indipendenza nazionale; la terza racchiude alcuni quadri relativi all’Austria e al suo sistema di reggimento nel regno Lombardo-Veneto. Esso produsse dal suo apparire una profonda sensazione, tanto che fu letto e commentato da molti.
Noi non daremo l’analisi di quest’opera, ristampata dal Torelli nel 1853 in Torino; ma non possiamo trattenerci dall’approvare altamente il modo calmo, pacato, quanto chiaro ed esatto con cui procede in essa ad esami di natura loro tanto delicati, quanto facili a porgere occasione di esaltamento all’animo di uno scrittore caldamente patriottico.
I fatti i più abbominevoli, commessi per gli arbitrî inauditi e pel metodo poliziesco di governo dell’Austria, sono essi pure riferiti con la dignità inalterata dell’uomo coscenzioso, dello storico severo.
Come ebbe a dire nella prefazione aggiunta al libro per la ristampa fattane in Torino, «vedendo egli che viveva sul luogo citiamo le sue parole quanta materia vi fosse di giusta critica, e di quanto danno tornassero le esagerazioni che, poste in evidenza dai difensori del governo, toglievano il credito anche alle verità, deliberò di voler far conoscere lo stato reale del regno Lombardo-Veneto, citando in prova fatti così particolarizzati, che non avrebbero temuta la contradizione. Per questo decise seco stesso di narrare, senza esitanza e senza velo, quanto più poteva nuocere a quel governo, ma in pari tempo si impose il più scrupoloso dovere di pesare ogni fatto e ogni circostanza che adduceva, non ammettendola se non era stata verificata da sè stesso, o ricavata da fonte sicurissima».
Dei consigli che in quel lavoro porgeva ai suoi compatriotti, onde pervenire a cavarsi dalla soggezione straniera, quello di compilare un giornale nazionale italiano, che avesse a fare il racconto continuo dei fatti contemporanei, scritto senza fiele e segnatamente senza esagerazione, fu seguito dal De-Boni, il quale appunto dette fuori in Losanna, nell’agosto del 1846, una cronaca di quella specie. Se non che in essa il suo compilatore cominciò a mettere in troppa evidenza le opinioni personali perchè potesse realmente dirsi l’effettuazione del progetto del Torelli, il quale intendeva che la servisse unicamente è semplicemente a raccogliere e narrare con tutta imparzialità gli avvenimenti del tempo. Più tardi il Piccolo Corriere d’Italia, creato dal La-Farina, camminò meglio sulle orme indicate, e servì, come ognun ricorda, perfettamente allo scopo.
Quello che riscontriamo pure d’assai notevole nel libro modestamente intitolato Pensieri sull’Italia si è il giudizio portato dal chiaro autore sul dominio temporale dei papi.
La condanna ch’ei ne fa nella prima edizione, viene ampiamente confermata dal commento aggiuntole nella seconda, in cui tratta a fondo tale questione per noi vitalissima.
Non possiamo trattenerci dal riprodurre il disegno di soluzione ch’ei propone; quel disegno si direbbe formato jeri, tanto si attaglia all’esigenza delle circostanze presenti.
«I veri cattolici, pertanto, così si esprime il Torelli, coloro cui sta a cuore la religione devono desiderare che cessi la vera causa per cui ne viene si gran torto alla religione medesima; per cui questa religione che civilizzò l’ultima barbarie che peso sul l’Europa è sfigurata e trascinata nei conflitti politici, istrumento in mano di despoti, ai quali il capo stesso della Chiesa è obbligato di obbedire; e vi obbedisce contro la sua volontà come pontefice, ma col suo assenso come principe temporale. E chi non vede che tolta l’indipendenza immaginaria che ora le si attribuisce, ne verrebbe una indipendenza vera e reale. Non vi ha assolutamente nulla di singolare nell’ideare che il sommo pontefice sia riconosciuto pari in rango ai sovrani e quindi per la sua persona indipendente, anche senza uno stato od uno solo nominativo. Quando gli alleati vincitori nel 1814 assegnarono a Napoleone I l’isola d’Elba, creandolo sovrano, vollero mostrare che, quantunque nemico, lo riconoscevano si grande, da dovere rimanere pari in rango a loro, e veramente tale e tanta era l’altezza alla quale si era elevato quell’uomo, che l’idea di ridurlo un suddito aveva qual cosa perfino del ridicolo.
