Il Parlamento del Regno d'Italia/Jacopo Sanvitale

Jacopo Sanvitale

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Giovanni Battista Bertini Stanislao Caboni
Questo testo fa parte della serie Il Parlamento del Regno d'Italia


Jacopo Sanvitale.

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Jacopo Sanvitale, parmense, fu segretario perpetuo dell’Accademia di belle arti, preside segretario dell’università, poi cancelliere e vice-ispettore generale aggregato a parecchie società di scienze e lettere in Italia, in Francia e in Germania. Il collegio Lallatta decorò il precoce allievo d’una iscrizione latina a stampa. Oltre alle lettere da lui professate in patria coltivò con amore l’agronomia, l’economia politica, e alcuni novelli rami dell’antropologia, di che disertò copiosamente nel gabinetto di lettura in Parma, e massime intorno al pauperismo diede al pubblico vari articoli nel Giornale del Commercio, nell’Eccletico, nella Lettura e in lingua francese negli Annali provenzali.

Dell’italianità si mostrò fra i primi geloso custode e promotore, non minore per lo zelo a Mazza, a [p. 402 modifica]Colombo, al Giordani e Pezzana. Fondò del proprio, nella proprie stanze, numerosa società scientifico-letteraria, istituto a ragione tenuto impolitico nel dipartimento francese, perciò cadde in sospetto a quel governo. Malgrado l’età minorenne, il fondatore, per gratitudine, fu gridato presidente perpetuo, segretario l’ottimo sacerdote Taverna, benemerito dell’italiana pedagogia.

«Serpeggiavano intanto nascostamente alcuni e scritti ed estemporanei suoi, diretti contro la dominazione francese. Ad uno di siffatti improvvisi acquistò non invidiata rinomanza la lunga e rigorosa prigionia dell’autore a Fenestrelle e la sua disagevole fuga. Al reduce vennero in corteo da gran numero, gratulando, i concittadini ed al ponte d’Attaro di solenne simposio e di calde allocuzioni il festeggiarono.

«Per queste cose e per le relazioni da lui strette in Milano con Rasori e Foscolo e più assai con Romagnosi, e ancora per sue libere parole e sdegnose, il proscritto di Savary, quasi fautore di Murat, fu dal comando austriaco severamente ammonito, ma per allora se ne uscì mercè illustri amici senz’alcun danno.

«Ordinatogli dal ministro di adoperarsi per l’accademia e l’università ristaurate, il Sanvitale non dubitò di proporgli a professori que’ sommi e con essi i celebri Melchiorre Gioja e Landi pittore; ma senza frutto. All’egregio Pezzana ed a lui eziandio fu commessa la compilazione di un regolamento per una società agraria, rimasto nel portafogli del caduto ministro.

«Pose mano fra i primi all’epigrafìa italiana; non tacque animosi veri nel cospetto della nuova principessa, gl’intermessi studî solennemente inaugurò con una grave orazione dell’amor della patria, distesa (per la prima fiata) in lingua italiana, come quella che volgevasi a grande concorso di popolo nella chiesa di San Rocco alias dei PP. della compagnia di Gesù. La polizia ne adombrò; ne indispettirono gl’immobili, accusando il nuovo professore di alta eloquenza, di dispregiare o ignorare il latino, quantunque ignoti non fossero da tempo i suoi saggi d’orazione latina.

«Rispose subito per indiretto con un prolegomeno cattedratico: De incredibili artis oratoria atque [p. 403 modifica]poeticæ adipiscendæ difficultate. Nè cessò mai d’insinuare ai giovani le malagevolezze, massime ai nostri dì, di chi voglia farsi poeta invita Minerva, e mostrava come i versi non si avessero a fare, irridendo le arcadiche inezie. Recitò funebri laudazioni al presidente dell’università nella chiesa dei PP. Cappuccini, ed al sommo poeta, suo prozio materno, Angelo Mazza, e suo predecessore in Santa Cristina.

«Fra gli alunni i più promettenti si compiaceva egli singolarmente in Pallavicino-Massi, Angelo B. Lopez, Gioja e Rubini juniori, Panizzi, Daneri e Melloni, l’amicizia dei quali mantenne sino al presente.

