Ifigenia in Tauride (Euripide - Romagnoli)/Esodo

Esodo

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Euripide - Ifigenia in Tauride (414 a.C. / 411 a.C. / 409 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1929)
Esodo
Terzo stasimo Note


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Giunge correndo un araldo.

araldo

Guardie del tempio, ministri dell’are,
ov’è Toante, il re di questa terra?
Girin sui saldi cardini le porte,
chiamate, ché il sovrano esca dal tempio.

coro

Senza invito parlar posso? Che avvenne?

araldo

Fuggiti sono i due giovani, lungi
da questo suol. La figlia d’Agamènnone
tese l’inganno; e tolta hanno la statua
sacra nel grembo della nave ellèna.

coro

Cose narri incredibili; ma lungi
dal tempio è andato il re di questa terra.

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araldo

Dove? Convien che quanto avvenne ei sappia.

coro

Non so. Tu muovi, inseguilo, sinché
l’abbia raggiunto, e tutto quanto narragli.

araldo

O quanto infida è la femminea stirpe!
Anche voi parte nell’insidia avete.

coro

Sei folle? E che c’importa ch’essi fuggano?
Del sovrano alle soglie in fretta avviati.

araldo

Non pria che questo indagator m’avverta
se nel tempio è il Signore, o se non c’è.
Ehi, parlo a voi li dentro, aprite o no?
Dite al Signore ch’io sono alla soglia,
e di tristi novelle annunzio un carico.
Toante esce dal tempio.

toante

Chi grida innanzi al santuario, e picchia
le porte, ed empie di frastuono il tempio?

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araldo

Ahi! Perché dissero
queste che tu non c’eri, e mi volevano
mandar lungi, e tu invece eri nel tempio?

toante

Quale attendean profitto, o lo speravano?

araldo

Dopo te lo dirò: ma prima ascolta
ciò che piú importa. Ifigenía, la vergine
che a questi altari presiedea, fuggita
è con gli stranieri, e seco ha tolto
il simulacro della Diva: il rito
d’espiazione fu tutto una frode.

toante

Che dici? E per qual causa ebbe tale estro?

araldo

Dovrai stupirne: per salvare Oreste.

toante

Quale? Forse il figliuol della Tindàride?

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araldo

Quel che la Diva a queste are condusse.

toante

Oh prodigio, dirò, piú che prodigio!

araldo

A questo or non pensare, e invece ascoltami.
Odimi bene, e chiaro avvisa il modo
d’inseguir gli stranieri, e di riprenderli.

toante

Parla, ché bene tu dicevi. Tanto
la via di fuga sopra il mar, per essi
breve non è, che all’armi nostre sfuggano.

araldo

Poi che al lido marin giungemmo, dove
il battello d’Oreste era ormeggiato,
né si vedea, la figlia d’Agamènnone
ingiunse a noi, che portavamo i ceppi,
per tuo comando, dei foresti, che
restassimo in disparte, insin che il fuoco
ella accendesse, e celebrasse i riti
ch’ella dovea, misterïosi. E prese

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degli stranieri le catene in pugno,
innanzi a sé li spinse essa medesima
Nacque per ciò sospetto in cuore, o re,
dei tuoi ministri, eppure t’obbedirono.
Passò qualche momento. E, perché noi
la credessimo intenta al grave ufficio,
levò grida, intonò barbari canti
magici, come se in procinto fosse
di purgare il contagio. Infín, divenne
lunga l’attesa, e in noi sorse il sospetto
che gli stranieri, scioltisi, l’avessero
uccisa, e presa avessero la fuga.
Ma, per timore di scoprir gli arcani,
muti e fermi stavamo. Infin, dicemmo
tutti d’andar dov’essi erano andati,
ad onta del divieto. E qui, lo scafo
irto di remi d’una nave ellena
vedemmo, pronto all’impeto del volo,
e i due giovani, liberi dai vincoli,
stare presso alla poppa. E con le pertiche
tenean la prora alcuni fissi; e l’àncora
appendeano alle orecchie altri; e le gómene
issavan questi, e scale in mar gittavano
per gli stranieri. Noi, come vedemmo
queste manovre frodolente, senza
riguardi piú, la giovine afferrammo
e le gómene, e trarre tentavamo
fuori il timone dalla losca; e corsero
queste parole: «A che fine fuggite,
rubando a questa terra i simulacri
e la sacerdotessa? E chi sei tu
che la rapisti al nostro suolo?» — E quegli:
«Io sono Oreste, suo fratello, sappilo,

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d’Agamènnone figlio, e via mi porto
la mia sorella, che in patria perdei».
Non rallentò per ciò la stretta nostra
su la straniera; e a te dinanzi astringerla
volevamo a seguirci. Indi una furia
di colpi orrenda su le nostre guance,
ché né quelli né noi spade avevamo.
E un crosciare di pugni era, e di botte
tempestati eravamo ai fianchi e al fegato
dai due giovani a un tempo; e ai primi colpi
l’ossa avevamo già rotte. E segnati
di terribili impronte, alle scogliere
fuggimmo, chi ferito al capo, chi
sanguinando dal viso: e su le alture
fermato il piede, con maggior prudenza
lanciando sassi, tornammo alla zuffa.
Ma dritti a poppa, con le frecce a segno
ci tenevan gli arcieri; e fu mestieri
farci ancora piú indietro. E in questa, un orrido
flutto la nave spinse a terra; e invase
terror la donna; e in mare il pie’ sospingere
piú non osava. E Oreste la levò
sull’omero sinistro, e in mar balzò,
si lanciò su la scala, e la sorella
depose a bordo della nave, e il dono
dal ciel caduto, della Dea l’immagine.
E di mezzo alla nave un grido surse:
«Date di piglio, o marinari d’Ellade,
ai remi, e biancheggiar fate i marosi
ché quello abbiam per cui, delle Simplègadi
navigando, venimmo al porto inospite».
Levando quelli un grido alto di giubilo,
percossero le salse onde. E la nave