«Io non saprei dare un altro significato a quel fatto; ciò che si fece per Napoleone I per riguardo alla sua persona, si può fare per il papa, per riguardo all’altissima sua posizione e carica. Anch’io trovo che il papa non dee essere un suddito; ma per questo appunto non vorrei più vederlo uno schiavo dei suoi pretesi protettori; vorrei sottrarlo alla condizione attuale, umiliante per lui, dannosa per la religione, rovinosa per l’Italia. Un papa residente in Roma, principe, dipendente da nessuno, può riempire quelle giuste esigenze che reclama l’altissimo suo grado. Ciò non potrebbe convenire al certo alla gerarchia dominante che sta dietro a lui; ma quella si è appunto la cattiva pianta che bisogna svellere dalle radici».
Nè questo scritto fu il solo che il Torelli mettesse fuora all’oggetto di preparare ed attivare il movimento nazionale di riscatto, chè, sempre sotto il velo dell’anonimo e sempre a mezzo della stamperia Bonamici di Losanna, egli dette alla luce successivamente, dal 1846 al gennajo 1848, i seguenti opuscoli: Consulto legale se possa essere conveniente per i Luoghi Pii il livellare tutti gli stabili che posseggono; Difesa contro un’accusa officiale; Brano di storia della guerra dell’indipendenza italiana. Milano 1860, – Appello alla gendarmeria.
Introdotti di soppiatto in Lombardia e largamente diffusi, a spese dell’autore, questi scritti, dettati colla solita esatta veracità, destarono un eco fragoroso e prolungato.
Il Consulto legale in ispecie ebbe tale successo che il governo austriaco credette opportuno farlo confutare direttamente dai suoi organi ufficiali le Gazzette di Venezia e di Milano.
Lo scopo cui mirava il Torelli con quella pubblicazione, non era tanto di mostrare legalmente l’ingiustizia della misura risoluta dal dominatore straniero, quanto di dimostrare in modo palpabile come quell’operazione non tendesse ad altro, fuorchè a sollevare le finanze austriache a danno dei Luoghi Pii.
Il confutatore della Gazzetta si sforzò di provare la falsità di tale asserto, senza riuscire ad altro che a provocare una replica per parte dell’autore, venuta al giorno col titolo sopraccitato di Difesa contro un’accusa officiale.
Il celebre avvocato Pier Dionigi Pinelli, letto l’opuscolo del Torelli, ne fece argomento di un suo lavoro in cui la materia era trattata da vero legale. – I due chiari italiani entravano cosi, senza conoscersi, in una relazione di simpatia e di stima reciproca cui doveva succedere un giorno l’amicizia la più sincera e durevole.
Il Brano di storia della guerra dell’indipendenza italiana, pubblicato nel 1847, portava la data del 1860; era quindi una profezia. L’autore infatti fingeva in quello che la guerra pel riscatto d’Italia fosse già fortunatamente compiuta e ne descriveva le vicende. Trattando particolarmente del contegno del governo austriaco rispetto alla religione, gli dava lode per la tolleranza da esso professata in materia di culto; ma citando fatti avvenuti durante la supposta guerra, mostrava com’esso non avesse portato il menomo riguardo alle chiese e ai santuari, i quali erano stati da lui completamente derubati.
Il Torelli era tanto convinto del prossimo avveramento di questo suo vaticinio che avvertì di fatti le fabbricerie de’ più ricchi santuari della Lombardia spedendo, loro una lettera, e fra le altre quella di Sant’Andrea di Mantova, posseditrice d’un vaso d’oro cesellato da Benvenuto Cellini. - Nessuna tenne conto dell’avviso, e tutte, o quasi tutte, ebbero poi, durante la guerra, a pentirsene, e più delle altre quella appunto di Sant’Andrea di Mantova, nella cui chiesa la soldatesca d’Austria derubò e fece in pezzi il preziosissimo vaso.
