Il Filostrato/Parte quinta

Parte quinta

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IL

FILOSTRATO

DI GIOVANNI BOCCACCI



PARTE QUINTA



ARGOMENTO

Comincia la quinta parte del Filostrato, nella quale Griseida è renduta. Troilo l’accompagna, e tornasi in Troia; piagne solo, e appresso con Pandaro, per lo consiglio del quale, alquanti dì se ne vanno a dimorare con Serpedone. Tornasi in Troia, laddove ogni luogo rammenta Griseida a Troilo, ed egli per mitigare i suoi dolori, quelli medesimi canta, aspettando che ’l dì decimo passi. E primieramente Griseida è renduta a Diomede, la quale Troilo accompagna infino fuori della città, e partita da lui, ell’è con festa ricevuta dal suo padre.
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I.


Quel giorno istesso vi fu Diomede
     Per volere a’ Troian dare Antenore,
     Perchè Priamo Griseïda li diede,
     Di sospiri, di pianti e di dolore
     Sì piena, che n’incresce a chi la vede;
     Dall’altra parte v’era il suo amadore
     In sì fatta tristizia, che alcuno
     Un simil non ne vide mai nessuno.

II.


Vero è che con gran forza nascondea
     Mirabilmente dentro al tristo petto
     La gran battaglia la qual’egli avea
     Con sospiri e con pianto; e nell’aspetto
     Niente o poco ancor gli si parea,
     Come ch’egli attendesse esser soletto,
     E quivi piangere e rammaricarsi,
     Ed a grand’agio seco disfogarsi.

III.


Oh quante cose nell’altera mente
     Gli vennero, Griseida vedendo
     Rendere al padre! questi primamente
     D’ira e di cruccio tututto fremendo,
     Seco rodeasi, e dicea pianamente:
     O misero dolente, e che più attendo?
     Non è el meglio una volta morire,
     Che sempre in pianto vivere e languire?

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IV.


Che non turb’io coll’arme questi patti?
     Perchè qui Diomede non uccido?
     Perchè non taglio il vecchio che gli ha fatti?
     Perchè li miei fratei tutti non sfido?
     Che ora fosser ei tutti disfatti!
     Perchè in pianto ed in dolente grido
     Troia non metto? Perchè non rapisco
     Griseida ora, e me stesso guarisco?

V.


Chi ’l vieterà, s’io il vorrò pur fare?
     O perchè colli Greci non m’accosto
     Se mi volesser Griseida donare?
     Deh perchè più dimoro, che non tosto
     Corro colà e follami lasciare?
     Ma così fiero ed altiero proposto
     Gli fe’ lasciar paura, non uccisa
     Griseida fosse in sì fatta divisa.

VI.


E Griseida poi vide che partire
     Le convenia, qual’ell’era, dogliosa,
     Con quella compagnia che dovea gire,
     Sopra il caval montò, e dispettosa
     Con seco stesso cominciò a dire:
     Ahi crudel Giove, e fortuna noiosa,
     Dove me ne portate contro voglia?
     Perchè v’aggrada tanto la mia doglia?

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VII.


Voi mi togliete, crudi e dispietati,
     Da quel piacer che più m’andava a core;
     E forse vi credete umilïati
     Esser con sacrificio e con onore
     Alcun da me, ma voi sete ingannati;
     In vostro vituperio e disonore
     Mi dorrò sempre, infin che non ritorno
     A riveder di Troilo il viso adorno.

VIII.


Quinci si volse disdegnosamente
     Ver Diomede, e disse: andianne omai,
     Assai ci siam mostrati a questa gente;
     La quale omai sperar può de’ suoi guai
     Salute, se ben miran sottilmente
     All’onorevol cambio che fatt’hai,
     Che hai per una femmina renduto
     Un sì gran re e cotanto temuto.

IX.


E questo detto, al caval degli sproni
     Diè, senza dire fuor che a’ suoi addio;
     E ben conobbe il re e’ suoi baroni
     Lo sdegno della donna; indi sen gio,
     Senza ascoltare comiato o sermoni,
     O riguardare alcuno, e se n’uscio
     Di Troia, nella qual giammai tornare
     Più non doveva, nè con Troilo stare.