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finché rimase nel porto, filò.
Ma quando stava per varcar l’ingresso,
la spinse indietro impetuoso un flutto:
ché d’improvviso una brezza gagliarda
spinse la nave con la poppa indietro.
Gagliardamente percoteano i flutti
quelli; ma verso terra i cavalloni
spingevano la nave. Ed in pie’ surta,
la figlia d’Agamènnone, pregò:
«O figlia di Latòna, or salva in Eliade
da questa terra barbara conduci
la tua ministra, e il furto mio perdona.
Il tuo fratello, o Diva, ami anche tu:
che i miei parenti anche io diliga è giusto». —
Della fanciulla alla preghiera, fecero
eco i nocchieri col peana; e a un ordine,
via gittati i mantelli, s’affannavano
alla vogata; ma la nave a terra
piú e piú s’appressava. Ed un dei nostri
già balzato nell’onde era, ed un altro
nodi scorsoi lanciava. Io corsi súbito
a te, per dirti i nuovi eventi, o Sire.
Lacci e catene, su via, prendi, e corri:
ché se su l’onde non si placa il vento,
modo non c’è che gli stranieri fuggano.
Il Signore del ponto, il Dio Posídone,
Ilio protesse, ed aborre i Pelòpidi,
e a te ben presto il figlio d’Agamènnone
e ai cittadini in man darà, darà
la sua sorella, che lo scempio d’Aulide
dimenticò, tradí la nostra Dea.

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coro

Misera Ifigenia, col tuo fratello
in man del Sire tornerai, morrai.

toante

O tutti voi, di questa terra barbara
abitatori, ai corsier le redini
non adattate, non correte al lido,
per afferrar la nave ellèna, come
rompa alla spiaggia, e catturar quegli empî?
V’aiuterà la Diva. E voi, le rapide
navi spingete in mar: sicché, sul pelago
inseguiti e per terra, in man ci cadano.
Da un’irta roccia giú scagliati siano
o confitti nei pali i corpi loro.
Appare Atena.

atena

Or dove questo inseguimento, dove
dirigi, o re Toante? Atena ascolta
che ti favella. Delle schiere il flutto
non eccitare piú, non inseguirli.
Ché dai responsi dell’Ambiguo spinto,
per evitar la furia dell’Erinni,
qui venne Oreste, per condurre ad Argo
la sua sorella, e il simulacro santo
portar nella mia terra, e refrigerio
aver cosí dai mali che l’opprimono.
Questo volevo dirti. E quanto a Oreste,
che tu sul mar prender credevi e ucciderlo,

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sappi che già, per grazia mia, Posídone
sopra il dorso del mare i flutti spiana,
ché vi navighi il legno. Oreste, e tu
ascolta — ché ti giunge, anche da lungi
la voce della Dea — ciò ch’io t’impongo.
Tieni sorella e simulacro, e parti,
e récati ad Atena, opra dei Numi.
Quivi, d’Attica agli ultimi confini,
presso il giogo caristio, è un luogo sacro:
col nome d’Ala il popol mio l’appella.
Qui fonda un tempio, ponivi l’immagine,
e il nome suo, la Tauride ricordi,
e le tue pene, che soffristi, errando,
dall’Erinni incalzato, in tutta l’Ellade.
E d’indi innanzi, Artèmide Tauròpola
la chiameranno gli uomini. E tal rito
istituisci. Allor che a festa il popolo
si aduni, un ferro, a riscattar la strage
tua, come vuole pïetà, s’appressi
alla gola d’un uomo, e ne zampilli
sangue, si che la Diva onore n’abbia.
E tu ministra, Ifigenía, sarai
presso le sante braüronie scale
di questa Diva; e lí sarai sepolta
dopo la morte; e fregio alla tua tomba,
avrai di pepli, dei tessuti belli
che lasceranno quante donne rendano
l’alma nei parti. E queste donne d’Ellade
libere dalla tua barbara terra
rimanda, come vuol giustizia. E te,
Oreste, io già salvai, quando sul colle
di Marte i voti pareggiai per te,
e l’uso resterà che assolto vada

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chi pari voti ottiene. Or, d’Agamènnone
figlio, lungi di qui la tua sorella
conduci. E tu non ti crucciar, Toante.

toante

O Diva Atena, chi dei Numi i mòniti
ode, e non segue, è stolto. E non m’adiro
io con Oreste, se la santa immagine
fuggí recando, e non con sua sorella.
A che giova lottar contro i Celesti,
ch’hanno il potere? Alla tua terra réchino
l’effigie della Dea. quivi la insedino
con fausti auspici. Ed anche queste femmine,
come tu imponi, io manderò ne l’Ellade
avventurata, e frenerò le schiere
mosse contro i fuggiaschi, ed il remeggio
delle navi, se tu. Dea, lo desideri.

atena

Ed io t’approvo: ché il Destino te
domina, e i Numi. E adesso, verso Atene
spingete, o venti, il figlio d’Agamènnone.
Ed io, per tutelar la sacra immagine
di mia sorella, a lei sarò compagna.

coro

Con la buona fortuna, e felici
quando salvi pur foste, movete.

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E tu, Pallade Atena, che sei
venerata fra i Numi e fra gli uomini,
quel che tu ci comandi faremo.
Poi che contro ogni speme, novella
sí gradita alle orecchie ci giunse.
Veneranda Vittoria, proteggi
tu ognor la mia vita
non cessare di cingerle serti.