Il Filostrato/Parte sesta

Parte sesta

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IL

FILOSTRATO

DI GIOVANNI BOCCACCI



PARTE SESTA



ARGOMENTO

Qui comincia la sesta parte del Filostrato, nella quale primieramente Griseida, essendo presso al padre, si duole d’essere lontana a Troilo. Viene a lei Diomede e favellale; biasimale Troia e i Troiani, e discuoprele il suo amore; al quale ella risponde, e lascialo in dubbio s’egli le piaccia o no; e ultimamente intiepidita di Troilo, il comincia a dimenticare. E primieramente si duole piangendo Griseida d’essere da Troilo lontana.


I.


Dall’altra parte in sul lito del mare,
     Con poche donne, tra le genti armate
     Stava Griseida, ed in lagrime amare
     Da lei eran le notti consumate,
     Che ’l giorno più le convenia guardare,
     Perchè le fresche guance e delicate
     Pallide e magre l’eran divenute,
     Lontana dalla sua dolce salute.

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II.


Ella piangeva seco mormorando
     Di Troilo lo già preso piacere,
     E gli atti tutti andava disegnando
     Stati tra loro, e le parole intere
     Tutte con seco venia ricordando,
     Qualora ella n’avea tempo o potere;
     Perchè da lui vedendosi lontana,
     Fe’ de’ suoi occhi un’amara fontana.

III.


Nè saria stato alcun sì dispietato
     Ch’udendo lei rammaricar dolente
     Con lei di pianger si fosse temprato.
     Ella piangeva sì amaramente,
     Quando punto di tempo l’era dato,
     Che dir non si potrebbe interamente;
     E quel che peggio ch’altro le facea,
     Era, con cui dolersi non avea.

IV.


Ella mirava le mura di Troia,
     E’ palagi, le torri e le fortezze,
     E dicea seco: oimè, quanta gioia,
     Quanto piacere e quanto di dolcezze
     N’ebb’io già dentro! ed ora in trista noia
     Consumo qui le mie care bellezze:
     Oimè, Troilo mio, che fa’ tu ora,
     Ricordati di me niente ancora?

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V.


Oimè lassa! or t’avess’io creduto,
     E insieme tramendue fossimo giti
     Dove e in qual regno ti fosse piaciuto;
     Ch’or non sarien questi dolor sentiti
     Da me, nè tanto buon tempo perduto:
     Quando che sia saremmo poi redditi;
     E chi di me avria poi detto male,
     Perchè andata ne fossi con uom tale?

VI.


Oime lassa! che tardi m’avveggio
     Che ’l senno mio mi torna ora nemico:
     Io fuggii il male e seguitai il peggio,
     Onde di gioia il mio cuore è mendico;
     E per conforto invan la morte chieggio,
     Poi veder non ti posso, o dolce amico,
     E temo di giammai più non vederti;
     Così sien tosto li Greci diserti!

VIII.


Ma mio poter farò quinci fuggirmi,
     Se conceduto non mi fia ’l venire
     In altra guisa, e con teco reddirmi
     Com’io promisi; e vada dove gire
     Ne vuole il fumo, e ciò che può seguirmi
     Di ciò ne segua; ch’anzi che morire
     Di dolor voglia, io voglio che parlare
     Possa chi voglia e di ciò abbaiare.

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VIII.


Ma di sì alto e grande intendimento
     Tosto la volse novello amadore:
     Aoperava Diomede ogni argomento
     Che el potea per entrarle nel core;
     Nè gli fallì al suo tempo l’attento,
     E ’n breve spazio ne cacciò di fuore
     Troilo e Troia, ed ogni altro pensiero
     Che ’n lei fosse di lui o falso o vero.

IX.


Ella non v’era il quarto giorno stata
     Dopo l’amara dipartenza, quando
     Cagione onesta a lei venir trovata
     Da Diomede fu, che sospirando
     La trovò sola, e quasi trasformata
     Dal dì che prima con lei cavalcando
     Di Troia quivi menata l’avea,
     Il che gran maraviglia gli parea.

X.


E seco disse nella prima vista:
     Vana fatica credo sia la mia;
     Questa donna è per altrui amor trista,
     Siccom’io veggio, sospirosa e pia;
     Troppo esser converria sovrano artista
     S’io ne volessi il primo cacciar via
     Per entrarv’io: oimè che male andai
     Per me a Troia quando la menai.

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XI.


