Il Marchese di Roccaverdina/Capitolo XV

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Capitolo XIV Capitolo XVI
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XV.


Il cavalier Pergola trovò il marchese che sbraitava ancora:

— Sono padrone io in casa mia! O che? Dovevo chiedere il permesso al canonico Cipolla?... Al prevosto Montoro?... Anche a don Giuseppe il sagrestano?

— Con chi l’avete, cugino?

L’impeto della collera gl’impediva di raccontare con ordine la scena avvenuta poco prima davanti ai muratori che davano l’intonaco alle pareti di quella stanza; giacchè il marchese aveva fatto introdurre colà, senza cerimonie, amichevolmente, il canonico e il prevosto venuti a trovarlo.

— Ma come, signor marchese! E la parrocchia? Il Cristo spettava ad essa... Alla cappella del Crocifisso! Non ci faccia quest’affronto!... Ripari! — Sissignore, pretendevano questo! È forse un [p. 155 modifica]buffone il marchese di Roccaverdina, da fare prima una promessa e poi rimangiarsela?

— E vi guastate il sangue per loro?

— Ah, cugino! Sentirsi dire dal prevosto: — "Vi dava noia in casa quel Crocifisso, marchese? Meglio tenerlo nascosto nel mezzanino, che esporlo nella chiesucola di un convento ridotto una mandria indecente da padre Anastasio e dagli altri frati!" — Predica la morale, lui! il signor prevosto, quasi non si sapesse....

— Benissimo! Quasi non si sapesse!...

Il cavalier Pergola si stropicciava allegramente le mani, rideva battendo i piedi, mentre il marchese tornava a ripetere:

— Dovevo chiedere il permesso a loro?... Anche a don Giuseppe il sagrestano?

E ripeteva che, soprattutto, lo avevano irritato le parole del prevosto: — Vi dava noia in casa quel Crocifisso, marchese? — Da che cosa poteva sospettarlo quel faccione da mulo del prevosto? Doveva avergliele suggerite, certamente, don Silvio La Ciura!

E il giorno della processione....

Uno spettacolo! Tutti a piedi scalzi, e con corone di spine in testa; una sfilata che non finiva più, a dispétto dei canonici di Sant’Isidoro!... E pianti e colpi di discipline... E, mescolati insieme, preti, frati, confraternite, signori, maestranze, massai, contadini!... Tutta Ràbbato per le vie! E padre [p. 156 modifica]Anastasio che accorreva da un punto all’altro, con in testa la corona di vimini un po’ di traverso e la disciplina in mano, per mostra. Poteva fare due cose nello stesso tempo, flagellarsi le spalle e badare all’ordine della processione, alle fermate, alle riprese? — Psi! Psi! Psi! Avanti! Avanti! — Si udiva soltanto la sua voce, si vedeva soltanto un suo braccio, messo fuori dalla larga manica, trinciante l’aria con rapidi segnali. E la imperiosa tromba del suo naso e la sua poderosa pancia che sporgeva stretta dal cordone trionfavano allorchè egli si fermava a gambe larghe, in mezzo alla via, quasi argine, per far passare a giusta distanza le due file della processione che accennavano a serrarsi incalzate dalla folla.

E quel giorno....

Il marchese avea dovuto andare dalla zia baronessa per trovarsi colà con la famiglia Mugnos che voleva assistere da un terrazzino al passaggio della processione. Nervoso, irrequieto, rispondeva spesso fuori tono alle domande della zia e della signora Mugnos. Si affacciava, rientrava, tornava ad affacciarsi; e la processione sfilava, sfilava, interminabile, tra la folla enorme.

— Che hai, nepote mio?

— Niente. Certi spettacoli.... non so.... fanno un effetto....

— È vero. [p. 157 modifica]

— È stata una santa ispirazione, marchese! — gli ripeteva per la terza volta la signora Mugnos.

Il marchese appoggiato all’imposta del balcone dov’erano affacciate Zòsima e la sorella, chiamò:

— Zòsima, sentite!

Ella si piegò col corpo verso di lui, tenendosi attaccata con una mano alla ringhiera di ferro.

— E ditemi la verità! — soggiunse il marchese sottovoce.

— La dico sempre — rispose Zòsima.

— Ditemi la verità: Perchè avete tardato tanto ad acconsentire?

— Per riflettere bene; e anche per....

— Per gelosia di.... quella...? Oh!

— Forse! Cosa passata non conta più.... Ecco il Crocifisso.

Dovette affacciarsi anche lui.

Si attendeva di riceverne un’impressione violenta e avrebbe voluto evitarla. Invece, alla luce diffusa, nello spazio della via, il suo Crocifisso gli parve rimpicciolito di proporzioni e meno doloroso di aspetto. Egli stentava a persuadersi che fosse proprio quello stesso che laggiù, alla parete del mezzanino, gli era sembrato quasi colossale e così terrificante con quegli occhi semispenti e quelle sanguinolenti piaghe che spuntavano dagli strappi del lenzuolo!