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X.


Troilo a guisa d’una cortesia,
     Con più compagni montò a cavallo
     Con un falcone in pugno, e compagnia
     Le fece infino fuor di tutto il vallo,
     E volentieri per tutta la via
     L’averia fatta insino al suo stallo,
     Ma troppo discoperto saria stato,
     E poco senno ancora riputato.

XI.


E tra lor già venuto era Antenore
     Dalli Greci renduto, e con gran festa
     Ricevuto l’aveano e con onore
     I giovani troiani; e benchè questa
     Tornata fosse a Troilo dentro al core
     Per Griseida data assai molesta,
     Pur con buon viso il ricevette, e fello
     Con Pandar cavalcar davanti ad ello.

XII.


E già essendo per accomiatarsi,
     Egli e Griseida si fermaro alquanto,
     E dentro agli occhi l’un l’altro guatarsi,
     Nè ritener potè la donna il pianto,
     E poscia per le man destre pigliarsi,
     E a lei Troilo allor s’accostò tanto,
     Che pian parlando, ella ’l potè udire,
     E disse: torna, non mi far morire.

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XIII.


E senza più, rivoltato il destriere,
     Tutto tinto nel viso, a Diomede
     Non parlò punto, e di cotal mestiere
     Sol Diomede s’accorse, e bene vede
     L’amor de’ due, e dentro al suo pensiere
     Con diversi argomenti ne fa fede,
     E di ciò mentre seco ne pispiglia,
     Nascosamente di colei si piglia.

XIV.


Il padre la raccolse con gran festa,
     Come ch’a lei gravasse tale amore;
     Ella si stava tacita e modesta,
     Sè stessa seco con grave dolore
     Tutta rodendo, ed in vita molesta,
     Pure a Troilo avendo fermo il core;
     Che tosto si doveva permutare,
     E lui per nuovo amante abbandonare.

XV.


Troilo in Troia tristo ed angoscioso,
     Quanto neun fu mai, se ne rivenne;
     E nel viso fellone e niquitoso,
     Pria ch’al palagio suo non si ritenne;
     Quivi smontato, troppo più pensoso
     Che stato fosse ancora, non sostenne
     Che da alcuno gli fosse nulla detto,
     Ma se n’entrò in camera soletto.

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XVI.


Quivi al dolor che aveva ritenuto
     Diè largo luogo, chiamando la morte;
     Ed il suo ben piangeva, che perduto
     Gliel pare avere, e sì gridava forte,
     Che ’n forse fu di non esser sentuto
     Da quei che intorno givan per la corte;
     E in cotal pianto tutto il giorno stette,
     Che servo nè amico nol vedette.

XVII.


Se ’l giorno era con doglia trapassato,
     Non la scemò la notte già oscura,
     Ma fu il pianto e ’l gran duol raddoppiato,
     Così lo conducea la sua sciagura;
     El bestemmiava il giorno che fu nato,
     E gli dei e le dee e la natura,
     E ’l padre, e chi parola conceduta
     Avea che fosse Griseida renduta.

XVIII.


Egli sè stesso ancor maladicea,
     Che sì l’aveva lasciata partire,
     E che ’l partito che preso n’avea,
     Cioè con lei di volersi fuggire,
     Non l’avea fatto, e forte sen pentea,
     E di dolor ne voleva morire;
     O che almen non l’aveva domandata,
     Che forse li saria stata donata.

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XIX.


E sè in qua ed ora in là volgendo,
     Senza luogo trovar per lo suo letto,
     Seco diceva talora piangendo:
     Che notte è questa! vogliendo rispetto
     Avere alla passata, s’io comprendo
     Qual’ora è, tal fiata il bianco petto,
     La bocca, e gli occhi, e ’l bel viso baciava
     Della mia donna, e spesso l’abbracciava;

XX.


