Icaromenippo
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XLV.
ICAROMENIPPO,
o
IL PASSANUVOLI.
Menippo ed un Amico.
Menippo. Dunque eran tremila stadii dalla terra sino alla luna, dove ho fatta la prima posata: di là fino al sole un cinquecento parasanghe;1 e dal sole per salir sino al cielo ed alla rocca di Giove ci può essere una buona giornata di aquila.
Amico. Deh, che vai strolagando fra te, o Menippo, e misurando gli astri? Da un pezzo ti seguo, e t’odo borbottare di sole e di luna, e con certe parolacce forestiere di posate e di parasanghe.
Menippo. Non ti maravigliare, o amico, se io parlo di cose celesti ed aeree: facevo tra me il conto d’un fresco viaggio.
Amico. E, come i Fenicii, tu dal corso degli astri misuravi il cammino?
Menippo. No, per Giove: io ho fatto un viaggio proprio negli astri.
Amico. Per Ercole, hai fatto un sogno ben lungo, se hai dormito per tante parasanghe senza avvedertene.
Menippo. Credi ch’io ti conti un sogno, se io torno or ora da Giove?
Amico. Come dici? Menippo ci viene da Giove, c’è piovuto dal cielo?
Menippo. Io sì, vengo da Giove appunto adesso, ed ho udite e vedute cose inestimabili. Se nol credi, ci ho più gusto: così ho avuta una incredibile ventura.
Amico. E come, o divino e celeste Menippo, io mortale e terrestre potrei non credere ad un uomo che ha passato i nuvoli ed è, per dirla con Omero, uno degli abitatori del cielo? Ma dimmi come se’ montato lassù, e dove hai trovata una scala così lunga? Tu non mi hai il visino di quel bel frigio, sì che io possa credere che anche tu se’ stato rapito dall’aquila e fatto coppiere.
Menippo. Vedo che mi canzoni. Ma io non mi maraviglio che, dicendoti una sì nuova cosa, la ti paia una favola. Eppure per salire lassù non ho avuto bisogno nè di scale, nè di visino baciato dall’aquila; chè io ci son volato con le penne mie.
Amico. Oh! cotesta è più gran cosa di quella che fece Dedalo, ed io non sapevo che d’uomo se’ divenuto nibbio o cornacchia.
Menippo. Bene, tu quasi t’apponi, o amico. Quell’ingegno delle ali di Dedalo l’ho adoperato anch’io.
Amico. E non hai temuto, o gran temerario, di cadere in mare anche tu, e farci dire il mar Menippeo, come diciamo l’Icario?
Menippo. Niente. Perchè Icaro s’appiccò le ali con la cera, che al sole tosto si liquefece, ed ei rimasto spennacchiato dovette cadere: ma le mie brave ali non avevano cera.
Amico. Come va cotesto? Oh, tu a poco a poco mi farai creder vero ciò che mi dici.
Menippo. Ecco come. Presi una grande aquila, ed un forte avoltoio, e tagliate loro le ali.... Ma è meglio raccontarti da capo tutta questa invenzione, se vuoi udirmi.
Amico. Ben voglio. Già mi levo alto anch’io dietro al tuo discorso, e t’odo a bocca aperta. Pel Dio dell’Amicizia, comincia il racconto, non tenermi più sospeso con gli orecchi.
Menippo. Odi adunque: chè non saria un bello spettacolo lasciare un amico con la bocca aperta e sospeso dagli orecchi, come tu dici. Tosto che io feci un po’ di riflessione sulla vita umana, trovai che le ricchezze, le signorie, le grandezze sono instabili, ridevoli, meschine assai: onde sprezzandole, e tenendole come un impaccio a conseguire altre cose veramente serie, io tentai di levar gli occhi in su, e di rimirar l’universo. Ma in prima io tutto mi confusi a contemplar questo che da’ savii chiamasi mondo: non sapevo capacitarmi come è nato, chi l’ha fatto, se ha avuto principio, se avrà fine. E poi considerandone le parti, più cresceva la mia confusione: miravo le stelle disseminate pel cielo, miravo il sole, e mi struggevo di sapere che cosa ei fosse: e massime quel che fa la luna mi pareva una strana e mirabile cosa, e non vedevo perchè ella muta sempre facce; e la folgore così rapida, il tuono così fragoroso, la pioggia, la neve, la gragnuola così veemente, tutte queste cose non potevo spiegarmele, nè trovarne la cagione. Vedendomi adunque così smarrito, i’ pensai che avrei potuto apprender tutto dai filosofi; perchè credevo che essi dovessero sapere e dirmi la verità. E però avendo scelti i migliori tra essi, a quei segni ch’io vedevo, all’austerezza dell’aspetto, alla pallidezza del volto, e alla profondezza della barba (parendomi uomini che parlavano sublime linguaggio, e conoscevano il cielo); io mi misi nelle mani loro; e mediante una buona somma di danari, che parte anticipai, parte promisi dare quando m’avesser fatto filosofo, credetti dover imparare e ragionare di tutte le cose celesti, e dell’ordine dell’universo. Fattostà invece di sciogliermi da quella mia ignoranza, mi ravvilupparono in maggiori incertezze, empiendomi il capo ogni giorno di principii, di fini, di atomi, di vuoto, di materia, d’idee, e di altre frasche. E per mio maggior tormento, l’uno diceva l’opposto dell’altro, erano un sacco di gatti, e ciascuno voleva persuadermi e tirarmi dalla sua.
