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IFIGENIA IN TAURIDE 307

degli stranieri le catene in pugno,
innanzi a sé li spinse essa medesima
Nacque per ciò sospetto in cuore, o re,
dei tuoi ministri, eppure t’obbedirono.
Passò qualche momento. E, perché noi
la credessimo intenta al grave ufficio,
levò grida, intonò barbari canti
magici, come se in procinto fosse
di purgare il contagio. Infín, divenne
lunga l’attesa, e in noi sorse il sospetto
che gli stranieri, scioltisi, l’avessero
uccisa, e presa avessero la fuga.
Ma, per timore di scoprir gli arcani,
muti e fermi stavamo. Infin, dicemmo
tutti d’andar dov’essi erano andati,
ad onta del divieto. E qui, lo scafo
irto di remi d’una nave ellena
vedemmo, pronto all’impeto del volo,
e i due giovani, liberi dai vincoli,
stare presso alla poppa. E con le pertiche
tenean la prora alcuni fissi; e l’àncora
appendeano alle orecchie altri; e le gómene
issavan questi, e scale in mar gittavano
per gli stranieri. Noi, come vedemmo
queste manovre frodolente, senza
riguardi piú, la giovine afferrammo
e le gómene, e trarre tentavamo
fuori il timone dalla losca; e corsero
queste parole: «A che fine fuggite,
rubando a questa terra i simulacri
e la sacerdotessa? E chi sei tu
che la rapisti al nostro suolo?» — E quegli:
«Io sono Oreste, suo fratello, sappilo,