I solitari dell'Oceano/14. Il tradimento

14. Il tradimento

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CAPITOLO XIV.

Il tradimento.


Sao-King e Ioao avendo ormai capito che qualunque osservazione sarebbe stata inutile con quel selvaggio, raccolte le armi si erano subito slanciati sulle radici dei paletuvieri, onde raggiungere la riva già visibile.

Con loro stupore, nessun selvaggio li aveva seguìti, anzi pareva che si disponessero a ridiscendere il fiume, avendo impugnato nuovamente le pagaie. [p. 101 modifica]

— Ebbene, non ci seguìte? — chiese Sao-King, diventato eccessivamente sospettoso.

— No, — rispose il capo della piroga, tentando di sorridere. — Noi scenderemo ancora il fiume per sorvegliare le scialuppe. Non temere però; prima che il sole tramonti noi saremo qui e vi imbarcheremo.

— Non ci abbandonerete?

— A quale scopo? In tal caso non vi avremmo presi a bordo della piroga.

— È vero, — mormorò il chinese, un po’ rassicurato dall’accento del selvaggio.

Tradusse a Ioao le risposte del capo e vedendo il giovane fare un segno di approvazione credette inutile insistere.

— Vi aspetteremo qui, — disse il chinese.

I selvaggi con una spinta scostarono la piroga, ripresero le pagaie e si diressero verso la foce, scomparendo ben presto dietro una curva che descriveva il fiume. Quando Sao-King non li vide più, si volse verso Ioao il quale si teneva ritto su un gruppo di radici, chiedendogli:

— Che cosa ne dite di questo abbandono?

— Era la domanda che volevo farti, — disse il giovane.

— Sarò forse troppo sospettoso, ma questa manovra del selvaggio mi sembra poco chiara.

— Anche a me, Sao-King. Che abbiano voluto sbarazzarsi di noi?

— È quello che temo, signor Ioao.

— Ed a quale scopo?

— Volete che ve lo dica? Io ho timore che quei selvaggi siano d’accordo cogli uomini che hanno fatto incagliare la nostra nave.

— Tu lo credi! — esclamò il giovane, impallidendo.

— Sì, e che ci abbiano presi a bordo della loro piroga per diminuire il numero dei difensori dell’Alcione.

— Allora mio fratello, ed il signor Vargas sono perduti!

— Adagio, signor Ioao. Vi sono due cannoni a bordo ed i compagni non sono uomini da risparmiare la mitraglia. Se quei misteriosi uomini bianchi vorranno impadronirsi della nave, troveranno un osso ben duro pei loro denti.

— Tu mi spaventi, Sao-King.

— Signor Ioao, non sono che supposizioni, per ora. Potrei ingannarmi ed aver giudicato molto male quel selvaggio.

— Tuttavia non sei tranquillo.

— Questo è vero, — disse Sao-King.

— E vorresti essere ancora a bordo dell’Alcione.

— Sì, signor Ioao, però non precipitiamo i nostri giudizi e aspettiamo il ritorno dei selvaggi.

Se riusciremo a giungere al villaggio di Tafua tutto sarà finito e l’Alcione riprenderà la navigazione. [p. 102 modifica]

Cerchiamo un posto ove accamparci e armiamoci di pazienza. Forse la piroga non tarderà a ricomparire.

Attraversarono le rizophore passando di radice in radice e raggiunsero la riva arrestandosi sotto una splendida banana del paradiso, le cui foglie gigantesche, ricadendo graziosamente intorno al breve tronco, proiettavano un’ombra freschissima.

— Troveremo qui la cena pronta, — disse il chinese, mentre Ioao girava intorno alla pianta guardandola con viva curiosità. — Non avremo da fare altro che staccare quel grappolo gigantesco e avremo tanta frutta da poter nutrirci per una settimana.

— Una pianta preziosa per queste isole. È vero Sao-King? — chiese il giovane.

— Quanto quella del cocco, signor Ioao, — rispose il chinese. — Fanno un consumo enorme di queste frutta questi selvaggi, servendo loro anche da pane, quantunque la farina che se ne estrae non sia molto nutritiva. Le mangiano fresche, oppure le seccano come i fichi o le cuociono sotto la cenere. Anche il fusto non è da disprezzarsi perchè, inciso, dà un umore dolciastro, gradevolissimo, ottimo per spegnere la sete.

— In attesa dei selvaggi possiamo cenare, Sao-King. Io ho alcuni biscotti nelle mie tasche.