Amico. È strano questo che mi dici: uomini sapienti contendevano tra loro di cose esistenti, e su la cosa stessa non avevano la stessa opinione.
Menippo. Tu rideresti davvero, o amico mio, se udissi le loro iattanze, e le imposture che spacciano. Essi che han camminato sempre su la terra, che non han niente più di noi che su la terra camminiamo, non hanno la vista più acuta degli altri, anzi essendo vecchi o loschi ci vedono pochissimo, eppure essi affermano di aver vedute le colonne che sostengono il cielo, aver misurato il sole, aver camminato per gli spazi, che sono sopra la luna, e come se fosser caduti dagli astri ne descrivono la grandezza e la figura. Spesso accade che ei non sanno bene quanti stadii ci ha da Megara ad Atene, ed osan dire quanti cubiti è distante la luna dal sole, e quanto l’una e l’altro son grandi, che altezza ha l’aria, che profondità il mare, misurano e dividono la circonferenza della terra; e poi descrivendo cerchi, disegnando triangoli, quadrati e sfere, danno a credere che misurano il cielo. Quel che prova la loro superba ignoranza è che ragionano di queste cose oscure non per congettura, ma con asseveranza, e s’incaponiscono, e non soffrono che altri ne dubiti, e quasi giurano che il sole è una palla di ferro rovente, che la luna è abitata, che le stelle bevono i vapori che il sole quasi con una fune attigne dal mare e li dispensa a bere a ciascuna. Quanto poi sono contrarii nelle loro opinioni puoi vederlo facilmente: e vedi, per Giove, se una dottrina s’avvicina ad un’altra, o se non cozza con essa. Primamente intorno a questo mondo ciascun d’essi ha l’opinion sua: chi vuole che sia increato ed indestruttibile; chi dice che ha avuto un Creatore, e pretende di sapere anche come è stato creato: altri, che mi facevano più maravigliare, parlano di un certo iddio artefice di tutte le cose, ma non dicono donde era venuto e dove egli stava quando fabbricava il mondo: perchè prima che fosse la terra e l’universo è impossibile concepire tempo e luogo.
Amico. Che uomini temerarii ed impudenti son costoro, o Menippo.
Menippo. E che diresti, o amico mio, se tu udissi le loro pappolate sù le idee, e le cose incorporee, le loro saccenterie sul finito e sull’infinito? chè sempre fresco è il battagliare di questo tra coloro che diffiniscono un termine all’universo, e coloro che suppongono che ei non finirà mai. Alcuni ancora vogliono dimostrare che i mondi sono moltissimi, e sfatano chi sostiene che ve n’è uno. Un altro poi (ei non era uomo di pace) credeva che la guerra sia madre di tutte le cose. Intorno agli Dei chi ti può dire quante ne contano? Per alcuni la divinità era un numero; altri giuravano pe’ cani, per le oche, pe’ platani. Questi davan lo sfratto a tutti gl’iddii, e ponevano uno solo in signoria del tutto: onde a me s’impoveriva l’animo udendo che c’era sì gran carestia di dei: ma altri per contrario liberalissimi ne ammettevano molti, li dividevano in classi, chiamavano uno primo iddio, e davano agli altri il secondo o terzo grado di divinità. E di più alcuni credevano che gl’iddii non han nè corpo nè figura; ed altri li concepivano con certi corpi. Che gli dei badano agli affari di quaggiù, non tutti l’affermavano: ma vi era chi levava loro questo incomodo, come noi sgraviamo i vecchi dai pubblici negozi, e non li faceva entrar per niente in commedia, come fosser comparse sul teatro. Altri finalmente mandando a monte ogni cosa, e dei, e non dei, credevano che il mondo senza signore e senza guida vada così a caso. Udendo tutte queste cose, io non m’attentava di negar fede ad uomini che avevano una voce e una barba mirabile; ma ripensando ai loro