Il Parlamento del Regno d'Italia/Carlo Beolchi
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deputato.
Ecco ancora un veterano della vecchia armata liberale, ecco uno dei fondatori del glorioso nazionale edificio, uno dei martiri della patria italiana!
Nato in Mercurago — Mercuri ager — antichissimo paesello che sorge presso ad Arona, il 23 dicembre del 1793, dal dottor Federico e da Teresa Conelli, fece i primi studî parte in Arona stessa e parte nel liceo di Sant’Alessandro in Milano, quindi si recò ad apprender legge all’università di Pavia, ove nel 1817 si ebbe onorevolissima laurea di dottore.
Il paese natio del Beolchi, essendo però, mediante le celebri stipulazioni del trattato di Vienna del 1815 stato aggiunto al Piemonte, il giovine dottore, onde esercire in questo paese la propria professione, si vide costretto a rifare due anni di studî all’università di Torino e a conseguirvi nel 1819 una nuova laurea. Da quell’anno sino al 1821, in cui lo vediamo ad un tratto emergere dalla folla per prender parte attivissima alla rivoluzione di Piemonte, ei rimase nella capitale occupandosi di far pratiche della sua professione, non senza però che i patrî interessi gli stessero già caldamente a cuore, mentre con un pugno di giovani animati da nobilissimi sentimenti, tali quali un avvocato Pietro Gilio, un avvocato Fecchini, un avvocato Allegra ed altri, ei fu fondatore in Torino di una società politica, detta dei Liberi Italiani, la quale non poco cooperò al movimento che stava per iniziarsi.
Il Beolchi, anch’egli come l’Arrivabene e come alcun altro, ha pubblicato memorie intorno ai rilevantissimi fatti cui prese parte e noi ci gioveremo di tali memorie — interessanti sotto ogni aspetto e per gli avvenimenti che con estremo candore e caldezza d’affetto riferiscono, come per lo stile e la lingua, facili, puri, piacevolissimi.
Le cause che prepararono la rivoluzione del ventuno, oggi che finalmente l’unione e l’indipendenza italiana non sono più un sogno, un’aspirazione, ma una quasi completa e splendida realtà, non hanno bisogno d’essere investigate. A sì ineluttabili e provvidenziali moventi deesi aggiungere che le condizioni della Lombardia e della Venezia, riassoggettate al duro giogo dell’Austria, quella del Piemonte, infelicissima pure, giacchè sentivasi la funesta influenza del gabinetto di Vienna pesare fatalmente sul Sardo, erano delle più abbiette e tali da indurre un popolo, in cui lo spirito nazionale cominciava a svegliarsi, a tentare ogni modo onde pervenire a sottrarvisi. Si sa che gli avvenimenti di Napoli contribuirono pure assai ad affrettare lo scoppio di quelli che si preparavano in Piemonte, mentre conoscendosi la marcia d’un esercito austriaco contro i Napoletani, si credette dover cogliere l’occasione in cui le armi nemiche trovavansi lontane di Lombardia per insorgere e proclamare una costituzione identica a quella che l’oppressore d’Italia recavasi a soffocare nell’antica Partenope.
Noi non rifaremo la triste storia del come quel generoso moto in cui tanta nobile gioventù italiana si era slanciata con tutto l’ardore, andasse fallito; essa è d’altronde ben nota; solo diremo che il nostro Beolchi, il quale avea fatto parte di quell’eroico pugno di federati che si strinsero intorno alla compagnia comandata dal prode capitano Ferrero a San Salvario — fatto veramente mirabile, narrato dal nostro protagonista nella biografia di quel valoroso uffiziale — gravemente compromesso, pensò ridursi a Genova in compagnia di tre uffiziali del presidio di Torino, credendo trovarvi ricovero. Ma giunto a San Pier d’Arena seppe, con quale smarrimento il lasciamo pensare al lettore, che le porte della capitale della Liguria gli erano chiuse, avvegnachè quel governatore Desgeneys vi avesse restaurato l’assoluto governo in nome di Carlo Felice.
