Il Parlamento del Regno d'Italia/Giovan Filippo Galvagno
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GALVAGNO commendatore GIOVAN FILIPPO
senatore.
È nato in Torino il 22 agosto del 1801 da Rosalia Grosso e dall’avvocato Giovanni Baldassarre, che godeva nel foro di reputazione veramente superiore ad ogni elogio.
Entrato Giovanni Filippo nel dicembre del 1815 nel liceo imperiale di Torino con pagar soltanto mezza borsa, per aver vinto quel semi-gratuito posto al concorso succeduto in quell’anno, ne uscì per fare gli studî universitarî ed ebbe due volte la laurea: il 6 aprile del 1821, e il 17 gennajo del 1822, avvegnachè la reazione del 1821 avesse dichiarato non validi i gradi universitarî conferiti pendente il moto politico di quell’anno.
Aggregato al Collegio di leggi il 4 agosto del 1823, fu poscia avvocato patrocinatore.
Eletto deputato e chiamato al ministero il 29 marzo del 1849 in qualità di ministro dei lavori pubblici, fu nominato ministro dell’interno l’11 ottobre di quel medesimo anno, rimanendo in quell’eminente posto sino al febbrajo del 1852. Passato allora al ministero di grazia e giustizia, durò in tal carica sino all’8 maggio del medesimo anno, epoca in cui si ritrasse definitivamente dal potere, per non più occuparsi che di adempiere lealmente ed efficacemente ai suoi doveri di deputato e della sua professione di pubblico difensore.
Del resto, se noi ci limitiamo a citare per semplici e nude date i diversi passaggi dell’importante carriera politica del nostro protagonista, egli è che abbiamo sott’occhio le pagine di un libro: Une page d’histoire du gouvernement representatif en Piemont, del signor Luigi Chiala, nelle quali il ritratto del Galvagno, per ciò che ha riguardo alla sua vita pubblica, ne appare disegnato con tanta verità, che non ci sembra poter meglio fare che darne la traduzione ai lettori.
«Non termineremo questo capitolo — dice adunque il chiaro autore — senza aggiungere qualche parola sul conto dell’uomo (il Galvagno) che contribuì sì eminentemente, dopo il disastro di Novara, a consolidare sulle sue basi l’edificio costituzionale in Piemonte, e che nel mese di maggio del 1852 abbandonò il potere, circondato dalla stima universale, che la sua probità, la sua intelligenza e la sua devozione al paese gli avevano assicurata.
«Il sig. Dupin maggiore aveva proposto un giorno all’Assemblea francese (2 luglio 1828) che avanti il loro ritiro i ministri non potessero prendere veruna cautela onde migliorare la propria condizione; e meno ancora ottenere titoli e favori, se non dopo decorso un certo intervallo di tempo, affinchè non lasciassero, ritirandosi, uno dei loro al ministero per confermare o accordare ad essi uscenti onori, pensioni e dotazioni, nella medesima guisa in cui nella marina il capitano resta a bordo del proprio vascello fino a tanto che l’equipaggio sia in salvo.
«Tali proposte non sarebbero affatto necessarie se tutti i ministri assomigliassero ai d’Azeglio e ai Galvagno. Quest’ultimo, infatti, lungi dal lasciare dietro sè qualcheduno per firmare quel genere di decreti ai quali il signor Dupin faceva allusione, ricusò perfino, deponendo il portafogli, il posto di consigliere di Stato che la Corona gli offriva. Se ne andò dal Ministero colla soddisfazione dell’onest’uomo, felice di occupare ancora il suo scanno di deputato e riprendere le cure del foro, neglette da lungo tempo.
«Il Galvagno appartiene a quel gruppo d’uomini che vanno debitori alla nuova forma del governo stabilito nel 1848 in Piemonte della fama che li circonda; senza questo gran mutamento nella cosa pubblica, sarebbe citato come un sapiente e profondo giureconsulto, come un modello di probità; ma il popolo non avrebbe mai salutato il suo nome con riconoscenza pei servigi da lui resi al paese e per la nobiltà del suo carattere, non ismentitasi mai nei pubblici affari.
