Il Dio dei viventi/XXXIX
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— Vedrai, — si confidò con Rosa quando furono sole, — io sarò prudente adesso, non farò scandalo: non gli dirò nulla anche perchè ho paura che faccia peggio; ma quando torniamo a casa non rivolgerò più il viso a guardarlo; gli darò da mangiare e da bere, lo curerò e farò il mio dovere verso di lui, ma fin da oggi è come morto per me; non è più mio figlio.
Il mare stesso e il cielo parvero offendersi per queste parole. Nuvole arcigne e corrucciate salirono dal mare, l’aria si mosse, l’acqua la imitò. E le procellarie sinistre sgorgarono dalle nuvole come dai loro nidi.
— Bellia, Bellia, cuore mio, — gridò subito la madre.
Le rispose la voce minacciosa del mare, poi soffiò forte il vento e rombò il tuono e fu una gara di rumori infernali a chi poteva più spaventarla.
Ella tendeva l’orecchio se sentiva il suono della fisarmonica, il suono che adesso le sembrava l’unica voce buona della terra, quella che sola poteva ricondurre la gioia e la serenità nell’Universo sconvolto dall’ira di Dio.
— Non si potrebbe mandare una barca a cercarlo? — domandò all’ospite. — Sono pronta a pagare tutto quello che occorre: tutto.
E si toglieva gli anelli dalle dita per offrirli se non bastavano i denari. Invano le donne la rassicuravano:
— Non c’è pericolo: se i ragazzi stanno ancora nella grotta è come fossero in chiesa; o hanno fatto presto a rifugiarsi nella costa e verranno a piedi.
E lei guardava lungo la costa sferzata dalla pioggia e dal vento, ma la costa era deserta, e deserte in un attimo s’erano fatte le onde. Lunghi mostri bianchi balzavano dal mare verde e grigio, assalivano gli scogli con furore e arrivavano fino alla casetta, tanto che le donne chiusero la porta per salvarsi dagli spruzzi della loro bava.
La madre non si mosse dalla finestruola: non gridava e non si lamentava poichè sentiva che tutto sarebbe stato inutile, ma pareva che l’anima le andasse via dagli occhi fissi nel mare. Rosa la guardava e vedeva che quegli occhi non si chiudevano neppure al fuoco abbagliante dei lampi, e che il viso della padrona dimagriva di momento in momento come per la sofferenza di anni.
Un silenzio di morte oscurava la casetta: le donne e i ragazzi tacevano per rispettare l’ansia della madre, ma anche per il terrore della tempesta che così improvvisa e lunga e furiosa non s’era mai conosciuta. I fulmini cadevano come razzi sugli scogli e qualcuno di questi si spaccava: delfini scuri simili a porci nuotavano fra il bianco della spuma e pareva volessero rifugiarsi in terra per non essere travolti dalla tempesta.
E anche di essi e di tutti i mostri marini la madre aveva terrore: Dio, Dio, a chi domandare aiuto? e non si accorgeva che lo domandava a Dio.
D’un tratto le parve di essere trasportata in un luogo lontano, nella chiesa dove era stato battezzato Bellia: come sullo sfondo di una musica d’organo un canto religioso di donne e di fanciulli s’alzava fra il rumore della tempesta, e ne raddolciva il furore. Erano gli ospiti riuniti nella stanza attigua che recitavano il rosario: Rosa aprì l’uscio, s’inginocchiò contro lo stipite e prese parte alla preghiera. Ma subito balzò su con spavento poichè la padrona era caduta per terra svenuta.