«Il sole era vicino al tramonto — dice il nostro Beolchi nelle sue memorie — lo sguardo discorreva involontario a vagheggiare la marina lucida e piana come specchio, quando mi vennero vedute le navi che i Genovesi avean fatto allestire per tradurci in Ispagna. A questa vista rabbrividii. Fin qui una speranza ci avea guidati di città in città, la speranza di trovare un punto, ove fare ultima ostinata resistenza. Ora anche questa speranza era svanita, e più non restava che l’esilio. Esilio! Era la prima volta che l’ingrata idea mi si affacciava alla mente. Dal profondo del cuore sospirai e dissi: tutto è perduto!»
Un genovese, d’animo generoso e patriottico, s’imbatte nel futuro proscritto e commosso nel vederlo sì giovine e sì ambasciato, il prende sotto il braccio, il fa penetrare seco nella città a suo gran rischio, l’ospita in sua casa e il colma d’attenzioni, egli e la di lui gentile consorte, e il confortano entrambi con ogni maniera d’esortazione e di consigli.
Nella mattina del secondo giorno, Andrea Copello — così si nominava il pietoso genovese — accompagnò il Beolchi sino alla nave che dovea tradurlo in Ispagna e s’accommiatò da lui dopo averlo caldamente raccomandato al capitano di quella.
Molti erano gli esuli sul bastimento, e allorchè il nostro avvocato ebbevi appena posto piede, fu accerchiato da molti che si rallegravano di vederlo giunto in salvo e di averlo a compagno.
Il tragitto da Genova a Barcellona fu agitatissimo, perchè sempre tempestoso il mare, ma non appena il settimo dì del viaggio, apparve agli esuli da lunge il lido di Catalogna, essi lo salutarono con estrema allegrezza, e quasi vedesser le sponde d’una seconda patria.
L’accoglimento che si ebbero a Barcellona corrispose pienamente difatto alle loro speranze. Ospitati nelle case dei cittadini, che se li strappavano in certa qual guisa di mano, soccorsi efficacemente mediante una produttiva sottoscrizione, che tornò, come dice il chiaro autore, a molti di grande ajuto, festeggiati dalle donne, ch’ei ci dipinge coi colori i più seducenti, la loro stanza nella capitale della Catalogna era riposata e felice.
«Cielo sereno e bellissimo, aria pura, dintorni vaghi e ridenti, sincero affetto degli ospiti, protezione delle leggi, soccorso nobilmente dato, le nostre opinioni trionfanti, un merito il nostro esilio, fondate speranze sull’avvenire, che più potevamo desiderare?»
Ma ohimè! chè il Beolchi è costretto di far succedere a questo periodo il seguente:
«Fallaci beni della vita, perchè così rapidi fuggite?
«Già l’orizzonte cominciava ad oscurarsi, e la passeggera calma che ci fu dato gustare, non fu se non per farci sentire più fiera la tempesta che ci era preparata.» Prima di proseguire la rapida analisi di sì interessanti memorie, noi impegniamo il lettore a non trascurare di prender conoscenza in esse dall’attraente e maestrevole pittura che il Beolchi ne dà dei costumi della Catalogna e dei particolari della vita colà vissuta dai refugiati italiani.
La febbre gialla dapprima, che empiè di spavento e di lutto tutta la Catalogna e mietè non poche vittime anche tra i compagni del nostro avvocato, la guerra dipoi, la civile, la più terribile tra tutte, e quella contro le truppe Francesi che, guidate dal duca d’Angoulème accorrevano a distruggere l’edificio della costituzione spagnuola, furono i due flagelli che percossero ospiti ed ospitati, e questi alla fine (i sopravvissuti), s’intende ricacciarono in nuovo e più terribile esilio.
Il Beolchi, rimasto immune dalla peste, prese parte attiva alla guerra, come ve la presero tutti i suoi compagni d’infortunio, e tutti si comportarono da quei valorosi che erano, e in quella terra lontana resero chiaro e glorioso il nome italiano.