Ella baciava me, e ragionando
     Prendevam festa lieta e grazïosa;
     Or sol mi trovo, lasso, e lagrimando,
     In dubbio se giammai tanto gioiosa
     Notte deggia tornare; ora abbracciando
     Vado il piumaccio, e la fiamma amorosa
     Sento farsi maggiore, e la speranza
     Farsi minor, per lo duol che l’avanza.

XXI.


Che farò dunque, misero dolente,
     Aspetterò, pure che ’l possa fare?
     Ma se così s’attrista la mia mente
     Nel suo partir, come perseverare
     Io spero di potere? Egli è niente
     A chi ben ama il potersi posare,
     Perchè in tal guisa fece il simigliante
     La notte e ’l dì ch’era passato avante.

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XXI.


Pandar non era il dì potuto andare
     A lui, nè alcun altro, onde il mattino
     Venuto, tosto sel fece chiamare,
     Per poter seco alquanto il cor meschino,
     Parlando di Griseida, alleggerare.
     Pandar vi venne, e bene era indovino
     Di ciò che quella notte fatto avea,
     Ed ancora di ciò ch’esso volea.

XXIII.


O Pandar mio, disse Troilo, fioco
     Per lo gridare e per lo lungo pianto,
     Che farò io? che l’amoroso foco
     Sì mi comprende dentro tutto quanto,
     Che riposar non posso assai nè poco?
     Che farò io dolente, poichè tanto
     M’è stata la fortuna mia nemica,
     Ch’i’ ho perduta la mia dolce amica?

XXIV.


Io non la credo riveder giammai:
     Così foss’io allor caduto morto,
     Che io partir da me ier la lasciai!
     O dolce bene, o caro mio diporto,
     O bella donna a cui io mi donai;
     O dolce anima mia, o sol conforto
     Degli occhi tristi fiumi divenuti,
     Deh non ve’ tu ch’io muoio, e non m’aiuti?

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XXV.


Chi ti ved’ora, dolce anima bella?
     Chi siede teco, cor del corpo mio?
     Chi t’ascolta ora, chi teco favella?
     Oimè lasso più ch’altro, non io!
     Di’ che fa’ tu? or étti punto nella
     Mente di me, o messo m’hai in oblio
     Per lo tuo padre vecchio ch’ora t’have,
     Laond’io vivo in pena tanto grave?

XXVI.


Qual tu m’odi ora, Pandaro, cotale
     Ho tutta notte fatto, nè dormire
     Lasciato m’ha quest’amoroso male;
     O pur se sonno alcun nel mio languire
     Trovato ha luogo, niente mi vale,
     Perchè dormendo sogno di fuggire,
     O d’esser solo in luoghi paurosi,
     O nelle man di nemici animosi.

XXVII.


E tanta noia m’è questo a vedere,
     E sì fatto spavento m’è nel core,
     Che vegghiar mi saria meglio e dolere:
     E spesse volte mi giugne un tremore
     Che mi riscuote e desta, e fa parere
     Che d’alto in basso io caggia, e desto, amore
     Insieme con Griseida chiamo forte,
     Or per mercè pregando, ora per morte.

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XXVIII.


A cotal punto, qual odi, venuto
     Misero sono, e duolmi di me stesso,
     E del partir, più che giammai creduto
     Io non avrei; oimè che io confesso
     Che io deggia sperare ancora aiuto,
     E che la bella donna ancor con esso
     Verrà tornando, ma il core, che l’ama,
     Non mel consente, ed ognora la chiama.

XXIX.


Poscia ch’egli ebbe in tal guisa gran pezza
     Parlato e detto, Pandaro, doglioso
     Di così grave e noiosa gramezza,
     Disse: deh dimmi Troilo, se riposo
     E fine dee aver questa tristezza,
     Non credi tu che il colpo amoroso
     Da altri mai che da te sia sentito,
     O di partenza sia stato al partito?

XXX.