«Uno dei grandi benefici, fra gli altri molti che rendono prezioso il regime rappresentativo, si è quello di trarre fuora dalla vita modesta della famiglia, del foro, della scuola, le migliori intelligenze del paese, la cui potenza non riceverebbe il suo completo sviluppo se le attrattive che offre la vita pubblica non le chiamassero. È un piedistallo per tutti coloro che ambiscono reputazione servendo la patria, ma, un piedistallo, gli è vero, la cui base è fatta di carboni ardenti, sulla quale può soltanto mantenersi colui che, forte della coscienza di fare il bene, non impallidisce davanti l’odio sfrenato dello spirito di parte, le vili calunnie, e le immeritate contumelie. Nel modo stesso in cui, al dire di Marmont, a Politza, l’annuo governo del paese si confidava per ordinario all’ambizioso che aveva in dato giorno ed a una data ora maggiore audacia e sotto una grandine di sassate s’impadroniva d’una scatola di ferro acchiudente la carta dei privilegi, così nei governi parlamentari non può acquistar fama duratura, nè diritto alla riconoscenza e al rispetto di tutti colui, cui sia per far difetto il coraggio civile, un imperturbabile buon senso, la costanza dell’anima, e l’energia del carattere.
«Il Galvagno nella sua vita politica ha fatto vedere com’egli non fosse sprovvisto di qualità sì preziose. Eletto deputato al Parlamento nella prima legislatura del 1848, non tardò a distinguersi qual uomo dotato di saggezza politica, principale qualità d’uno statista, e per quel buon senso, che il Thiers chiamava un giorno alla tribuna il genio dell’epoca, e che il Guizot nel suo discorso sull’istoria della rivoluzione d’Inghilterra definisce «l’intelligenza politica dei popoli liberi.»
Nella questione della fusione della Lombardia col Piemonte, il Galvagno fu dello stesso avviso dei Pinelli, dei Cavour e delli Sclopis. Dal momento dell’apertura del Parlamento, ei votò costantemente col partito chiamato allora conservatore moderato e che più tardi assunse il nome di destra pura.
Si fu lui che, d’accordo col Boncompagni e il Ferraris, propose alla Camera, il 20 giugno del 1848, che si accordasse temporariamente al re il potere dittatoriale, affine di togliere ogni sorta d’impaccio all’incedere del governo, che aveva bisogno di unità nel comando dinanzi all’armata vittoriosa del maresciallo austriaco. Durante l’armistizio Salasco il Galvagno appoggiò la nuova amministrazione presieduta dal Perrone, e si oppose vivamente alla dichiarazione della seconda guerra dell’indipendenza.
Chiamato dalla fiducia del re Vittorio Emmanuele alle funzioni di ministro, subito dopo il disastro di Novara, allorchè a buon dritto il banco ministeriale potea nomarsi il banco del dolore, egli volse ogni suo sforzo a rassodare le basi dell’edificio costituzionale.
«Nella sua qualità di ministro dell’interno, il Galvagno ebbe a far fronte alle prime lotte d’un’opposizione parlamentare tanto più audace quanto il gabinetto, contro il quale erano i suoi colpi diretti, si trovava nell’anormale posizione d’un ministero scelto nella minoranza della Camera.
«Nel corto spazio di qualche mese la Corona si vide costretta a sciogliere due volte il Parlamento.
La quarta legislatura si aprì verso il cadere del 1849 con la speranza che il Governo del re potesse procedere innanzi senza incontrare soverchi ostacoli. Il felice resultamento di quelle ultime elezioni deesi in gran parte attribuire all’attività del Galvagno, che in sì rilevante e delicata faccenda si condusse secondo i veri principî dei governi rappresentativi, i quali hanno il dovere, innanzi tutto, di conservare ad ognuno la libertà delle elezioni. Comprese che tra l’imparzialità amministrativa e l’indifferenza per tutte le opinioni havvi un enorme distanza e che un Governo convinto i propri principî esser conformi all’interesse della nazione, dee desiderare che i comizj elettorali mandino al Parlamento cittadini che abbiano comuni con esso lui intendimenti e opinioni.
Questi stessi principî, nelle elezioni del mese di maggio 1851 guidarono il gran ministro della monarchia costituzionale Casimiro Pèrier e tutti quelli che gli successero.