«Ne’ processi del 1821, soffrì il carcere, come inquisito, per tredici mesi, e l’arbitrario a Compiano per cinque. Berchet colonnello e Maestri senatore e Gioja gli furon consorti; Guartoni, Porro, Prondi, Confalonieri ebbe assai benevoli: e questi allungò il suo cammino per visitarlo esule a Montalbano.

«Imperocchè per moto di popolo ritiratasi la principessa l’anno 1831, fu il Sanvitale dal municipio invitato a far parte d’un governo provvisorio.

«Ricoverato in Francia procurò utile ai suoi infelici fratelli, a qual parte si fossero gittati; e venne spesso esaudito da’ quei maestrati.

«Sostenne l’onore delle italiane lettere nell’ateneo di Marsiglia, e nelle accademie di Montalbano e di Tolosa, ove favellò di cose d’utilità generale, associandosi al francese progresso con invenzioni per le quali ottenne diplomi (brevets) ad assicurarsi piuttosto la proprietà che il privilegio.

«Trattò ne’ congressi il grave subbietto delle paludi, e in Torino gli fu dato ascolto da quei sapienti e a Firenze anche dal Principe, il quale promise di porre in opera l’avviso di lui nelle maremme.

«Oltre a molti versi impressi a quando a quando per notevoli occasioni diede parecchi saggi di versioni e classiche e bibliche, come pure d’un poema su materia cosmica e antropologica, bene accolti dalla Lettura e dalla Rivista Ligure, i quali mossero curiosa aspettazione del rimanente.

«Escluso dopo il 1830 dal luogo nativo, ottenne [p. 404 modifica]intera naturalità nel Piemonte, e in Genova dal municipio fu eletto primo bibliotecario, poco meno che per acclamazione.

«Tre anni appresso volle rassegnare l’ufficio e ne conservò il titolo e l’alloggio perpetuo nell’edifizio della civica biblioteca genovese.

«Stabilitosi un governo civile e regolare nella sua diletta Parma, vi si fermò a godere dell’onorevole ospitalità dei parenti.

«Degli studi georgici zelatore non inoperoso, fu acclamato socio alle conferenze agrarie.

«Quanto a politica, moderato, non dottrinario, nemico alle esorbitanze e ipocrisie di ogni specie, fu sempre tollerante e conciliativo.

«Di lui fanno testimonianza le poesie pubblicate che possono valergli, come dicono, a professione di fede.


Leggevasi nel giornale la Vedetta di Novara del 24 settembre 1859:

«... Lunedì alle ore tre dopo il mezzogiorno passava di quà, recandosi a Milano, la deputazione di Parma composta dei signori: Sanvitale (Jacopo), Rasini, Zini, Verdi, Sacerdoti.

«Traeva gli sguardi della moltitudine il dignitoso aspetto e la prolissa capigliatura bianca del conte Jacopo Sanvitale, venerando vecchio. Se qui fosse il luogo, nè l’angustia dello spazio ce lo vietasse, oh quanto volentieri esprimeremmo l’ammirazione nostra all’ingegno alto e polente dell’illustre poeta, che scrisse i Sonetti Storici, le Parafrasi Bibliche e il Cantico, la Rocca Bianca, bastanti a collocarlo tra i primi che mantengono incorrotta la poesia nazionale, attingendo alle fonti dell’Alighieri.

«La modestia soltanto non gli lasciò conseguire tutta la fama che gli spetterebbe. Il cuore non è in lui minore dell’ingegno, nè l’uno, nè l’altro viene rattiepidito dagli anni.

Il conte Jacopo Sanvitale fu membro dell’assemblea [p. 405 modifica]nazionale in Parma nell’anno 1859, quindi eletto deputato al Parlamento del Regno Italiano nel 1860.

Nominato presidente onorario delle facoltà filosofiche e letterarie, e professore emerito di letteratura, è segretario emerito dell’Accademia parmense di belle arti e consigliere di essa con voto.

Consigliere della commissione gratuita parmense per gli ospizi civili, è pur membro della commissione per gli studî storici italiani a Parma, e uno dei più zelanti della Società agraria in detta città.

Socio della celebre Accademia dei georgofili di Firenze, il conte Sanvitale è membro di un’infinità di società letterarie e scientifiche italiane e straniere.



Note

  1. La presente biografia ci venne trasmessa dal chiaro e benemerito conte, e noi ci facciamo un dovere di pubblicarla tal quale ei l’ha redatta pel nostro libro.