Ben son degli altri così innamorati
     Come tu se’, per Pallade tel giuro;
     E sonne ancor di quei che sventurati
     Son più di te, men pare esser sicuro;
     E non si son però del tutto dati,
     Come tu se’, a viver tanto duro,
     Ma la lor doglia, quando troppo avanza,
     S’ingegnan d’alleggiar con isperanza.

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XXXI.


E tu dovresti il somigliante fare:
     Tu di’ che ella infra ’l decimo giorno
     T’ha impromesso di qui ritornare;
     Questo non è tanto lungo soggiorno,
     Che tu nol debbi potere aspettare
     Senza attristarti, e star come musorno:
     Come potresti sofferir l’affanno,
     Se allontanar si convenisse un anno?

XXXII.


I sogni e le paure caccia via,
     In quel che son lasciali andar ne’ venti;
     Essi procedon da malinconia,
     E quel fanno veder che tu paventi;
     Solo Iddio sa il ver di quel che fia,
     Ed i sogni e gli augurii, a che le genti
     Stolte riguardan, non montano un moco,
     Nè al futuro fanno assai o poco.

XXXIII.


Dunque, per Dio, a te stesso perdona,
     Lascia questo dolor cotanto fiero;
     Fammi esta grazia, questo don mi dona,
     Levati su, alleggia il tuo pensiero,
     E dei passati ben meco ragiona,
     Ed ai futuri il tuo animo altero
     Dispon, che torneranno assai di corto;
     Dunque sperando ben prendi conforto.

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XXXIV.


Questa città è grande e dilettosa,
     Ed ora è in tregua, siccome tu sai,
     Andianne in qualche parte grazïosa
     Di qui lontana, e quivi ti starai
     Con alcun d’esti re, e la noiosa
     Vita con esso lui trapasserai,
     Mentre che passi il termine c’ha dato
     La bella donna che t’ha il cor piagato.

XXXV.


Deh fallo, io te ne prego, leva suso,
     Non è atto magnanimo il dolersi
     Come tu fai, ed il giacer pur giuso;
     E s’ e’ tuoi modi sì stolti e diversi
     Fuor si sapesson, saresti confuso;
     E diria l’uom, che tu de’ tempi avversi,
     Come codardo, e non d’amor piangessi,
     O che d’essere infermo t’infingessi.

XXXVI.


Oimè! chi molto perde piange assai,
     Nè ’l può conoscer chi non l’ha provato
     Qual è quel ben che io andar lasciai;
     Però non doverci esser biasmato
     S’altro che pianger non facesse mai;
     Ma poichè tu, amico, m’hai pregato,
     Conforterommi a tutto mio potere,
     In tuo servigio e per farti piacere.

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XXXVII.


Mandimi Iddio il dì decimo tosto,
     Sì ch’io mi torni lieto com’io m’era
     Quando di render questa fu proposto:
     Non fu mai rosa in dolce primavera,
     Bella, com’io a ritornar disposto
     Sono, come vedrò la fresca cera
     Di quella donna ritornata in Troia,
     Che m’è cagion di tormento e di noia.

XXXVIII.


Ma dove potrem noi per festa andare
     Come ragioni? Andianne a Serpedone:
     E come vi potrò io dimorare,
     Che io avrò sempre all’animo questione,
     Non forse questa potesse tornare
     Anzi al dì dato per nulla cagione;
     Che non vorrei non esserci, se avviene,
     Per quanto il mondo vale e può di bene.

XXXIX.


Deh io farò che senza indugio, alcuno,
     Se ella torna, fia per me venuto,
     Rispose Pandaro, e porrò qui uno
     Per questo sol, sicchè ben fia saputo
     Da noi; ch’or forse già non c’è nessuno
     Da cui come da me fosse voluto;
     Sicchè per questo già non lascerai;
     Andianne là dov’ora detto m’hai.

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XL.


I due compagni nel cammino entraro,
     E dopo forse quattromila passi
     Là dove Serpedone era arrivaro;
     Il quale come il seppe, incontro fassi
     A Troilo lieto, e molto gli fu caro.
     Li quali, avvegna che de’ fosser lassi
     Del molto sospirar, pur lietamente
     Festa fer grande col baron possente.