discorsi io non sapevo come non trovarvi errori molti e contraddizioni. Onde m’interveniva proprio come dice Omero: spesso mi sforzai di credere a qualcuno di loro, ma un altro pensier mi tratteneva. Tra tutti questi dubbi, disperando di poter sapere la verità sù la terra, mi persuasi che una sola via vi sarebbe per uscire di quell’affanno, se io stesso volando andassi in cielo. E mi dava qualche speranza il gran desiderio che n’avevo, ed Esopo che nelle sue favole ci conta come aquile e scarafaggi e camelli ancora seppero trovare per dove si va in cielo. Ma perchè vedevo che l’ali non mi nascerebbero mai, pensai di appiccarmi le ali d’un avoltoio o di un’aquila, le sole proporzionate al corpo d’un uomo, e così tentare una pruova. Presi adunque questi uccelli, e tagliai accuratamente l’ala destra dell’aquila e la sinistra dell’avoltoio, le congiunsi, me le attaccai agli omeri con forti corregge, adattai alle punte un ingegno per tenerle con le mani, e feci la prima pruova, saltellando ed aiutandomi con le mani, e come le oche che appena si levan di terra, io andavo sù le punte de’ piedi e dibattevo l’ali. Accortomi che riuscivo, divenni più ardito, e montato sù la cittadella mi diedi in giù, e venni fin sopra il teatro. Fatto questo volo senza pericolo, ne tentai altri più lontani e più alti: e spiccatomi dal Parneto o dall’Imetto andavo librato fino al Geranio; e di là sopra l’Acrocorinto; e poi sul Foloe, sull’Erimanto sino al Taigete.2 L’esercizio mi crebbe l’ardire, e l’arte, e la forza di montare più su, e far altri voli che questi da pulcini: onde montato sù l’Olimpo, leggiero quanto più potevo, con un po’ di provvisione, mi levai diritto al cielo. In prima l’altezza grande m’aggirava il capo, ma dipoi mi vi adusai facilmente. Avvicinandomi alla luna, e lasciate molto indietro le nuvole, mi sentivo stanco, massime nell’ala sinistra, quella dell’avoltoio: però arrivato in essa, e sedutomi, mi riposavo, guardando giù sù la terra come il Giove di Omero, e gettando lo sguardo or su la Tracia altrice di cavalli, or su la Mesia; e poi a mio talento su la Grecia, su la Persia, su l’India: e quella gran vista mi empiva di diletto maraviglioso.
Amico. Narrami ogni cosa, o Menippo, ogni cosa del tuo viaggio e quante maraviglie vi hai vedute, chè io desidero saperle. Già m’aspetto di udirne non poche; e che vista ti faceva la terra, e quello che è sù di essa, a riguardarla di lassù.
Menippo. Ben dicesti non poche: epperò, o amico, monta sù la luna con la tua immaginativa, viaggia dietro le mie parole e riguarda con me tutte le cose come son disposte sù la terra. E primamente parvemi molto piccola veder la terra, assai più piccola della luna; per modo che a un tratto volgendomi in giù, non sapevo più dove fossero questi monti e questo sì gran mare; e se non avessi scorto il colosso di Rodi e la torre del Faro, la mi saria interamente sfuggita. Ma queste due moli altissime, e l’Oceano che tranquillo rifletteva i raggi del sole, mi fecero accorto che io vedevo la terra. E come vi ficcai gli occhi attenti mi si parò innanzi tutta la vita umana, non pure le nazioni e le città, ma gli uomini stessi, chi navigava, chi guerreggiava, chi coltivava i campi, chi piativa; e le donne, e le bestie, e tutto quello che l’almo seno della terra nutrisce.
Amico. Tu mi di’ cose incredibili e contradittorie. Poco fa, o Menippo, tu non sbirciavi la terra tanto rappicciolita per la lontananza, che se non era il colosso, tu non l’avresti veduta; ed ora come subito divieni un Linceo, e scorgi tutte le cose che essa contiene, e gli uomini, e gli animali, e, per poco non dicesti, anche le uova di moscherini!
