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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Luca Antonio Pagnini
I
Idilli II
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TIRSI, OVVERO LA CANTATA

Idillio I

Tirsi, pecorajo, e Caprajo.

tirsi
Caprar, quel pino colà presso i fonti
     Dolce síbilo tempra, e la sampogna
     Tu dolce suoni. Appresso Pan tu avrai
     Il maggior premio. Sę un cornuto capro
     Egli otterrà in mercede, e tu una capra;
     S’ei torrassi la capra, una capretta
     Novella a te verrà. Squisita carne
     E quella di capretta ancor non munta.
caprajo
Ben è più dolce, o pecorar, tuo canto
     Di quell’acqua sonora, che già spilla
     Dall’alto masso. Se un’agnella in dono
     Avran le Muse, e tu un agnel di latte;
     Se a quelle piacerà torsi l’agnello,
     Tu poi l’agnella in ricompensa avrai.
tirsi
Vuoi tu, Capraro, per le Ninfe il chieggio,
     Vuoi qui, sedendo sul pendio del colle,
     Fistoleggiare in mezzo a’ tamarisci?
     Ed io frattanto pascerò le capre.
caprajo
No, pecoraro, in sul meriggio a noi
     Fistoleggiar non lice. Abbiam paura
     Di Pan, che su quest’ora si riposa
     Stanco da caccia. Egli è rubesto, e sempre

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Gli siede un’aspra bile entro le nari.
Ma tu, che sai di Dafni i tristi casi,
E in buccolico metro ogn’altro avanzi,
Ah! vien, Tirsi, a seder sotto quell’olmo!
A Priapo, e alle Najadi rimpetto,
Là v’è quel seggio agreste, e quelle querce,
Se canterai qual già cantasti a prova
Col Libio Cromi, io ti darò tre volte
A mugnere una capra, che ha due figli.
Ha due figli, e di latte empie due secchj.
Tu pure un fondo nappo invernicato
Di grata cera avrai, di doppia orecchia,
E nuovo sì, che olezza ancor d’intaglio.
D’intorno a i labbri in su l’ellera serpe,
Ellera tinta d’elicriso, e un tralcio
Gajo di crocee frutta a lei s’attorce.
Sculta è dentro una donna, opra divina,
Ornata in manto, e in rete; e a lei vicino
Due giovani a vicenda in vaghe chiome
Quinci e quindi si fan co’ detti guerra,
Che nulla il cor le tocca. Ella or ridendo
All’un di for s’affisa in faccia, or getta
Su l’altro ogni pensiero. Essi con gli occhi
Gonfi d’amore in van fanno gran prove.
Lì presso inciso è un vecchio pescatore,
E un’aspra rupe, ov’ei s’avaccia a trarre
Gran rete giù nell’acqua, ed uom somiglia
Intento a gran lavor. Tu lo diresti
Pescar con quanta forza ha nelle membra.
Tal ei canuto in tutto il collo ingrossa
Le vene, e vigor degno ha d’età fresca.
Non lungi da quel vecchio maremmano
Ben carca d’uve rosse è una vignetṭa,
A cui presso le siepi in guardia siede
Un garzoncello, che due volpi ha intorno.
L’una giù pe’ filari a guastar corre

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     L’uve mature, e l’altra insidie tende
     Del fanciulletto alla bisaccia, e dice
     Di non voler partir, se pria nol lascia
     Di colazion voglioso a bocca asciutta,
     Questi una bella trappola da grilli
     Di spighe ordisce, e intrecciala co’ giunchi,
     Nè tanta ha cara di bisaccia o vigna,
     Quanto ha diletto del lavor che intesse.
     Per tutto il nappo ancor vola all’intorno
     Il molle acanto, eolico prodigio,
     Che il cor t’incanterà di maraviglia.
     Per esso a un barcajuol di Calidone
     Diedi in prezzo una capra, e una gran torta
     Di bianco latte. Nè al mio labbro ancora
     Il nappo s’accostò: lo serbo intatto,
     E di buon grado te ne fo presente,
     Se quell’inno soave a me ripeti.
     Nè già s’invidio, o caro. Ah! non vorrai
     Serbar tuo canto all’oblioso Pluto.
tirsi
Sciogliete, o care Mase, un canto agreste.
     Questi è Tirsi dell’Etna, e questa è voce
     Di Tirsi. Ove mai foste, o Ninfe, allora
     Che Dafni si struggea? Fra’ bei boschetti
     O di Peneo, o di Pindo? Ah! non d’Anapo
     La gran corrente allor dievvi ricetto,
     Nè il giogo Etneo, nè le sacr’onde d’Aci.
Sciogliete, o care Muse, un canto agreste.
     Su lui cervieri, e lupi urlaro, e pianto
     Fino un lion del bosoo avria sua morte.
Sciogliete, o care Muse, un canto agreste.
     Molte vacche a’ suoi piè, molte vitelle,
     E molti mugolar giovenchi e tori.
Sciogliete, o care Mase, un canto agreste.
     Primier dal monte calò giù Mercurio:
     E chi mai fa di te sì crudo strazio,

