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andava quasi tutti i giorni in Casino, prima di assistere alla distribuzione delle minestre e del pane insieme con gli altri colleghi della Commissione.

Aveva preso gusto alla partita di tarocchi che don Gregorio, cappellano del monastero di Santa Colomba, il notaio Mazza, don Stefano Spadafora e don Pietro Salvo facevano colà, in un angolo appartato, due volte al giorno, inchiodati per lunghe ore col Giove, l’Impiccato, il Matto e coi Trionfi tra le mani, accalorandosi, bisticciandosi, insultandosi con parolacce e tornando, poco dopo, più amici di prima.

Spesso, don Pietro Salvo gli cedeva il posto, appena vinto qualche soldo:

— Volete divertirvi, marchese?

Don Stefano sbuffava. In presenza del marchese, gli toccava di contenersi, ed era una gran sofferenza per lui.

Il marchese, che lo sapeva, sedendosi gli faceva il patto:

— Senza bestemmie, don Stefano!

— Ma il giocatore deve sfogarsi! Voi parlate bene! Debbo crepare?

E un giorno, a ogni svista del compagno, a ogni giocata andatagli a male, don Stefano, invece di dirne qualcuna di quelle da schiodare dal Paradiso mezza corte celeste, fu visto togliersi rabbiosamente di capo la tuba, sputarvi dentro e rimettersela sùbito.