Menippo. Oh, a proposito, me l’hai ricordato: dovevo dirti una cosa, e l’ho tralasciata non so come. Quando adunque io mi accorsi di vedere la terra, ma di non poter discernere altro per la gran lontananza, per la quale appena vi giungeva l’occhio, io mi sentii tutto contristato e smarrito. E stando in questo affanno, e quasi spuntandomi le lagrime, ecco da dietro le spalle mi viene innanzi il filosofo Empedocle, nero come un carbonaio, e incenerato, e mezzo abbrustolato. Come io vidi costui, ti dico il vero, mi sconturbai, e lo credetti un qualche genio lunare. Ma egli: Non temere, o Menippo, disse; io non sono un iddio; perchè mi pareggi agl’immortali? Io sono il fisico Empedocle. Poichè mi gettai nei crateri dell’Etna, da un vortice di fumo fui portato qui nella luna, dove ora abito, e vo passeggiando per l’aere e mi cibo di rugiada. Vengo a cavarti di questo impaccio e di questo sgomento che hai per non vedere quel che è sulla terra. O generoso Empedocle, diss’io, tu mi fai un gran benefizio: e tosto ch’io rivolerò giù in Grecia, non dimenticherò di mandarti pel fumaiuolo del mio focolare il fumo d’una libazione, e quando è luna piena aprir tre volte la bocca verso di lei e farti una preghiera. - No, per Endimione, rispose, non ci son venuto per aver ricompensa, ma mi dolse di te, vedendoti cotanto affannato. Sai che devi fare per rischiarare ed aguzzare la vista? - No, dissi, se tu non mi togli questa caligine dagli occhi, chè me li sento come chiusi da molte cispe. - Non hai affatto bisogno di me: tu hai portato da terra ciò che te la può rischiarare. - E che è? io nol so. - Non sai che t’hai legata l’ala destra di un’aquila? - Sì: ma che ha che far l’ala con l’occhio? - L’aquila fra tutti gli uccelli ha la vista più acuta, e solo essa può riguardare nel sole: e in questo si riconosce l’aquila regale e legittima, se non batte le palpebre ai raggi del sole. - Così dicono: ed io mi pento che nel venir qui non mi ho messo un paio d’occhi d’aquila, e non m’ho cavati i miei: io non ci ho portato niente di regale io, e son come un bastardo e diseredato. - Eppure a te sta l’aver tosto l’un occhio d’aquila reale. Se tu, sollevandoti un po’, tieni ferma l’ala dell’avoltoio, ed agiti solo l’altra, per ragione dell’ala l’occhio destro acquisterà vista acutissima: l’altro deve averla corta, perchè è della parte meno nobile. - Mi basta, risposi, che il destro solo mi diventi aquilino: non ci vedrei meglio con due: e mi ricorda che spesso i falegnami con l’un occhio meglio sguardano se un legno è ben diritto e spianato. Detto questo feci come m’aveva detto Empedocle: il quale indi a poco allontanandosi svanì in fumo. Non sì tosto io battei l’ala, che subito una luce grandissima mi sfolgorò d’intorno, e mi mostrò tutte le cose fino allora nascoste. Volsi giù lo sguardo alla terra, e vidi chiaramente le città, gli uomini, e tutto ciò che essi facevano non pure a cielo scoperto, ma nelle case dove credono che nessuno li vegga. Tolomeo giacersi con la sorella; Lisimaco insidiato dal figliuolo; Antioco figliuol di Seleuco che faceva d’occhio alla madrigna Stratonica; Alessandro il tessalo ucciso dalla moglie; Antigono svergognar la moglie del figliuolo; il figliuolo di Attalo che gli porge un veleno: da un’altra banda Arsace uccider la sua donna, e l’eunuco Arbace tirar la spada contro Arsace; e Spatino il Medo fuor del convito da’ suoi satelliti strascinato per un piede, e con un ciglio spaccato da una tazza d’oro. Simili cose io vedeva in Libia, fra gli Sciti, fra i Traci: nei regali palagi stuprare, scannare, insidiare, rapire, spergiurare, temere, e i più intimi tradire. Questo spettacolo mi davano i re: i privati poi mi facevano ridere. Io vedevo Ermodoro l’Epicureo spergiurare per mille dramme, Agatocle lo stoico litigar col discepolo pel salario, Clinia il retore rubare una coppa dal tempio di Esculapio, ed il cinico Erofilo dormire in un chiasso. Che potrei dirti degli altri? chi rubava, chi scassinava, chi litigava, chi prestava, chi ripeteva. Insomma era uno svariatissimo e larghissimo spettacolo.
Amico. Fammene un po’ di descrizione, o Menippo. Parmi che tu non ci avesti poco diletto.