— L’idea non mi pare cattiva, — disse il chinese, ridendo. — Mentre voi sorvegliate i dintorni io vado a far raccolta di frutta.

— Sempre sospettoso tu.

— Non mi fido di questi mangiatori di carne umana. —

Si spinse dapprima verso la riva per accertarsi coi propri occhi che nessun pericolo li minacciava, poi mentre Ioao percorreva il margine della foresta, salì sul banano aprendosi faticosamente il passo fra quelle immense foglie e raggiunse il centro del tronco.

Un grappolo grossissimo, formato da una cinquantina di frutti, s’incurvava verso il suolo. Era perfettamente maturo perchè le scorze cominciavano già ad ingiallire.

Sao-King con un colpo di coltello lo recise e lo lasciò cadere al suolo, essendo troppo pesante per poterlo portare.

Stava per discendere, quando udì il giovane peruviano a esclamare:

— Cos’è questo?

— Avete trovato qualche animale, Ioao.

— No, un cappello.

— Un cappello! Volete scherzare? Io non ho mai veduto questi isolani portarne, anzi io credo che ne ignorino perfino l’uso.

— Guarda, Sao-King! —

Il giovane, uscito da un folto cespuglio che aveva allora frugato colla speranza di sorprendere qualche cinghiale, animali comunissimi nelle isole dell’Oceano Pacifico, teneva in mano un ampio cappello di paglia grossolana, il quale portava dipinto in nero un numero molto visibile. [p. 103 modifica]

— Centoventiquattro, — disse. — Come mai questo cappello è numerato? —

Il chinese gli si era avvicinato rapidamente, facendo un gesto di stupore.

— Vediamo, — disse con voce alterata.

S’impadronì del cappello guardandolo attentamente, voltandolo e rivoltandolo. Ioao che non gli staccava di dosso gli sguardi lo vedeva a poco a poco diventare preoccupato.

— Che cos’hai? — gli domandò. — Tu mi sembri molto inquieto, Sao-King.

— Questo copricapo è d’origine europea o per lo meno indiana, — rispose il chinese.

— E che t’importa?

— Non è il cappello che mi preoccupa, è il numero che vedete dipinto qui.

— Vi è anche un nome nella fodera; è un po’ smarrito, però alcune lettere si possono ancora leggere, — disse Ioao. — Guarda: un n, un u, un e ed anche un a.

— Che cosa leggereste voi? — chiese Sao-King, con maggior ansietà.

— Nuea, però manca qualche lettera.

— E se invece fosse Numea, la capitale della Nuova Caledonia, il luogo che serve di pena ai forzati francesi?

— Che cosa vuoi concludere, Sao-King? — chiese Ioao il quale cominciava a comprendere.

— Che questo cappello deve aver appartenuto a qualche forzato, signore, — disse il chinese. — Un uomo onesto non porta un numero sui suoi indumenti.

— Sao-King!

— Signore, noi abbiamo fatta una bella scoperta. Ora possiamo sapere chi sono gli uomini che hanno approdato su quest’isola e che hanno tentato di far arenare la nostra nave. Dapprima aveva avuto il sospetto che fossero forzati inglesi fuggiti dal penitenziario di Norfolk; ora invece abbiamo la certezza d’aver da fare con bricconi fuggiti dalla Nuova Caledonia.

— Tu mi spaventi, Sao-King. Io avevo invece creduto che fossero i marinai dell’Alcione.

— Lo avevo sperato anch’io ed invece ci siamo ingannati.

— Che cosa fare ora?

— Aspettare fino a questa notte la piroga e se non ritorna, correre subito in aiuto dei nostri compagni, — disse il chinese. — Il cuore mi dice che devono correre un grave pericolo.

— Da parte dei forzati?

— Sì, quei bricconi faranno qualunque sforzo per impadronirsi della nostra nave.

— Per che cosa farne poi? [p. 104 modifica]

— Per andarsene da quest’isola, signor Ioao. Orsù, ceniamo poi scenderemo il fiume fino alla foce per trovare la piroga. —

Quantunque molto inquieti per quella scoperta, mangiarono alcune banane e le gustarono assai essendo veramente squisite e molto profumate, poi si gettarono in spalla i fucili e si misero in marcia costeggiando il fiume.

La sera si appressava. Il sole era già scomparso dietro gli alberi delle foreste occidentali e le tenebre cominciavano ad addensarsi sotto i fitti fogliami.