«Nel 1850 e 1851 il Galvagno presentò al Parlamento diversi progetti di legge sulla riorganizzazione dell’amministrazione dell’interno, e rinvenne costantemente sincero appoggio tanto nella camera senatoriale come in quella dei deputati. Nominato guardasigilli nel febbrajo del 1852, si trovò obbligato a ricostruire la magistratura in virtù dell’articolo 11 del decreto reale del 21 dicembre 1850. Su quattrocento membri e più di tal ordine, non ne mise al ritiro che una diecina, e fra quelli, otto almeno, che la età loro e lunghi servigî dispensavano da ulteriori fatiche. Il vero coraggio d’un ministro in quei tempi, in cui abbisognava adottare così importanti decisioni, consisteva in gran parte nell’opporsi alle esagerate pretese dei novatori, e sopratutto nel guardarsi dal cagionare torbidi nelle famiglie, tentando di non far pesare il rigor della legge che sul più picciolo numero d’individui che fosse possibile.
I liberali ardenti trovarono che poco o niente erasi fatto di ciò che incumbeva si facesse; i reazionarî all’incontro sostennero che s’era fatto troppo. L’istoria imparziale dirà che il Galvagno fece il proprio dovere, senza tuttavia trascurare tutte quelle cautele che la sua difficile posizione esigeva.
«Nei primi mesi del 1852, che furono segnalati dall’opera della riforma della magistratura, si compiè pure l’alleanza del conte di Cavour col centro sinistro. Il Galvagno disapprovò tale unione, giacchè, a suo avviso, era il segnale d’una politica di soverchio arrischiata e dalla quale prevedeva emanassero funeste conseguenze.
II Galvagno non comprese allora affattissimo quale portata si avesse la misura notevole politica adottata dal suo collega del ministero delle finanze. Egli non seppe scorgervi altra cosa fuorchè il prossimo arrivo al potere d’un nuovo partito politico che aveva fino a quel giorno combattuto il ministero; o non si accorse che in ogni caso era stato un colpo di grande abilità quello operato dal conte di Cavour, mentre guadagnava tal partilo al Governo, e neutralizzava un ostacolo che si opponeva dapprima al regolare andamento della cosa pubblica.
«Il particolare indirizzo dell’amministrazione del Galvagno manifesta in esso una squisita intelligenza politica. Il conte di Cavour, il quale non è certamente mai stato troppo ben disposto in favore del suo antico collega, fu diverse volte obbligato di dire che questi, quantunque avvocato, quando si trattava di pubblici affari era assai meno avvocato di molti altri.
«Un’altra qualità del Galvagno si è ch’egli non ha mai considerato il Governo che come l’organo della nazione e non mai come quello d’un partito. E diceva infatti con ragione nella seduta del 10 giugno del 1851 alla camera dei deputati: «Il Governo non ha che un partito, e questo partito è quello di tutto l’intero paese.»
«Oratore parlamentare distinto, il Galvagno non fece quasi mai intendere la propria voce che nelle complicate controversie e nelle discussioni legali. Nemico dei discorsi lunghi, non ebbe mai occasione, oppur la trascurò, di darsi l’aria d’oratore, come dicesi, di primo getto. Se gli è accaduto talvolta di non aver preso a considerare la questione sotto il suo vero aspetto, o scrutato ben al fondo il cuore dell’oratore o sofista parlamentario ch’egli voleva combattere, ha tuttavia spiegato ognora chiarezza, precisione, ordine e facilità. Quando gli accadeva di parlare, citava i codici e le leggi, che conosce a fondo, ed in qualsiasi questione ei prendesse parte, non abbandonava il soggetto prima di averlo discusso, spiegato, risoluto e deciso.
«La uscita del Galvagno dal potere ha resa quasi muta quella voce ch’era sempre ascoltata con attenzione, e che sì perfettamente sapeva l’arte di ragionare con eloquenza. Se da un lato questo silenzio tornò assai gradito al ministero, giacchè quella possente voce ed inesorabile dialettica avrebberlo talvolta potuto mettere nell’imbarazzo, dall’altro canto fu causa di dispiacere alla Camera ed al paese.»
Decorato nel 1844 della croce di cavaliere Mauriziano, il Galvagno è stato recentemente promosso a commendatore nel medesimo ordine ed elevato alla dignità di senatore del regno.