Ma come quei ch’era di grande ardire,
     E di gran cuor, con seco stesso prese,
     S’el ne dovesse per certo morire,
     Poi quivi era venuto, l’aspre offese
     Ch’amore gli facea per lei sentire
     Di dimostrarle, sì come s’accese
     Prima di lei; e postosi a sedere,
     Di lungi assai si fece al suo volere.

XII.


E prima seco entrò a ragionare
     Dell’aspra guerra tra loro e’ Troiani,
     Lei domandando quel che le ne pare,
     S’e’ lor pensier credea frivoli o vani:
     Quinci discese poi a domandare
     Se le parien de’ Greci i modi strani;
     Nè molto poi si tenne a domandarla,
     Perchè stesse Calcas di maritarla.

XIII.


Griseida, che ancor l’animo avea
     In Troia fitto al suo dolce amadore,
     Dell’astuzia di lui non s’accorgea,
     Ma sì come piaceva al suo signore
     Amore, a Diomede rispondea,
     E spesse volte gli passava il cuore
     Con grieve doglia, e talor li donava
     Lieta speranza di quel che cercava.

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XIV.


Il qual come con lei rassicurato
     Fu ragionando, cominciò a dire:
     Giovane donna, s’io v’ho ben guardato
     Nell’angelico viso da aggradire
     Più ch’altro visto mai, quel trasformato
     Mi par veder per noioso martire,
     Dal giorno in qua che di Troia partimmo,
     E qui come sapete ne venimmo.

XV.


Nè so ch’esser si possa la cagione
     S’amor non fosse, il qual, se savia sete,
     Gittrete via, udendo la ragione,
     Perchè siccom’io dico far dovete.
     Li Troian son si può dire in prigione
     Da noi tenuti, siccome vedete,
     Che siam disposti di non mutar loco
     Senza disfarla o con ferro o con fuoco:

XVI.


Nè crediate ch’alcun che dentro sia
     Trovi pietà da noi in sempiterno;
     Nè mai commise alcuno altra follia
     O commettrà, se ’l mondo fosse eterno,
     Che assai chiaro esemplo non gli fia,
     O qui tra’ vivi, o tra’ morti in inferno,
     La punizion ch’a Paride daremo,
     Della fatta da lui, se noi potremo.

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XVII.


E se vi fosser ben dodici Ettori,
     Come un ve n’è, e sessanta fratelli;
     Se Calcas per ambage e per errori
     Qui non ci mena, parimente d’elli,
     Quantunque sieno, i disiati onori
     Avremo e tosto; e la morte di quelli,
     Che sarà in breve, ne darà certanza
     Che non sia falsa la nostra speranza.

XVIII.


E non crediate che Calcas avesse
     Con tanta istanza voi raddomandata,
     Se ciò ch’io dico non antivedesse:
     Ben’ho io già con esso lui trattata
     Questa questione prima che ’l facesse,
     E ciascuna cagione esaminata;
     Ond’ei per trarvi di cotal periglio,
     Di rivolervi qui prese consiglio.

XIX.


Ed io nel confortai, di voi udendo
     Mirabili virtù ed altre cose;
     Ed Antenor per voi dargli sentendo,
     M’offersi trattator, ed el m’impose
     Ch’io il facessi, assai ben conoscendo
     La fede mia; nè mi fur faticose
     L’andate e le tornate per vedervi,
     Per parlarvi, conoscervi ed udervi.

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XX.


Chè vo’ dir dunque, bella donna e cara,
     Lasciate de’ Troian l’amor fallace;
     Cacciate via questa speranza amara
     Che ’nvano sospirare ora vi face,
     E rivocate la bellezza chiara,
     La qual più ch’altra a chi intende piace;
     Ch’a tal partito omai Troia è venuta
     Ch’ogni speranza ch’uomo v’ha è perduta.

XXI.


E s’ella fosse pur per sempre stare,
     Sì sono il re, e’ figli e gli abitanti
     Barbari e scostumati, e da apprezzare
     Poco, a rispetto de’ Greci, ch’avanti
     Ad ogni altra nazion possono andare,
     D’alti costumi e d’ornati sembianti;
     Voi siete ora tra uomin costumati,
     Dove eravate tra bruti insensati.

XXII.


E non crediate che ne’ Greci amore
     Non sia, assai più alto e più perfetto
     Che tra’ Troiani; e ’l vostro gran valore,
     La gran beltà e l’angelico aspetto
     Troverà qui assai degno amadore,
     Se el vi fia di pigliarlo diletto;
     E se non vi spiacesse, io sarei desso,
     Più volentier che re de’ Greci adesso.

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XXIII.