La brevità cui siamo astretti c’impedisce assolutamente di riferire, anche in modo sommario, la narrazione tanto drammatica e pittoresca che il nostro protagonista ci fa nelle sue memorie delle strane e terribili e commoventi vicissitudini di quella guerra; ma cogliamo anche questa occasione per raccomandare a chi ci legge di prenderne cognizione nel libro del Beolchi. Noi terremo dietro più particolarmente alle vicende che toccarono a questi; solo per dare un’idea generale della vita degli esuli in quelle circostanze riporteremo le seguenti parole del nostro autore colle quali egli ne imprende il racconto:
«Dalla formazione de’ summentovati corpi in poi — i corpi italiani: un battaglione d’infanteria e un squadrone lancieri — la vita degli esuli fu piena d’affanni e di pericoli. Noi li vedremo in continuo moto di guerra, vedremo, spettacolo tenerissimo, tanti giovani per nascila e titoli distinti, avvocati, medici, ingegneri, studenti, uffiziali d’ogni grado, il sacco e lo schioppo in ispalla, servire da semplici soldati, passare i giorni e le notti sulla sommità d’aspri monti, dormire sulla nuda terra, esposti al notturno gelo, ai cocenti raggi del sole, alle gravi piogge, portando privazioni e stenti nerissimi, la fame, la sete, i disagi di lunghe e faticose marce, l’ansia dei pericoli, il sanguinoso frutto delle vittorie, sostenuti dal solo ardentissimo amore della libertà. Noi vedremo, con senso di maraviglia, molti giovani, cresciuti fra le mollezze d’una vita agiata, nella placida quiete degli studî, cangiati ad un tratto in guerrieri arditi, gioire tra gli affanni della guerra, arrampicare su per dirupi, per monti quasi inaccessibili, affrontare feroci bande d’uomini spietati, entrare ferocemente nelle battaglie, ed uscirne, se non sempre colla vittoria, sempre gloriosi. Le prove fatte dagli esuli in presenza della milizia e dell’esercito spagnuolo furono lodate ed ammirate per tutta Catalogna e Spagna. I giornali le celebrarono a gara. I governatori attestarono agli esuli la gratitudine nazionale con onorevoli documenti ecc.»
Volte le cose di Spagna alla peggio, la perfidia e il tradimento ajutando, il Beolchi, insieme al Borsieri e al Fontana, milanesi, s’imbarcò su di una nave svedese, il cui capitano tolse i tre esuli per compassione, giacchè eran ridotti in sì misero stato da non possedere che i laceri abiti che indossavano, e pose piede a terra a Palma. Da questa capitale delle Baleari, gli è forza recarsi a Malaga, da Malaga ad Ivica, d’Ivica ad Alicante, d’Alicante a Cartagena, sempre in traccia d’occupazione e di ricovero. In questa ultima città, stretta d’assedio dai Francesi, viene egli, coi suoi compagni, impensatamente sorpreso da repentina capitolazione, sicchè altra alternativa non rimanevagli che restare e andar prigione in Francia, o imbarcarsi di nuovo e fuggire. Evidentemente quest’ultimo partito era da preferirsi, ma per partire ci voleva denaro e gli esuli non ne avevano.
Il generale Torrijos, commosso alle parole che gli dirige il Beolchi, malgrado la gran quantità di compromessi di ogni sorta che assediavano dì e notte il governo chiedendo passaporti e soccorsi, dà ordine sieno pagati quindici scudi a testa al Beolchi e al suo indivisibile compagno il Fontana, e sieno loro concessi imbarco e viveri fino a Gibilterra. Quell’ordine però stava per non essere eseguito, se a caso l’intendente al quale eransi diretti, essendo stato prigioniero di guerra, durante l’impero francese, in Alessandria, ricordando i cortesi trattamenti che vi avea ricevuti, non gli avesse anteposti ai propri concittadini col far pagar loro la somma.
Imbarcati sovra un legno genovese, tenuto in sequestro per motivo di contrabbando e che si rilasciò libero a condizione che trasportasse gli esuli a Gibilterra, essi giunsero felicemente nel porto di questa formidabile piazza di guerra, ove la costanza e la fermezza d’animo del nostro Beolchi, già tanto esperimentate, dovevano esser messe ancora a durissima prova.
Difatto, vietando gl’inglesi, per gelosia di quella piazza forte, che alcuno straniero, il qual non avesse rispondenti nella città o mancasse di mezzi di sussistenza, potesse penetrare nel recinto della medesima, fu giuoco forza ai nostri esuli di tenersi per fortunati se lor venne concesso di trovar ricovero sovra un pontone mezzo sdrucito che apparteneva ad un Genovese. Tutto quel po’ di terra che loro era dato toccare si era il molo, ed anche la sera dovevano abbandonarlo, montandovi di guardia, al cader del giorno, un distaccamento della guarnigione britannica. Quel che patissero di privazioni d’ogni maniera gli esuli su quel pontone è indicibile! Non potendo avvicinar persona al mondo, fuorchè le rare che s’inducevano a venirgli a trovare su quella lingua di terra, non avendo altri mezzi di vivere che gli scarsi soccorsi lor mandatigli da alcuni negozianti italiani e da qualche benefico inglese cui commoveva la lettura di lettere scritte dal Beolchi in nome di tutti e per tutti, la fame non tardò a farsi sentire in crudel modo ai nostri infelici compatriotti, ed il freddo, altro tremendo compagno della miseria, gli angustiava non meno, giacchè gli sventurati giacevano quasi ignudi su nude e putride tavole.