Gli uccelli che fino allora avevano garrito, tacevano, nascosti sui più alti rami, mentre invece cominciavano a comparire gli uccelli notturni, rappresentati da certi brutti pipistrelli della specie dei vampiri lunghi venticinque o trenta centimetri, colla testa grossa ed armata di denti lunghi, cogli occhi neri e vivaci, il corpo peloso e le ali larghissime.

La foresta che fiancheggiava il fiume era foltissima e composta da una straordinaria varietà di piante.

Si vedevano crescere le une accanto alle altre stretti da festoni giganteschi di rotangs e di calamus. Vi erano gruppi di banani, di noci di cocco, di sagu, di alberi del pane già carichi di frutta, di mongoi, di niaulis e di mori papiriferi mescolati confusamente a cavoli palmisti, a cedri enormi ed a noci moscate allo stato selvaggio.

Il chinese e Ioao erano costretti ad interrompere sovente la loro marcia per cercare dei passaggi, che non sempre riuscivano a trovare.

Qualche volta si vedevano costretti a scendere in acqua e passare attraverso le radici delle rizophore per riguadagnare più sotto il margine della foresta.

Di quando in quando anche si arrestavano per ascoltare, temendo di essere stati seguìti da qualche orda di selvaggi, ma fino allora nessun rumore sospetto era giunto ai loro orecchi.

Tuttavia quella calma non rassicurava affatto il chinese.

— Se udissi dei rumori, sarei più contento e anche più tranquillo, — diceva a Ioao.

Dopo un’ora di penose marce, essi giungevano alla foce del fiume.

Attraverso uno squarcio della foresta si vedeva a scintillare il mare, illuminato da una splendida luna piena e tendendo gli orecchi si udiva anche il monotono gorgogliare delle onde mosse dalla marea.

Entrambi si erano arrestati, guardando attentamente le due rive ed i banchi di sabbia che ostruivano in parte il fiume.

— La piroga non c’è più, — disse Sao-King. — Quei bricconi ci hanno abbandonati.

— Che si sia spinta al largo per sorvegliare la flottiglia? — chiese Ioao.

— La si vedrebbe, mentre invece il mare è deserto. [p. 105 modifica]

— Raggiungiamo la sponda, Sao-King.

— Dovremo attraversare un lembo della foresta.

— Una marcia di quindici o venti minuti non ci darà fastidio, — rispose il giovane.

— Seguitemi, signor Ioao. —

Abbandonarono la foce del fiume non permettendo il terreno di seguirne la riva e rientrarono nella foresta procedendo quasi a tentoni, in causa della profonda oscurità che regnava sotto quelle immense foglie.

Procedevano con precauzione, non già perchè temessero l’incontro di qualche belva, non essendovi animali feroci nelle isole dell’Oceano Pacifico, ma per evitare qualche sorpresa da parte dei selvaggi della piroga.

Di tratto in tratto Sao-King, sempre sospettoso, si arrestava per ascoltare, poi riprendeva il cammino muovendo le fronde con leggerezza e cercando di non far scrosciare le foglie secche che tappezzavano il suolo.

Stavano per giungere alla spiaggia, indicata dal frangersi delle onde, quando il chinese si arrestò bruscamente, dicendo a Ioao:

— Un fuoco!

— Lo vedo, — rispose il giovane. — Che gli uomini della piroga si siano accampati qui?

Sao-King non rispose. Si era gettato al suolo ed aveva armato il fucile, mettendosi a strisciare come un serpente.

In mezzo alla foresta, a circa duecento metri, un fuoco brillava spargendo all’intorno una luce rossastra. Alcune ombre umane si agitavano intorno alla fiammata, ma non si potevano ancora distinguere stante l’intrecciamento dei rami dei rotangs.

— Chi credi che siano? — chiese Ioao, fermando il chinese.

— Dei selvaggi di certo, — rispose il chinese.

— Quelli della piroga?

— Non posso saperlo per ora.

— Vuoi andare a vederli?

— È necessario, — rispose Sao-King, la cui fronte si era oscurata. — Questi isolani non hanno l’abitudine di passare la notte presso il fuoco, anzi dopo il tramonto si ritirano subito nelle loro capanne.

— Che cosa temi?

— Io non lo so, tuttavia non sono tranquillo, signor Ioao. A meno che non si tratti...

— Di che cosa?