XLI.


Costui, siccome quel che d’alto cuore
     Era più ch’altro in ciascheduna cosa,
     Fece a ciascun maraviglioso onore
     Or con cacce or con festa grazïosa
     Di belle donne e di molto valore,
     Con canti e suoni, e sempre con pomposa
     Grandezza di conviti tanti e tali,
     Che ’n Troia mai non s’eran fatti eguali.

XLII.


Ma che giovavan queste cose al pio
     Troilo che ’l core ad esse non avea?
     Egli era là dove spesso il disio
     Formato nel pensier suo nel traea,
     E Griseida come suo iddio
     Con gli occhi della mente ognor vedea;
     Or una cosa or altra immaginando,
     Di lei e spesso d’amor sospirando.

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XLIII.


Ogni altra donna a veder gli era grave,
     Quantunque fosse valorosa e bella;
     Ogni sollazzo ogni canto soave
     Noioso gli era non vedendo quella,
     Nelle cui mani amor posto la chiave
     Avea della sua vita tapinella;
     E tanto bene avea, quanto pensare
     A lei potea, lasciando ogni altro affare.

XLIV.


E non passava sera nè mattina
     Che con sospiri costui non chiamasse,
     O luce bella, o stella mattutina;
     Poi, come s’ella presente ascoltasse,
     Mille fïate e più, rosa di spina
     Chiamandola che ella il salutasse,
     Pria ch’e’ ristesse sempre convenia,
     Il salutar col sospirar finia.

XLV.


Nessuna ora del giorno trapassava
     Che non la nominasse mille fiate;
     Sempre il suo nome in la bocca li stava,
     E ’l suo bel viso e le parole ornate
     Nel cuore e nella mente figurava;
     Le lettere da lei a lui mandate
     Il dì ben cento volte rivolgea,
     Tanto di rivederle gli piacea.

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XLVI.


E’ non vi furon tre dì dimorati,
     Ch’a Pandar Troilo cominciò a dire:
     Che facciam noi più qui? siam noi legati
     A dovere qui vivere e morire?
     Aspettiam noi d’essere accomiatati?
     A dirti il vero i’ me ne vorre’ ire:
     Deh andianne, per Dio, assai siam suti
     Con Serpedone e volentier veduti.

XLVII.


Pandaro allora: or siam noi per lo fuoco
     Venuti qui, o è ’l decimo giorno
     Venuto? Ancor deh temperati un poco,
     Che l’andarne ora parrebbe uno scorno.
     Dove n’andrai tu ora ed in qual loco
     Nel qual tu facci più lieto soggiorno?
     Deh stiamo ancor due dì, poi ce n’andremo,
     E se vorrai, a casa torneremo.

XLVIII.


Come che contra voglia Troilo stesse,
     Pur si rimase ne’ pensieri usati,
     Nè valea perchè Pandar gliel dicesse.
     Ma dopo il quinto dì accomiatati,
     Quantunque a Serpedone non piacesse,
     Ver le lor case si son ritornati;
     Troilo dicendo pel cammino; o Dio!
     Troverò io tornato l’amor mio?

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XLIX.


Ma Pandar seco diceva altrimente,
     Come colui che conosceva intera
     L’intenzïon di Calcas pienamente:
     Questa tua voglia sì focosa e fiera
     Si potrà raffreddar, s’el non mi mente
     Ciò ch’io udii infin quand’ella c’era;
     Ed il decimo giorno, e ’l mese e l’anno,
     Pria la rivegghi, credo passeranno.

L.


Poi che furono a casa ritornati,
     Intramendue in camera n’andaro,
     Ed a seder si furono assettati
     E di Griseida molto ragionaro,
     Senza dar sosta Troilo agl’infiammati
     Sospir, ma dopo alquanto si levaro,
     Dicendo Troilo: andiamo, e sì vedremo
     La casa almen; poich’altro non potemo.

LI.