La sera di un tal dì, trascorso senza che gli esuli avesser potuto procurarsi alcun cibo, indebolito dalla fame, dagli stenti e dal continuo sforzo della mente, il Beolchi sentì venir meno il suo coraggio.
Ma vediamo com’egli stesso descriva quell’istante supremo:
«Quando tutto fu silenzio: essi riposano (i suoi compagni) io dissi, confidando in me che domani procuri loro del pane; ma come farò io, a chi mi rivolgerò, se non ho avuto che rifiuti? E supposto che trovi domani qualche anima che si muova a pietà di noi e ci soccorra, sarà per un giorno, per due, per tre, e poi? Ah, da quest’abisso non si esce più. E torna conto avvilirci tanto per protrarre pochi giorni d’una miserabile esistenza? Una nebbia mi offuscò la mente. Fu quello il solo momento in tutta la mia vita che blandii l’idea del suicidio. Un momento, dissi, e son fuor d’affanno. Mi levai adagio adagio per non esser sentito; salii sul ponte, e mi accostai alla sponda del legno, risoluto di calarmi giù nel mare, e por fine ad un tratto a tutti i guai. Mentre mi appressava alla sponda del pontone, un colpo di fucile parti dal molo. Era la sentinella inglese che vi stava a guardia. Al minimo rumore che sente, la sentinella fa fuoco, onde tener lontana la gente dal molo, ove durante la notte si lascian le merci.
Quel colpo troncò il filo delle disperate mie idee e mi salvò. Cominciai a pensare al padre e alla madre. Han pur sofferto molto per questa mia politica sventura; ed ora mandar loro per conforto la nuova che ho fatto la fine del disperato nella rada di Gibilterra! E posso io veramente affermare d’aver tentato invano ogni via di salute, d’aver perduta ogni speranza? La mente si pose a ragionare: io era salvo!»
La ricompensa dell’aver saputo superare quell’istantaneo scoraggiamento non si fece attendere; l’indomani stesso una benefica persona, il signor Bussetti, mandò agli esuli un’assai forte somma, e indi a poco, apertasi una sottoscrizione tra i negozianti genovesi, si provvide a che potessero imbarcarsi sopra un brigantino inglese che si recava a Jersey.
Scampati per generosità di un comandante francese a pericolo di morte in Cadice, ove il lor capitano di nave, a malgrado le proteste e le suppliche dei fuggitivi, credette doversi fermare parecchi giorni, giunsero alla fine a pieno salvamento in Jersey.
In quest’isola ospitaliera trovarono gli esuli l’accoglienza la più generosa che possa mai immaginarsi.
Provveduti subito di comodo alloggio, di vestimenta, di denaro, si riposarono colà una ventina di giorni, quindi, accompagnati lungo tutta la via dalle benefiche cure de’ loro nobili protettori si recarono in Londra, nella qual città, ove l’emigrazione italiana era assai numerosa, non indugiarono a trovare utili e ben remunerate occupazioni.
Il nostro Beolchi per parte sua non tardò a prosperare nell’intrapresa carriera, ch’era quella dell’insegnamento della lingua e della letteratura italiana. Oltre all’essere stato ammesso nelle case le più ragguardevoli per nobiltà e ricchezza, ottenne anche a poco a poco l’introduzione ne’ primi collegi d’educazione femminile.
Fra i tanti che lo scelsero a professore è da nominarsi quello della signora Lewis, la celebre autrice dell’applaudita operetta: Wooman’s mission. — La missione della donna — l’altro della signora Gardener in Abbey-Road; quando poi si fondò l’ora rinomato Collegio della Regina, specie di università femminile, la cattedra di lingua e letteratura italiana fu affidata al Beolchi, che vi dava lezione quattro volte la settimana.