— D’un banchetto di carne umana.

— Lasciamoli a divorarsi in pace il ributtante arrosto.

— No, signor Ioao, voglio vedere chi sono quegli uomini e che cosa fanno. Gettatevi a terra e procediamo cautamente. È carico il vostro fucile?

— Sì, Sao-King. [p. 106 modifica]

— Andiamo a vedere. —

Si misero a strisciare adagio adagio, cercando di tenersi sotto le piante più folte onde poter nascondersi più facilmente in caso di pericolo.

Giunti a venti passi, si gettarono sotto una macchia di banani, la quale si allungava in direzione del falò.

Sao-King si era arrestato, frenando a malapena un grido di stupore e di collera. —

Attorno al fuoco aveva veduto i selvaggi della piroga assieme al loro capo e non erano soli.

Un uomo, un europeo a giudicarlo dalla tinta del suo volto, stava sdraiato presso il capo tenendo sulle ginocchia un fucile a due canne ed una zucca contenente forse della polvere o qualche liquore.

Quello sconosciuto poteva avere quarant’anni. Era piccolo, tarchiato, con un collo assai grosso, membra assai muscolose e spalle molto larghe.

Aveva la testa eccessivamente grossa, una testa da bretone, con una foresta di capelli rossicci, la fronte bassa, gli occhi d’un azzurro cupo e un po’ cisposi e la bocca grande e armata di certi denti da far invidia ad una tigre.

Una larga cicatrice che gli attraversava il viso da un orecchio all’altro, gli dava un brutto aspetto.

Il suo vestito era di tela bigia grossolana, assai largo, stretto alla cintura da una fascia rossa dalla quale pendeva un coltellaccio.

Non aveva invece nè cappello, nè stivali.

— Chi sarà quell’uomo? — chiese Ioao, il quale l’aveva subito scorto.

— È quello che desiderei sapere, — rispose Sao-King. — Fermatevi qui mentre io seguo la macchia per cercare di raccogliere la loro conversazione.

— Non ti farai scoprire?

— Non temete signor Ioao. Ad ogni modo preparatevi a far fuoco ad un mio segnale.

— Ti aspetto. —

Sao-King attraversò lentamente la macchia di banani, senza fare il menomo rumore e andò ad imboscarsi a dieci passi dal fuoco, celandosi dietro il tronco d’un moro papirifero.

Il capo della piroga e l’europeo discorrevano animatamente, intanto che gli altri preparavano la cena consistente in un piccolo cinghiale, il quale finiva di cucinarsi sui carboni ardenti.

Parlando entrambi il linguaggio di Tonga, Sao-King potè ascoltare il dialogo senza lasciarsi sfuggire una sillaba.

— Sei certo che siano rimasti a bordo due soli uomini? — aveva chiesto l’europeo al selvaggio. — Io non sono del tuo parere.

— Li ho veduti io coi miei occhi.

— Non ve n’erano altri nella stiva?

— Nessuno, di questo sono certo. [p. 107 modifica]

— I miei uomini mi hanno detto che avevano veduti dei cannoni.

— Non so che bestie siano, — rispose il selvaggio. — Tu sai che noi non conosciamo le vostre armi.

— E gli altri dove sono ora?

— Mi aspettano sulla riva del fiumicello.

— Hai preparato tutto per sorprenderli?

— Non occorrono preparativi, — disse il selvaggio. — Basta imbarcarli e poi disarmarli a tradimento.

— Che non abbiano qualche sospetto? — chiese l’europeo.

— Non mi parve.

— Allora impadroniamoci di loro, per ora. Poi penseremo alla nave.

— A noi però i prigionieri ed il ferro che contiene la nave.

— Te l’ho promesso, — disse l’europeo, con una leggera punta d’ironia che sfuggì al selvaggio. — La tua tribù avrà gli uni e l’altro.

— Ed io metterò tutti i miei guerrieri a tua disposizione.

— Andiamo ad impadronirci dei due uomini che ti aspettano. Non vorrei avere impicci con Tafua.

— Non vedranno quel capo, — disse il selvaggio. — Ceniamo alla lesta e poi risaliremo il fiume e andremo a prenderli. So io dove condurli per impedire loro di fuggire.

— E dove? — chiese l’europeo.

— Nella caverna dei pesci-cani.

— Farai quello che vorrai, orsù, levate l’arrosto che mi sembra cotto a puntino e mangiamo alla lesta. —