E detto questo, il suo Pandaro prese
     Per mano, e ’l viso alquanto si dipinse
     Con falso riso, e del palagio scese,
     E varie cagïon con gli altri finse
     Ch’eran con lui, per nasconder l’offese
     Ch’e’ sentiva d’amor; ma poich’attinse
     Con gli occhi di Griseida la magione
     Chiusa, sentì novella turbazione.

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LII.


E’ gli parve che il cor gli si schiantasse
     Poi veduta ebbe la porta serrata
     E le finestre; e tanto di sè ’l trasse
     La passïon novellamente nata,
     Ch’el non sapea se stesse o se andasse;
     E nella faccia sua tutta cambiata
     N’averia dato segno manifesto,
     A chi l’avesse riguardato presto.

LIII.


Con Pandar poi come potea doglioso
     Della sua nuova angoscia ragionava;
     Poi dicea: lasso, quanto luminoso
     Era il luogo e piacevol, quando stava
     In te quella beltà, che ’l mio riposo
     Dentro dagli occhi suoi tutto portava;
     Or se’ rimaso oscuro senza lei,
     Nè so se mai riaver la ti dei.

LIV.


Quindi sen gì per Troia cavalcando,
     E ciascun luogo gliel tornava a mente;
     De’ quai con seco giva ragionando:
     Quivi rider la vidi lietamente;
     Quivi la vidi verso me guardando:
     Quivi mi salutò benignamente;
     Quivi far festa e quivi star pensosa,
     Quivi la vidi a’ miei sospir pietosa.

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LV.


Colà istava, quand’ella mi prese
     Con gli occhi belli e vaghi con amore;
     Colà istava, quando ella m’accese
     Con un sospir di maggior fuoco il core;
     Colà istava, quando condiscese
     Al mio piacere il donnesco valore;
     Colà la vidi altiera, e là umile
     Mi si mostrò la mia donna gentile?

LVI.


Poi ciò pensando, giva soggiugnendo:
     Lunga hai fatta di me amor la storia,
     S’io non mi voglio a me gir nascondendo,
     E ’l ver ben mi ridice la memoria;
     Dove ch’io vada o stia, s’io bene intendo,
     Ben mille segni della tua vittoria
     Discerno, c’hai avuta trionfante
     Di me, che schernii già ciascuno amante.

LVII.


Ben hai la tua ingiuria vendicata,
     Signor possente e molto da temere:
     Ma poi ch’a te servir l’alma s’è data
     Tutta, siccome chiaro puoi vedere,
     Non la lasciar morire sconsolata,
     Ritornata nel suo primo piacere,
     Stringi Griseida sì come me fai,
     Sì ch’ella torni a dar fine a’ miei guai.

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LVIII.


El se ne gia talvolta in sulla porta
     Per la qual’era la sua donna uscita:
     Di quinci uscì colei che mi conforta,
     Di quinci uscì la mia soave vita;
     Fino a quel loco le feci la scorta,
     E quivi da lei feci dipartita;
     E quivi lasso le toccai la mano,
     Seco dicea, piangendo a mano a mano.

LIX.


Quindi n’andasti, cor del corpo mio;
     Quando sarà che tu quindi ritorni,
     Caro mio bene e dolce mio disio?
     Certo io non so, ma questi dieci giorni
     Più che mill’anni fien; deh vedrott’io
     Giammai tornar colli tu’ atti adorni,
     A rallegrarmi sì com’hai promesso?
     Deh fia omai, deh or foss’egli adesso!

LX.


E gli parea a sè stesso nel viso
     Esser men che l’usato colorito,
     E per questo faceva in suo avviso
     D’esser talvolta dimostrato a dito,
     Quasi dicesser: perchè sì conquiso
     È divenuto Troilo e sì smarrito?
     Color che ’l dimostrassono e’ non era,
     Ma sospica chi sa la cosa vera.

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LXI.


Per che gli piacque di mostrare in versi
     Chi ne fosse cagione: e sospirando,
     Quand’era assai stanco di dolersi,
     Alcuna sosta quasi al dolor dando,
     Mentre aspettava nelli tempi avversi,
     Con bassa voce sen giva cantando,
     E ricreando l’anima conquisa
     Dal soperchio d’amore, in cotal guisa:

LXII.