Ricco d’amici, agiato per rispetto agli altri esuli, il nostro protagonista avrebbe potuto dirsi felice quanto il possa essere uomo che vive fuor di patria, se la faticosa vita che faceva non avesse logorata la gracile sua costituzione in modo tale che i medici gli proibirono, pena la vita, di più menomamente occuparsi.
Dopo aver visitato invano diversi tra i principali stabilimenti di bagni e di salute del Regno Unito, il Beolchi, che anelava di far ritorno in patria, dacchè questa, mediante le franchigie concesse dal magnanimo Carlo Alberto, poteva riammettere nel suo seno tutti i propri figli, si decise di lasciare a qualunque costo l’Inghilterra e rientrare in Italia.
Venuto a Torino, ritrovati alcuni de’ suoi antichi compagni di sventura, riconfortatosi alquanto in mezzo ad essi e rimessosi in salute, primo suo pensiero fu quello di occuparsi della compilazione dell’interessante suo libro: Le Reminiscenze dell’esilio, da esso scritto a togliere dall’obblio e a raccomandare alla gratitudine nazionale i nomi di coloro che nell’esilio morirono, combattendo per la libertà, e che per mezzo a sventure incredibili, seppero mantenere incontaminata la lor qualità di figli d’Italia.
Quasi contemporaneamente egli si adoperava onde fondare in Torino un istituto di grande educazione femminile dello stesso genere di quello della Regina in Londra, la di cui utilità eragli comprovata dall’esperienza di più anni. Fattane parola al ministro di pubblica istruzione d’allora, Mameli, questi accolse favorevolmente il suo pensiero, ed il Conte di Cavour pure gli fu cortese d’incoraggiamento e di raccomandazioni; ma, dimesso dalle sue funzioni il Mameli e succedutogli il Gioja, questi non entrò nelle vedute del Beolchi, parve non trovasse un locale adatto per sì importante istituzione, e il progetto non potè per isventura venir realizzato.
E diciamo per isventura, dappoichè noi crediamo fermamente che la fondazione di un gran Collegio femminile di quella sorta, in cui le nostre Italiane ricevessero una solida educazione, sarebbe di gran giovamento allo sviluppo civile della nazione.
Ci duole che la brevità cui siamo astretti ci impedisca di riportare per intero il programma presentato all’uopo dal Beolchi; ma non possiamo tralasciare di citarne i seguenti brani, che faranno senza dubbio apprezzare ai veggenti la ragionevolezza e i vantaggi incontestabili della sua proposta.
Dopo aver gettato un colpo d’occhio sulla floridezza dell’impero Britannico, il chiaro autore vuole indagarne le cause, e gli sembra scoprire che una delle principalissime consista nella domestica educazione, la quale inspira all’inglese quel sentimento di dignità e d’onore che, posto a guida delle sue azioni nei varî ordini sociali, è il primo motore di quelle magnanime imprese che levarono l’Inghilterra a tanta altezza.
«Ora, nell’educazione domestica — esclama il Beolchi — qual parte le madri non hanno? Quante volte fui testimone di quella commovente scena d’una madre inglese, attorniata da’ suoi figliuoletti, intenta ad istruirli? Felice la nazione, io diceva, presso la quale ornare la mente ai figli, informare il loro cuore a virtù sono la prima ambizione e il maggior diletto della donna.
«E perchè mai nell’Italia nostra tanto studio si è posto nell’educazione maschile, e la femminile si è poi quasi negletta? Si è detto che l’istruzione allontana la donna dai doveri di famiglia. Ma quanto fallace sia quest’asserzione l’esempio delle donne inglesi il dimostra, delle quali niun’altra forse è più istrutta, e niun’altra è più virtuosa moglie e tenera madre.»
Il Beolchi ha pubblicato a Londra un’antologia sotto il titolo di Fiori Poetici, di un genere affatto nuovo e commendevolissimo, della quale si fecero colà tre edizioni; quindi, posteriormente alle memorie di cui abbiam fatto più volte menzione, diede alla luce una biografia di Vittorio Ferrero, l’eroe di San Salvario, commovente opuscolo tutto spirante esso pure amor patrio.
La di lui città quasi nativa, Arona, inviò il martire del 1821 deputato al Parlamento nazionale nel 1857, e in queste ultime elezioni lo ha confermato nell’importante missione.