Menippo. Raccontarti tutte le cose per filo è impossibile, o amico mio, quando m’era fatica anche il vederle. Le principali eran come quelle che Omero descrive rappresentate sù lo scudo d’Achille: qua nozze e conviti, là tribunali ed adunanze; in un luogo si faceva sagrifizi, in un altro si piangeva un morto. Gettavo lo sguardo nella Getica, e vedeva i Geti guerreggiare; più in là sù gli Sciti, e li vedeva erranti sù le loro carrette; volgevo l’occhio un po’ dall’altra banda e miravo gli Egiziani coltivare la terra, i Fenicii trafficare, i Cilicii pirateggiare, gli Spartani farsi flagellare, gli Ateniesi piatire. Da tutte queste cose che accadevano nello stesso tempo considera tu che guazzabuglio pareva. Egli era come se uno prendesse molti coristi, o meglio molti cori, e comandasse a ciascun cantore di non badare ad accordo, ma cantare ciascuno il suo verso: gareggiando questi tra loro, seguitando ciascuno il verso suo, e volendo soverchiar la voce dell’altro, intendi tu, per Giove, che nuovo canto saria cotesto?
Amico. Cosa da cani, o Menippo, e da riderne assai.
Menippo. Ebbene, o amico mio, tutti sù la terra sono come quei coristi, di questa confusione è composta la vita umana; gli uomini non pure parlano in diverso tuono, ma vestono in diverse fogge, si muovono in diverso modo, e pensano con diversi capi, finchè il maestro che batte il tempo li scaccia ad uno ad uno dalla scena, dicendo che non bisognano più: allora tutti diventano simili, zittiscono, e non cantano più quella confusa e discorde canzona. Insomma tutte le cose svariatissime che si rappresentano sù questo gran teatro mi parevano ridicolezze: e specialmente mi facevan ridere coloro che contendono per un pezzo di terra, che superbiscono di coltivare le pianure di Sicione, o di possedere quella di Maratona presso il monte Enoe, ovvero mille iugeri in Acarnania; perchè tutta la Grecia, di lassù, non mi pareva di quattro dita, e in paragone l’Attica non era più che un punto. Onde io pensavo quanta è la parte che ne hanno i ricchi che ne menano tanta superbia: chi di essi possiede più iugeri mi pareva che coltivasse uno degli atomi di Epicuro. Gettando gli occhi sul Peloponneso, e vedendo la Cinosuria, mi ricordai quanti Argivi e Lacedemoni caddero in un sol giorno per una particella di terreno non più larga di una lenticchia d’Egitto. E se vedevo qualche ricco tutto gonfio e pettoruto per avere otto anelli e quattro coppe d’oro, quanto me ne ridevo; perchè il Pargeo con tutte le mine, non era più d’un granello di miglio!
Amico. O fortunato Menippo, che vedesti sì maraviglioso spettacolo. Ma e le città e gli uomini quanto ti parevano di lassù?
Menippo. Certo hai veduto talvolta un mucchio di formiche; quali entrano, quali escono, quali vanno attorno il formicaio; una caccia fuori le lordure, un’altra, afferrato un guscio di fava o un mezzo granello, corre portandolo in bocca: e pare che anche tra esse ci sieno ed architetti, e capipopoli, e magistrati, e musici, e filosofi. Le città adunque con gli uomini mi parevano formicai. E se il paragone tra gli uomini e le formiche ti par troppo piccolo, cerca le antiche favole de’ Tessali, e troverai che i Mirmidoni, gente bellicosissima, di formiche diventarono uomini. Ma poichè fui sazio di vedere e di ridere, scossi l’ale, e dirizzai il volo
A la magione dell’Egioco Giove
E degli altri immortali.
Non m’era levato uno stadio, e la Luna, con una vocina di donna: O Menippo, disse, fa’ buon viaggio, e portami un’ambasciata a Giove. Di’ pure, risposi, un’ambasciata non pesa a portarla. L’ambasciata è facile, disse, è una preghiera che da parte mia presenterai a Giove. Io sono stucca, o Menippo, di udire i filosofi che ne dicon tante e poi tante di me, e non hanno altro pensiero che d’impacciarsi de’ fatti miei, chi son io, e quanto son grande, e perchè ora sono scema ed ora son piena: chi dice che sono abitata, e chi che son come uno specchio pendente sul mare, ed ogni sciocchezza che pensano l’appiccano a me. Han detto finanche che questa luce non è mia, ma è roba rubata, e me l’ho presa dal Sole; e non la finiscono, e per questo mi faran bisticciare e venire alle brutte con mio fratello; non essendo contenti di sparlare del Sole, che è una pietra, e una palla di ferro rovente. Eppure io so molti dei fatti loro, e quante vergogne e sporcizie fanno la notte questi che il giorno paion santoni all’aspetto ed alle vesti, e gittano la polvere agli occhi degl’ignoranti. Io vedo tutto, e taccio, perchè credo che non mi conviene a me illuminare le loro tresche notturne, e svelar quasi sù la scena i fatti di ciascun di loro: anzi se ne vedo qualcuno che commette adulterio, o furto, o altra ribalderia che vuole il più fitto buio, io subito prendo una nuvola e me ne ricopro, per non mostrare agli uomini questi vecchi che svergognano la barba e la virtù. Eppure non la voglion finire, e parlan sempre male di me, e mi dicono ogni maniera d’ingiurie. Onde io, giuro alla Notte, molte volte volevo proprio andarmene di qui, fuggire il più lontano da essi per non sentirmi più tagliare da quelle male lingue. Ricordati di dirgliele tutte queste cose a Giove, e aggiungivi ancora che qui non ci posso star più, se egli non fulmini tutti quei fisici, non imbavagli i dialettici, non rovesci il Portico, non bruci l’Accademia, e non faccia finir le dispute nel Peripato: chè solo così potrò stare un po’ cheta, e non essere ogni giorno misurata. - Farò ogni cosa, io risposi, e mi levai sublime verso il cielo
Dove orma non appar delle fatiche
Degli uomini e dei buoi.