La dolce vista e ’l bel guardo soave
     De’ più begli occhi che si vider mai,
     Ch’i’ ho perduti, fan parer sì grave
     La vita mia, ch’io vo traendo guai;
     Ed a tal punto già condotto m’have,
     Che invece di sospir leggiadri e gai
     Ch’aver solea, disii porto di morte
     Per la partenza, sì me ne duol forte.

LXIII.


Oimè Amor, perchè nel primo passo
     Non mi feristi sì ch’io fossi morto?
     Perchè non dipartisti da me lasso
     Lo spirito angoscioso che io porto?
     Perciocchè d’alto mi veggio ora in basso.
     Non è amore al mio dolor conforto
     Fuor che ’l morir, trovandomi partuto
     Da que’ begli occhi ov’io t’ho già veduto.

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LXIV.


Quando per gentil atto di salute
     Ver bella donna giro gli occhi alquanto,
     Sì tutta si disfà la mia virtute
     Che ritener non posso dentro il pianto;
     Così mi van l’amorose ferute
     Membrando la mia donna, a cui son tanto,
     O lasso me, lontano a veder lei,
     Che se ’l volesse Amor, morir vorrei.

LXV.


Poichè la mia ventura è tanto cruda
     Che ciò ch’agli occhi incontra più m’attrista,
     Per Dio, Amor, che la tua man li chiuda,
     Poic’ho perduta l’amorosa vista;
     Lascia di me, Amor, la carne ignuda,
     Che quando vita per morte s’acquista
     Gioioso dovria essere il morire,
     E sai ben dove l’alma ne dee gire.

LXVI.


Ella n’andrà in quelle belle braccia
     Dove fortuna n’ha ’l corpo gittato:
     Non vedi tu che già nella mia faccia
     Io son del color suo, Amor, segnato?
     Vedi l’angoscia che da me la caccia,
     Trannela tu, e nel seno più amato
     Da lei la porta, ov’ella attende pace,
     Che già ogni altra cosa le dispiace.

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LXVII.


Poich’egli avea cantando così detto,
     Al sospirare antico si tornava;
     Il dì andando, e la notte nel letto,
     Di Griseida sua sempre pensava;
     Nè d’altro quasi prendeva diletto,
     E i dì passati spesso annoverava,
     Non credendo giammai giungere a’ dieci,
     Ch’a lui tornasse Griseida da’ Greci.

LXVIII.


Li giorni grandi e le notti maggiori
     Oltre all’usato modo gli parieno;
     El misurava dalli primi albori
     Infino allor che le stelle apparieno;
     Diceva: il sol è entrato in nuovi errori,
     Nè i cavai suoi come già fer corrieno:
     Della notte diceva il simigliante,
     E l’una, due, diceva tutte quante.

LXIX.


Era la vecchia luna già cornuta
     Nel partir di Griseida, ed el l’avea,
     Da lei uscendo, in sul mattin veduta;
     Per che sovente con seco dicea:
     Allor che questa sarà divenuta
     Colle sue nuove corna, qual parea
     Quando sen gì la nostra donna, fia
     Tornata qui allor l’anima mia.

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LXX.


El riguardava li Greci attendati
     Davanti a Troia, e come già turbarsi
     Vedendoli solea, così mirati
     Con diletto eran; e ciò che soffiarsi
     Sentia nel viso, sì come mandati
     Sospiri di Griseida solea darsi
     A creder fosser, dicendo sovente:
     O qua o quivi è mia donna piacente.

LXXI.


In cotal guisa, e in altri modi assai,
     Il tempo sospirando trapassava;
     E con lui Pandaro era sempre mai,
     Che a ciò far sovente il confortava;
     Ed in ragionamenti lieti e gai
     A suo poter di trarlo s’ingegnava;
     Donando a lui ognor buona speranza
     Della sua vaga e valorosa amanza.