Intanto, padre Anastasio se lo portava via, in [p. 158 modifica]coda alla processione, a dispetto dei canonici di Sant’Isidoro.... Solo don Silvio non avea voluto mancare, e, confuso coi più umili, con la corona di spine in testa, a piedi scalzi, si sbatteva forte la disciplina su le magrissime spalle.

E quel giorno, a quella vista, il marchese si confermò nel sospetto che don Silvio avesse suggerito al prevosto le parole: — Vi dava noia in casa Gesù Crocifisso? — Non intendeva di ripetergliele in quel momento col prender parte, lui solo della parrocchia di Sant’Isidoro, alla processione promossa da padre Anastasio?

Il marchese aggrottò le sopracciglia e si ritrasse indietro.

Quando la via tornò deserta e silenziosa, traversata soltanto da qualche povera donna che infilava frettolosamente un vicolo per arrivare in tempo alla chiesa di Sant’Antonio e ricevere la benedizione dal Crocifisso nuovo, come dicevano, quantunque fosse vecchissimo di qualche centinaio di anni, il marchese era già tranquillo, col gran sollievo della liberazione finalmente ottenuta, che gli traspariva dagli sguardi e da tutto l’aspetto.

Visto che Zòzima stava per seguire nel salone la sorella Cristina, le accennò di fermarsi.

— Zòsima, ora tutto dipende da voi.

— La baronessa sa.... — ella rispose un po’ meravigliata di quelle parole. [p. 159 modifica]

— Che cosa?

— Il mio voto....

— Che voto? È una novità!

— .... Di sposare dopo che il Signore ci avrà concesso la pioggia!

— E se non piovesse?

— Pioverà presto.... Bisogna sperarlo!

— Come mai vi è venuto in testa...?

— C’è tanta povera gente che muore di fame. Non sembrerebbe malaugurio anche a voi?

— Avete ragione.

Egli era stato ad osservarla attentamente durante le due ore che si trovavano insieme. Sì, c’era una soave finezza di espressione nei tratti di quel viso, specialmente negli occhi e nella bocca; ma il sangue non più scorreva rapido e caldo sotto la bianca epidermide; ma il cuore non più batteva agitato da baldo impulso di passione! Le disgrazie, le sofferenze avevano ammortito ogni rigoglio nel non giovane corpo; e per ciò sembrava che anche quell’anima vivesse quasi in preda a continuo sbalordimento.

Ma, forse, egli s’ingannava.

C’era voluto e una straordinaria forza di volontà e un gran coraggio e un nobilissimo orgoglio per rassegnarsi a vivere dignitosamente nella miseria dopo aver gustato la soddisfazione e i piaceri della ricchezza e spesso pure quelli del fasto, come lo aveva amato e praticato a intervalli, suo padre! [p. 160 modifica]

E nei momenti in cui, suo malgrado, il marchese si sentiva spinto a fare confronti che gli sembravano profanazioni, scoteva la testa per scacciarli via, ripetendo mentalmente:

— Questa, questa è la donna che ci vuole per me!

Glielo dicevano anche gli altri in Casino, fin il dottor Meccio che pareva volesse entrargli in grazia dopo la sfuriata di mesi addietro.

— Bravo, marchese!... Un angelo!... Avete scelto un angiolo!... Tutte le virtù!... Debbo confessarvelo? Io ce l’ho avuta un po’ con voi, vedendovi vivere come un romito, lassù! Questo è il primo passo; poi verrà l’altro. Siamo qua, tutti, per portarvi in palma di mano. Il paese ha bisogno di uomini energici e onesti, onesti specialmente! Voi mi capite. Stiamo passando un brutto quarto d’ora. Povero Comune!

— Niente, dottore! Riguardo ad affari comunali....

— Ma se gli uomini come voi si tirano indietro!

— Ho troppi grattacapi in casa mia.

— È casa vostra, è casa nostra il Comune!

— Niente! Da quest’orecchio non ci sento.

E lo lasciava a spasseggiare su e giù pel salone del Casino, con la gran canna d’India infilata sotto braccio, come una spada, lungo, diritto, impettito.

Nell’attesa che l’intonaco delle stanze si asciugasse, che arrivassero da Catania il pittore pei soffitti e gli operai per tappezzarle, il marchese ora, [p. 161 modifica]andava quasi tutti i giorni in Casino, prima di assistere alla distribuzione delle minestre e del pane insieme con gli altri colleghi della Commissione.