L’Appello alla gendarmeria, messo fuori poco tempo prima che scoppiasse la rivoluzione in Lombardia, aveva per oggetto d’invitare i soldati di quell’arma, per la maggior parte italiani, a far causa comune col popolo nel tremendo conflitto che stava per aver luogo; e sebbene poco diffuso per mancanza di tempo, giova credere contribuisse assai a guadagnare quelle truppe alla causa nazionale.
Scoppiata finalmente quella portentosa rivoluzione di Milano, di cui in questo libro è fatta tante volte menzione, il Torelli lasciò la penna, e impugnò la carabina - nel maneggio della quale, da quel degno Valtellinese ch’egli è, si mostra peritissimo ne fece uso indefesso e mirabile dietro le barricate, nelle vie della metropoli lombarda, ove combatte con molto valore. A prova di che, e per limitarci a ricordare un atto d’ardimento guerresco, tanto segnalato, quanto notorio - è constatato dalla testimonianza di tutta la città, e da un ordine del giorno del Governo provvisorio che la reggeva durante la lotta diremo com’egli si fosse il primo che inalberasse la bandiera tricolore sulla guglia del magnifico duomo, quando non si era anco sicuri che gli Austriaci l’avessero interamente evacuato, e si stava per lo meno in forte sospetto di mine e d’altri tranelli. Poi, dopo disimpegnate alcune incombenze di rilievo affidategli dal Governo provvisorio, non avendo fede che negli eserciti regolari — le ragioni plausibili di questa sua credenza aveva esposte con molta solidità d’argomenti ne’suoi Pensieri sull’Italia - si recò al campo piemontese ed entrò nell’armata col grado di tenente d’infanteria, aggregato però allo stato maggiore generale, e servendo senza percepire stipendio di sorta.
«La pratica che io aveva dei luoghi, dice rimessamente al solito il Torelli stesso nella prefazione sopra mentovata, ove si combatteva la guerra, le relazioni con alcune delle principali famiglie del Mantovano, e quindi la certezza di trovar persone sicure per avere informazioni e guide, e la conoscenza della lingua del nemico, mi facevano sperare di poter essere utile in quell’arma. Dopo la prima campagna venni promosso due volte, ed entrai nell’armata con tutti i vantaggi; ma quando, finita la seconda campagna, vidi l’impossibilità di ogni continuazione della guerra, mi ritirai volontariamente dal servizio. Fui presente a quattro battaglie, e so d’aver fatto il mio dovere; magra consolazione per chi non voleva che lo scopo della guerra, ma l’unica consolazione che si può avere quando si rimane soccombente».
Al momento della formazione del gabinetto Pinelli nel 1848, il re Carlo Alberto, che aveva avuto luogo di apprezzare il patriottismo a tutta prova, e le vaste cognizioni possedute dal Torelli, gli affidò il portafogli d’agricoltura e commercio. - Se non che il breve tempo ch’egli ebbe a tenerlo - quel ministero si ritirò nel dicembre del medesimo anno — non gli concesse di rendere i servigi ch’egli avrebbe potuto in quel posto elevato, e ch’era destino rendesse parecchi anni dopo, e non al solo Piemonte, ma a tutta intiera l’Italia.
La guerra scoppiata di nuovo il richiamò sotto le armi, e col grado di maggiore, e qual capo di Stato Maggiore comando la terza brigata composta alla fatale battaglia di Novara.
Finita la guerra si ritirò di bel nuovo, ritenendo, come premî gloriosamente meritati, la medaglia al valore militare, e la croce del merito di Savoia, due decorazioni, per conseguire le quali, si sa come sia d’uopo nell’armata italiana ora, e come prima lo fosse nella sarda, comportarsi in egregio e distinto modo sul campo di battaglia.
Nel 1849 il collegio elettorale d’Arona, scelse il Torelli a proprio rappresentante in seno al Parlamento sardo; ed egli si occupò indefessamente nell’adempiere ai nuovi ed importanti doveri che gl’incombevano in tal qualità. — Per tre legislature consecutive quel collegio gli rinnuovò il mandato, poscia venne nominato dal collegio d’Intra.