E questo detto diventò vermiglio
     Come fuoco nel viso, e la favella
     Tremante alquanto; in terra bassò il ciglio,
     Alquanto gli occhi torcendo da ella.
     Ma poi tornò da subito consiglio
     Più pronto che non era, e con isnella
     Loquela seguitò: non vi sia noia,
     Io son così gentil come uom di Troia.

XXIV.


Se ’l padre mio Tideo fosse vissuto,
     Com’el fu morto a Tebe combattendo,
     Di Calidonia e d’Argo saria suto
     Re, siccom’io ancora essere intendo;
     Nè era stran nell’un regno venuto,
     Ma conosciuto, antico e reverendo,
     E, se creder si può, di Dio disceso,
     Sì ch’io non son tra’ Greci di men peso.

XXV.


Pregovi dunque, se ’l mio prego vale,
     Che via cacciate ogni malinconia,
     E me, se io vi paio tanto e tale
     Qual si conviene a vostra signoria,
     In servidor prendiate; io sarò quale
     L’onestà vostra e l’alta leggiadria,
     Ch’io veggio in voi più che ’n altra, richiede,
     Sì che ancor caro avrete Diomede.

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XXVI.


Griseida ascoltava, e rispondea
     Poche parole e rade, vergognosa,
     Secondo che ’l di lui dir richiedea;
     Ma poi udendo quest’ultima cosa,
     Seco l’ardir di lui grande dicea,
     A traverso mirandol dispettosa,
     Tanto poteva ancor Troilo in essa,
     E così disse con voce sommessa:

XXVII.


Io amo, Diomede, quella terra
     Nella qual son cresciuta ed allevata,
     E quanto può mi grava la sua guerra,
     E volentier la vedrei liberata;
     E se fato crudel fuor me ne serra,
     Questo mi fa con gran ragion turbata,
     Ma d’ogni affanno per me ricevuto,
     Prego buon merto te ne sia renduto.

XXVIII.


Ben so ch’e’ Greci son d’alto valore
     E costumati sì come ragioni;
     Ma de’ Troian non è però minore
     L’alta virtù; e le lor condizioni
     L’hanno mostrate nelle man d’Ettore;
     Nè senno è credo per divisïoni
     O per altra cagione altrui biasmare,
     E poscia sè sopra gli altri lodare.

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XXIX.


Amore io non conobbi, poi morio
     Colui al qual lealmente il servai,
     Sì come a marito e signor mio;
     Nè Greco nè Troian mai non curai
     In cotal fatto, nè me n’è in disio
     Curarne alcuno, nè mi fia giammai:
     Che tu sia di real sangue disceso
     Cred’io assai, ed hollo bene inteso.

XXX.


E questo assai mi dà d’ammirazione,
     Che possi porre in una femminella,
     Come son io, di poca condizione
     L’animo tuo: a te Elena bella
     Si converria: io ho tribulazione,
     Nè son disposta a sì fatta novella;
     Non perciò dico che io sia dolente
     D’essere amata da te certamente.

XXXI.


Il tempo è reo, e voi siete nell’armi,
     Lascia venir la vittoria ch’aspetti,
     Allor saprò io molto me’ che farmi;
     Forse mi piaceranno più i diletti
     Ch’ora non fanno, e potrai riparlarmi,
     E per ventura più cari i tuoi detti
     Mi fieno ch’or non son: l’uom dee guardare
     Tempo e stagion quand’altri vuol pigliare.

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XXXII.


Quest’ultimo parlare a Diomede
     Fu assai caro, e parveli potere
     Isperar senza fallo ancor mercede,
     Siccom’egli ebbe poi a suo piacere;
     E risposele: donna, io vi fo fede
     Quanto posso maggiore, che al volere
     Di voi io sono e sarò sempre presto:
     Nè altro disse, e gissen dopo questo.

XXXIII.


Egli era grande e bel della persona,
     Giovane fresco e piacevole assai,
     E forte e fier siccome si ragiona,
     E parlante quant’altro Greco mai,
     E ad amor la natura aveva prona;
     Le quai cose Griseida ne’ suoi guai,
     Partito lui, seco venne pensando,
     D’accostarsi o fuggirsi dubitando.

XXXIV.


Queste la fer raffreddar nel pensiero
     Caldo ch’avea di voler pur reddire;
     Queste piegaro il suo animo intero
     Che in ver Troilo aveva, ed il disire
     Torsono indietro, e ’l tormento severo
     Nuova speranza alquanto fe’ fuggire:
     E da queste cagion sommossa, avvenne
     Che la promessa a Troilo non attenne.