Aveva preso gusto alla partita di tarocchi che don Gregorio, cappellano del monastero di Santa Colomba, il notaio Mazza, don Stefano Spadafora e don Pietro Salvo facevano colà, in un angolo appartato, due volte al giorno, inchiodati per lunghe ore col Giove, l’Impiccato, il Matto e coi Trionfi tra le mani, accalorandosi, bisticciandosi, insultandosi con parolacce e tornando, poco dopo, più amici di prima.

Spesso, don Pietro Salvo gli cedeva il posto, appena vinto qualche soldo:

— Volete divertirvi, marchese?

Don Stefano sbuffava. In presenza del marchese, gli toccava di contenersi, ed era una gran sofferenza per lui.

Il marchese, che lo sapeva, sedendosi gli faceva il patto:

— Senza bestemmie, don Stefano!

— Ma il giocatore deve sfogarsi! Voi parlate bene! Debbo crepare?

E un giorno, a ogni svista del compagno, a ogni giocata andatagli a male, don Stefano, invece di dirne qualcuna di quelle da schiodare dal Paradiso mezza corte celeste, fu visto togliersi rabbiosamente di capo la tuba, sputarvi dentro e rimettersela sùbito. [p. 162 modifica]

— Che fate, don Stefano?

— Lo so io! Debbo crepare?... Questa vale per Giove....

E buttò la carta picchiando forte con le nocche delle dita, quasi volesse sfondare il tavolino.

Sembrava che quella volta i tarocchi lo facessero a posta, e il compagno pure. E don Stefano, a cavarsi rabbiosamente di capo la tuba, a sputarvi dentro e rimettersela sùbito.

— Che fate, don Stefano?

— Lo so io!... Volete che crepi?

Soltanto all’ultimo, quando egli, fuori dei gangheri, scaraventava la tuba per terra, gli astanti si avvidero della figurina del Cristo alla Colonna ficcata là in fondo, contro la quale egli aveva inteso di bestemmiare, silenziosamente, a quella maniera!... Doveva proprio crepare?

E non gli importò che gli appiccicassero per questo il nomignolo di Maometto. Almeno, da quel giorno in poi, egli potè bestemmiare in pace, a libito suo, anche in faccia al marchese.

Intanto il dottor Meccio e parecchi altri tornavano spesso alla carica:

— Un signore come voi! Vi porteremmo in trionfo al Municipio!

E siccome il marchese da questo orecchio non voleva sentirci, così cominciò a riprendere le passeggiate serali su per la spianata del Castello, dove [p. 163 modifica]quasi nessuno più osava di andare, tanto era desolante lo spettacolo di quelle campagne brulle, riarse che si stendevano, di qua, fino a piè delle colline, e, di là, fino a piè dell’Etna sempre pennacchiato di fumo, con appena un piccolo orlo di neve in cima al cratere, coi boschi di castagni e di lecci attorno ai fianchi, scabroso in alto e rigato da nere strisce di lava che l’aria senza vapori permetteva di distinguere nettamente.

Ma, dopo tre o quattro volte, avea dovuto smettere.

Trovandosi solo lassù, in faccia a quell’immenso orizzonte e col gran silenzio che lo circondava, egli sentiva venirsi addosso un’inesplicabile tristezza. Le miserie udite raccontare o viste durante la giornata gli tornavano in mente. Da Margitello, da Casalicchio, da Poggiogrande gli erano arrivate, una dietro a l’altra, cattive notizie. — Ieri sono morti quattro animali! Oggi, tre altri! — Il tifo bovino continuava la sua strage. Come non impensierirsi?...

Ma non era questo, no!...

Tristi presentimenti gli scurivano l’animo; si addensavano, passavano via, come nuvoloni spazzati dal vento, tornavano di quando in quando, senza ragione alcuna e senza significato preciso.

Si distraeva ruminando grandi progetti agrari da attuare, appena sposato: un’Associazione di proprietari di vigneti e di uliveti, sotto la sua direzione; e macchine di ogni sorta, le più recenti; e [p. 164 modifica]produzione da spedire nei mercati della penisola e fuori, in Francia, in Inghilterra, in Germania!

Altro che le misere brighe municipali con cui non si cavava un ragno da un buco e che significavano soltanto: Levati di lì, che mi ci metto io!

E rizzava, con l’immaginazione, vasti edifici, laggiù, a Margitello.... Sentiva rinascere in sè, il mal del calcinaccio del nonno.... Da una parte gli strettoi per le ulive, e la dispensa coi coppi panciuti per gli oli; dall’altra, i pigiatoi delle uve e la cantina, fresca, ariosa, per le botti e i bottaccini.... E vedeva oli dorati, limpidissimi, in belle bottiglie, da vincere al paragone quelli di Lucca e di Nizza; e vini rossi, e moscati da contrastare coi bordò, coi Reno, con tutti i migliori vini del mondo!