Indi a poco la Luna mi parve piccolissima, e non vidi più la terra: e prendendo a destra del Sole, e volando in mezzo agli astri, il terzo dì m’avvicinai al cielo. In prima disegnai di entrar diritto dentro, credendo che nessuno mi baderebbe, perchè essendo io mezzo aquila, sapevo che l’aquila è tutta cosa di Giove. Ma poi ripensai che subito saria stato scoverto per l’altra ala dell’avoltoio. Onde per non mettermi a nessun pericolo, mi feci alla porta, e picchiai. Mercurio udì, dimandò chi era, e subito portò l’ambasciata a Giove: tosto fui messo dentro tutto spaurito e tremante, e te li trovo tutti uniti e seduti, e non senza cura, ma taciti e impensieriti per quel mio maraviglioso viaggio, quasi attendendo ad ora ad ora che tutti gli uomini ci venissero volando per simil modo. Ma Giove, voltami una guardatura in torto e stranamente terribile, disse:
Chi se’ tu, di che gente, che paese?
Chi furo i maggior tuoi?
All’udir queste parole per poco i’ non morii di paura, rimasi con la bocca aperta, e intronato da quel vocione. Ma dipoi tornatimi gli spiriti, raccontai alla semplice ogni cosa per filo, come io mi struggeva di conoscere le cose celesti, come andai dai filosofi, come ne udii dire cose oppostissime, come quelle contraddizioni mi fecero disperare: poi quel mio pensiero, e le ali, e tutto il resto, sino al cielo: infine aggiunsi ancora l’ambasciata della Luna. Allora Giove sorridendo un cotal poco e spianando le sopracciglia: Che maraviglia più di Oto e di Efialte, disse, quando Menippo ha ardito di salire in cielo? Ma pure ora ti vogliamo ospitare; e dimani, data risposta a quel che ci sei venuto a dimandare, ti rimanderemo. Così disse, e levatosi in piedi, s’incamminò verso un luogo che è come l’orecchio del cielo; perchè già era ora di udir le preghiere. Cammin facendo mi dimandò di molte cose della terra, e primamente quanto costa ora il grano in Grecia, se il verno passato è stato troppo rigido, e se i cavoli vogliono maggiori piogge: dipoi se ci vive ancora alcuno de’ discendenti di Fidia, per qual cagione gli Ateniesi non gli fanno più la festa da tant’anni; se hanno intenzione di finirgli il tempio Olimpio,3 e se sono stati presi i ladri che gli han rubato il tempio di Dodona. Poichè io risposi a ciascuna di queste dimande: dimmi, o Menippo, dissemi, che opinione di me hanno gli uomini? Che opinione, io risposi, o signore? Tutti ti rispettano e t’adorano come re di tutti gli Dei. Bah, tu mi canzoni, disse: io so bene quant’essi son vaghi di novità, ancorchè tu mi dica di no. Fu un tempo quando io ero per loro e profeta, e medico, e tutto; allora
Ogni piazza, ogni via, piena di Giove;
Dodona e Pisa erano illustri e celebrate, e il fumo de’ sagrifizii mi toglieva il vedere. Ma da che Apollo ha messo bottega di profezia in Delfo, ed Esculapio di medicina in Pergamo, ed altre botteghe Bendi in Tracia, Anubi in Egitto e Diana in Efeso, tutti corrono là, e vi fanno le gran feste, e vi portano le ecatombe: e a me, che sono già uscito di moda, credono di farmi onore bastante con un po’ di sacrifizio ogni cinque anni in Olimpia: onde a vedere i miei altari ei son più freddi delle leggi di Platone e dei sillogismi di Crisippo. - Così ragionando giungemmo al luogo dove egli doveva sedere, ed ascoltare le preghiere degli uomini. V’erano in fila alcune botole, simili a bocche di pozzi, con loro cataratte: e presso a ciascuna stava un seggio d’oro. Giove sedutosi sul primo seggio, e levata la cataratta, si pose ad ascoltar le preghiere. Si pregava da tutte le parti della terra in tante lingue e in tanti modi diversi: origliai anch’io, e intesi alcune preghiere cosiffatte: O Giove, fammi diventar re! O Giove, mi vengano bene le cipolle ed i porri! o Dei, muoia presto mio padre! Altri diceva: O fossi erede di mia moglie! O non si scoprisse il laccio che tendo a mio fratello! Vincessi questo piato! Fossi coronato in Olimpia! Dei naviganti chi pregava soffiasse Borea, chi Noto: gli agricoltori cercavan la pioggia, le lavandaie il sole. Udiva Giove, e considerando ciascuna preghiera attentamente, non le accoglieva tutte. <poem>
Ma il padre degli Dei ne concedeva Alcuna, ed alcun’altra ne negava.