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     Disse, o buon Dafni, e per chi mai tant’ardi?
Sciogliete, o care Muse, un canto agreste.
     Venner bifolchi, pecorai, caprai.
     Tutti cercaro de’ suoi mal novella.
     Priapo venne, e disse: A che ti struggi
     Dafni meschino? e la Donzella in traccia
     Di te pur corre ad ogni bosco e fonte.
Sciogliete, o care Muse, un canto agreste.
     Ah troppo in amar folle, e senza freno!
     Bifolco eri chiamato, or ben somigli
     Un capraro. Il caprar quand’egli guata
     Il suo belante gregge in danza, gli occhi
     Struggendo va, perch’ei non nacque un irco.
Sciogliete, o care Muse, un canto agreste.
     E tu in mirar le forosette in festa,
     Per gli occhi ti distruggi a non potere
     Entrar con esse in danza. A lor risposta
     Non fe’ il bifolco; ma l’amore atroce,
     E la vita all’estremo accelerava.
Sciogliete, o care Muse, un canto agreste.
     Venne Ciprigna ancor dolce ridendo,
     Ridendo di soppiatto, e grave doglia
     Fuor simulando, a lui sì disse: O Dafni,
     Ta di vincere Amor ti desti il vanto,
     Or dal gravoso Amor non se’ tu vinto?
Sciogliete, o care Muse, un canto agreste.
     Dafni allor disse: Ah! Venere crudele,
     All’uom nimica e infesta, or sì vuoi dirmi,
     Che per me il Sole è tramontato, e Dafni
     Fino a Stige sarà d’Amor lo scempio.
Sciogliete, o care Muse, un canto agreste.
     Va in Ida, dov’è fama, che il bifolco
     A Vener... Va ad Anchise. Ivi son querce;
     Qui cipero sol avvi, e qui le pecchie
     Dolce ronzando van per gli alveari.
Sciogliete, o care Muse, un canto agreste.

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     È vago Adone ancora. Ei pasce agnelli,
     Ei fiede lepri, e l’altre belve incalza.
Sciogliete, o care Muse, un canto agreste.
     Or sì rivolgi a Diomede il passo,
     E, colà giunta, di’: da me fu vinto
     Dafni pastore, e tu a giostrar vien meco.
Sciogliete, o care Muse, un canto agreste.
     Addio, lupi e cervieri, e voi pe’ monti
     Orsi di tane abitatori. Io, Dafni
     Bifolco, non vivrò più vosco in selve,
     O in balze, o in poggi. Addio Aretusa e fiømi,
     Che fra i chiari scorrete umor del Timbri.
Sciogliete, o care Muse, un canto agreste.
     Io son quel Dafni, che pascea qui vacche,
     E qui tori e vitelle abbeverava.
Sciogliete, o care Muse, un canto agreste.
     O Pane, o Pan, se del Liceo le vette
     Alberghi, o pel gran Menalo t’aggiri,
     Alle Sicule sponde, ah! vieni, e lascia
     Capo d’Elice, e a’ Numi venerando
     L’alto di Licaonide sepolcro.
Cessate, o care Muse, il canto agreste.
     Vieni, e questa ne prendi, o Re, leggiadra
     Ben innestata con la cera, e intorno
     Al labbro inflessa armonioa zampogna;
     Chè Amore ad or ad or mi spinge a Pluto.
Cessate, o care Muse, il canto agreste.
     Gettate ora viole, o rovi, o spine;
     Su i ginepri fiorisca il bel narciso;
     Tutto si cangi al trapassar di Dafni.
     Il pino metta pere, il cervo i cani
     Si tragga prigionieri, e su pei monti
     Cantino i gufi e gli usignuoli a gara.
Cessate, o care Muse, il canto agreste.
     Ciò detto, egli si tacque, e volea pure
     Ciprigna sollevarlo; ma già tutti

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     Alle Parche mancati eran gli stami.
     Sì Dafni scese al fatal fiume, e l’onda
     Volubile quest’uom grato alle Muse;
     Nè discaro alle Ninfe, si rapìo.
Cessate, o care Muse, il canto agreste.
     Or tu ne reca a me la capra, e il nappo
     Ch’io quella munga, ed alle Muse libi.
     Io vi saluto mille volte, e mille,
     Muse, e a voi serbo ancor più dolci canti.
caprajo
Piena ti sia di mel, piena di favi
     La gentil booca, o Tirsi, e sien tuo cibo
     D’Egilo i fichi, poichè meglio canti
     D’una cicala. Eccoti il nappo, e senti
     Se grato olezza. A te parrà lavato
     Dell’ore al fonte. Accostati, Cisseta;
     E tu la mugni. Olà, non vi sbrancate,
     Caprette mie, che non v’assalti il capro.