Intanto però lo scrittore non rimaneva inattivo, e meditava, anzi cominciava già a distendere il piano d’un opera, dalle proporzioni veramente colossali, e di un’opportunità incontestabile pel nostro paese; in tendiamo parlare del suo libro intitolato: Dell’avvenire del commercio europeo, ed in modo speciale di quello degli Stati italiani.
L’idea di questo libro, come ce ne avverte il chiaro autore nella prefazione di esso, gli venne dal riflettere sopra l’influenza esercitata sulle sorti sociali, ed in particolar modo sul commercio, dalla invenzione delle strade ferrate.
Tratto a scrutare quali dovessero o potessero essere le ultime conseguenze di si grande innovazione, e sopratutto a riguardo del nostro paese, egli volle dapprima limitare a ciò il suo studio, ma non tardò ad accorgersi che non conveniva disgiungere dall’esame dell’azione esercitata dalle ferrovie, quella di altri potenti ritrovati essi pure influenti sul commercio, questo infallibile termometro della civiltà di un popolo. Quindi avvenne che stimasse meglio rivolgere le sue ricerche sull’avvenire del commercio stesso, piuttostochè sull’influenza parziale esercitata da uno dei suoi mezzi der potente ed efficace the fosse.
Il campo dell’argomento veniva di tal guisa considerevolmente allargato, ma il tema era più utile, e meglio disegnato lo scopo.
Il tentativo di volere guardar dentro all’avvenire non è azzardato, quando lo si imprenda dopo aver ben consultato il passato e ben capite le condizioni dell’attualità; molto giudiziosamente dunque il Torelli appoggiò su queste due salde basi il proprio lavoro.
In esso abbracciò la serie storica delle fasi ch’ebbe a traversare il commercio dai primi tempi, dei quali si abbia sicura notizia, venendo fino ai di nostri. 11 chiaro autore ha molto opportunamente attinto informazioni e dati nelle opere di chi lo ha preceduto con simili studi, mirando allo scopo speciale di scandagliare quale spirito dominasse in ogni epoca e presso ogni popolo.
Ha assunta una forma laconica, perchè non ha potuto non ritracciare in gran parte la storia delle popolazioni, delle quali si era proposto ricordare le condizioni del traffico, la prosperità e decadenza di questo, convenendo dedurla dalle vicissitudini generali. Lo spazio di tempo stesso, succeduto alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, che comprende ben sette secoli, quantunque per la storia commerciale avesse potuto non figurar nel suo libro, tuttavia egli ha creduto doverlo menzionare per mostrare da qual caos sia uscita la società moderna, e come il merito princi pale della ristaurazione del commercio, quasi affatto spento in allora, debbasi agli Italiani.
Ha stimato anche con molta ragione il Torelli, doversi trattenere a discorrere dell’influenza esercitata sul traffico dalle crociate, mentre è da esse in poi che le nozioni intorno al di lui progresso, si fanno precise e abbondanti. Ad ognuna delle epoche, nelle quali divide la storia del commercio, fa succedere un riassunto dei caratteri che l’hanno distinta; l’epoca moderna è preceduta da un’analisi dei grandi ritrovati che le hanno dato l’impulso straordinario, onde sarà celebre un giorno. Egli ha tracciato dei quadri per dare a conoscere qual parte prende ogni popolo alle meravigliose innovazioni che tanta influenza debbono esercitare sull’avvenire, allargandosi di preferenza nel parlare di quegli Stati, coi quali crede che in futuro avremo relazioni commerciali più strette che non pel passato.
Ha poi presentata una relazione circostanziata di tutto ciò che concerneva lo Stato sardo, per mostrar meglio cosa gli mancasse a raggiungere il maggiore sviluppo dei mezzi caratteristici dell’epoca, chiudendo così la parte storica della sua importante pubblicazione.
Dopo un’esatta monografia delle quattro rivali nel Mediterraneo: Trieste, Livorno, Marsiglia e Genova, l’autore ha esposte larghe considerazioni intorno all’opere da farsi a compimento di quelle già intraprese, e intorno alla possibile compartecipazione dello Stato sardo e dell’Italia intiera al generale movimento, e dando termine di tal guisa alla lodevole sua composizione. La quale, pubblicata nel 1858, nella Biblioteca Civile dell’Italiano, di cui erano principali compilatori i Ridolfi, i Ricasoli e i Peruzzi, produsse, come doveva produrre, grandissimo effetto e fece crescere in fama di esperto, dotto, e profondo l’autore di essa.