<poem> Le preghiere giuste le faceva montar sino alla botola, le prendeva, e se le poneva a parte destra; le scellerate le scacciava subito giù con un soffio, perchè neppure si avvicinassero al cielo. Ma ad una certa preghiera io lo vidi bene impacciato. Due uomini dimandavano due cose opposte, ma promettevano lo stesso sacrifizio: ond’egli non sapeva chi dei due contentare; stava tra il sì e il no degli Accademici, non sapeva uscir di quell’imbroglio, e come Pirrone, dubitava e considerava. Sbrigatosi di questa faccenda delle preghiere, passò al seggio ed alla botola seguente, fe’ capolino, e attese ai giuramenti ed ai giuratori. Spacciatosi anche da questi, e fulminato l’Epicureo Ermodoro, sedè sovra un altro seggio, e badò alle divinazioni, alle voci che corrono, agli augurii. Di là passò alla botola donde sale il fumo de’ sagrifizi, e il fumo dice a Giove il nome di chi l’ha offerti. Spedite tutte queste faccende, comandò ai venti ed al tempo quel ch’era da fare: Oggi piova in Scizia, tuoni in Libia, nevighi in Grecia: tu, o Borea, soffia in Lidia, tu, o Noto, sta’ cheto, e tu, o Zefiro, sconvolgi l’Adriatico: mille medinni di grandine si spandano sulla Cappadocia. - Regolato così ogni cosa, andammo al convito, essendo già l’ora del banchettare: Mercurio mi allogò vicino a Pane, ai Coribanti, ad Ati, a Sabazio, e a cotali altri forestieri ed incerti Dei. Cerere ci fornì del pane, Bacco del vino, Ercole delle carni, Venere de’ mirtilli, e Nettuno delle menole. Gustai ancora, ma di soppiatto, l’ambrosia ed il nèttare; chè il buon Ganimede, che vuol tanto bene agli uomini, quando vedeva Giove voltar gli occhi altrove, versò una o due ciotole di nettare e me le porse. Gli Dei, come dice Omero, che certo vide come me ogni cosa lassù, non mangian pane nè bevon nereggiante vino, ma si cibano di ambrosia, e s’inebbriano di nèttare, e sono ghiottissimi del fumo e dell’odore delle carni arrostite ne’ sagrifizi, e del sangue delle vittime versato intorno le are dai sagrificatori. Durante il banchetto Apollo sonò la cetera, Sileno ballò un ballonchio lascivo, e le Muse ritte in piedi cantarono la Teogonia d’Esiodo, e la prima delle odi di Pindaro. Poichè venne la sazietà, ci levammo, e ciascuno era alticcio.
Dormian tutti gli Dei ed i guerrieri
Per l’alta notte, ma su me non venne
La dolcezza del sonno,
mi frullavano pel capo tanti pensieri; e specialmente come Apollo da tanto tempo non avesse ancor messo le calugini; come si fa notte in cielo, che c’è sempre il sole, anzi aveva banchettato con noi. Infine, allora aveva preso un po’ di sonno, che Giove levatosi per tempissimo, fe’ chiamar parlamento. E convenuti tutti, egli incominciò: L’ospite che venne ieri mi muove a qui radunarvi: e già io volevo tener consiglio con voi intorno ai filosofi, ma ora specialmente per le doglianze della Luna mi son risoluto di non più indugiare a finir questa faccenda. Sono costoro una razza d’uomini venuti sù da poco tempo, oziosi, accattabrighe, vanitosi, stizzosi, ghiotti, inetti, superbi, pronti ad oltraggiar chicchessia, e, per dirla con Omero, inutile peso alla terra. Divisi per vari sistemi, e per diversi laberinti di ragionamenti da loro escogitati, si chiamano e Stoici, ed Academici, ed Epicurei, e Peripatetici, e con altri nomi molto più ridicoli di questi. Vestiti del venerando nome della virtù, con le ciglia aggrottate, con la barba sciorinata, coprono col finto aspetto i loro sozzi costumi, e son similissimi all’istrione, cui se togli la maschera e il vestimento ricamato d’oro, resta un ridicolo omiciattolo che per sette dramme rappresenta una parte. Eppure costoro hanno in dispregio tutti gli uomini, degli Dei parlano a sproposito, e radunando giovani sori declamano tragicamente certe pappolate sù la virtù, e non insegnano che que’ loro ribaldi andirivieni di parole. Innanzi ai discepoli lodano a cielo la temperanza e la modestia, e sputano le ricchezze e i piaceri, ma quando son soli, chi può dirvi come banchettano, quanto son lussuriosi, e come leccano l’untume dell’obolo? E il peggio è che non essendo buoni a nulla nè per il comune nè per sè, essendo proprio inutili e soverchi,
Inabili alla guerra ed ai consigli,
ei riprendono gli altri con parole aspre e villane, e fanno il mestiere di censurare, sgridare, ingiuriar la gente che gli avvicina. E chi tra loro grida più forte, e dice più male parole, ed ha la fronte più dura, è tenuto più valente. Se dimandassi a costui che tanto si sbraccia a gridare e ad accusar gli altri: Ma tu che sai fare, o valentuomo? che bene arrechi tu alla vita comune? ti risponderebbe, se volesse dire il giusto ed il vero: Io tengo per inutile la navigazione, l’agricoltura, la milizia, ed ogni arte: fo il mestiere di schiamazzare, di lavarmi con acqua fredda, di andar tutto sozzo e scalzo nel verno, e, come Momo, di calunniare tutti i fatti altrui. Se un ricco sfoggia in cene, o si tiene un’amica, questo è un affar che m’importa, e gli scarico in capo un sacco di villanie: ma se un amico o un compagno giace a letto ammalato ed ha bisogno di aiuto e di cura, non me ne importa un fico. Ecco, o Dei, che care gioie d’uomini! Quelli che si chiamano Epicurei sono i più arroganti, ci assalgono più furiosi, dicendo che gli Dei non si brigano affatto delle cose umane, e non gettano neppure uno sguardo sù quel che accade laggiù. Pensateci bene adunque, perchè se costoro potran persuadere gli uomini, voi ci starete bene a stecchetto: chè, chi mai vi farà più sacrifizi, non aspettando niente da voi? Le doglianze della Luna voi le avete udite, espostevi ieri dal forestiere. Prendete ora il partito più utile per gli uomini, più sicuro per voi. Dicendo così Giove, tutta l’adunanza romoreggiò, e tosto scoppiarono in un grido: Fulmini, fuoco, sterminio, nel baratro, nel Tartaro, come i giganti. Ma Giove impose silenzio un’altra volta, e disse: Sì, sarà, come volete: saranno sterminati essi e la dialettica loro. Ma per ora non è lecito punire nessuno, perchè, come sapete, sono le feste de’ quattro mesi,4 ed io già ho annunziata la tregua sacra. Ma l’anno venturo, al cominciar di primavera ve li sfolgorerò tutti con questa terribil folgore.
Sì disse il Saturnide, e confermollo
Aggrottando le nere sovracciglia.
Per Menippo, soggiunse, io penso che sia spogliato dell’ali, affinchè non ci torni un’altra volta, e sia riposto da Mercurio sulla terra oggi stesso. Così detto, sciolse l’adunanza: e Mercurio, presomi per l’orecchio destro, iersera mi posò nel Ceramico. T’ho narrato tutto il mio viaggio celeste, o amico. Ora vo nel Pecile a contarlo ancora a quei filosofi che vi passeggiano.
Note
- ↑ Lo stadio corrispondeva a venticinque passi geometrici. Parasanghe; misura persiana di trenta stadii. I Persiani furono i primi ad usare le poste che si dicono inventate da Ciro.
- ↑ Il Parneto, monte tra l’Attica e la Beozia; il Geraneo o monte delle grue nell’istmo di Corinto; il Foloe e l’Erimanto, monti di Arcadia; il Taigete, monte della Laconia.
- ↑ Il tempio di Giove Olimpio in Atene per trecento anni non si potè compiere, per la grande spesa che vi occorreva. Adriano lo finì.
- ↑ Le feste de’ quattro mesi, pare che sieno i quattro mesi innanzi primavera, nei quali cadevano molti giorni festivi.