I fausti avvenimenti del 1859 lo rimisero nella via, giả da lui luminosamente percorsa, delle azioni dirette. Nominato dapprima governatore nella patria Valtellina, ed elevato alla dignità di senatore, nel 1861 ebbe carica di prefetto a Bergamo, nell’anno consecutivo a Palermo, quindi a Pisa dal 1863 al 1864.
Gli atti d’amministrazione di un così egregio e provato cittadino furono sempre informati a quello spirito di saviezza, di preveggenza e di giustizia, del quale i suoi scritti e le opere sue davano arra amplissima. Da per tutto egli si è fatto rispettare ed amare, come ha contribuito a fare amare e rispettare l’autorità da lui rappresentata. Como d’iniziativa, non ha mancato di promuovere nelle provincie da esso rette tutte quelle riforme e quelli ammegliamenti che conosceva realizzabili.. Per non dire di tutti — chè troppo lunga cosa sarebbe rammenteremo com’egli, nel tempo in cui governava la metropoli siciliana, effettuasse il prosciugamento della pestifera palude della Stoppa, presso Misilmeri, il cui Consiglio comunale, a prova di riconoscenza, deliberò si desse il nome di Canale Torelli all’emissario delle acque, e come eccitasse nel Pisano il Consiglio provinciale a praticare studi intorno alle condizioni dei Comuni rapporto alle acque potabili, e così mettesse all’ordine del giorno una delle più importanti megliorazioni, in fatto d’igiene pubblica, che interessi di effettuare in Italia.
Chiamato dal generale La-Marmora a far parte del gabinetto da questi presieduto, il Torelli vi ebbe quel portafogli d’agricoltura e commercio, già ad esso affidato in tempi calamitosi, e che la natura de’ suoi studi e de’ suoi scritti davagli più d’un titolo a sostenere.
Qui termina il nostro compito, dacchè ci riescirebbe troppo malagevole di apprezzare, come l’intenderemmo, la condotta di un personaggio, pel quale professiamo profonda stima e vivissima simpatia, mentre questo personaggio siede al potere.
Qualunque sia per essere tuttavia il giudizio che in un’epoca più lontana si vorrà portare sull’insieme della di lui amministrazione, possiamo affermare, con sicurezza di non venire smentiti, che l’Italia deve e dovrà gratitudine perenne al Torelli per aver risolute felicemente due questioni tanto intricate quanto vitali pel suo avvenire economico: quella dell’abolizione degli ademprivi in Sardegna, e quella della creazione della Banca nazionale di credito fondiario.
La prima, che molte volte era stata presentata al Parlamento e che offriva innumerevoli ostacoli, poteva chiamarsi facile a petto della seconda, la quale sollelevava tante cupidità da un lato e tante diffidenze dall’altro.
La istituzione della banca di credito in favore dell’industria agricola, per disgrazia comune così depressa oggidì in Italia, era — il ministro lo comprendeva indispensabile a restituire ad una delle precipue risorse che possieda lo Stato tutto il primitivo splendore, non che ad incamminarla verso un avvenire cento volte più prospero. Gli speculatori, sopratutto gli stranieri, che scorgevano in quell’operazione un eccellente affare per essi, si presentavano a gara ed offrivano i loro milioni. Ma il Torelli ha saputo scartarli e, secondo noi, ha avuto ragione di scartarli. Egli, senza dubbio, si è detto che il tale o tale altro nome di banchiere estero non ispirerebbe mai tanta fiducia ai soscrittori italiani quanto ne ispirano la cassa di risparmio di Milano, il banco di Napoli, e quello dei Paschi di Siena.
Quindi è che a questi tre grandi istituti egli ha affidato la creazione della banca del credito fondiario italiano, la qual creazione basterebbe sola, a nostro avviso, ad illustrare e a rendere benemerita la vita di un uomo di Stato.