I rossi e i neri/Secondo volume/XXXVI
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XXXVI.
Come fosse guarito Aloise di Montalto della sua pena di cuore
Il ritorno del duca di Feira e del giovine Aloise in patria, segna il termine, o quasi, del nostro racconto. Laonde, per non avere ad indugiarci poi con taluni personaggi minori, intorno ai quali il lettore vorrà essere debitamente informato, diciamone fin d’ora quel tanto che può essere necessario.
Vive ancora il banchiere Vitali? Sì, vive, ma della vita «di chi doman morrà»; il che significa, ridotto in povera prosa, che il vecchio peccatore è sulle ventitrè ore e tre quarti. Lo assiste il Collini, tenendolo su a forza di espedienti. E non già perchè speri di far mettere il suo nome in luogo di quello del morto Bonaventura, nel testamento dell’infermo. Il nuovo testamento e già fatto, e pel Collini c’è soltanto un legato; cospicuo, sì, ma che non eccede i limiti della onesta riconoscenza. Dunque, direte, il vecchio si è pentito, e salvo il diritto di una certa Compagnia che aveva lasciato al Vitali un milione in deposito, ha nominato erede universale il marchese di Montalto? No, niente di ciò: ben voleva il Vitali fare ammenda onorevole con lui di tanti suoi torti; ma Aloise, pur visitandolo ed augurandogli ogni bene, era stato fermo nel ricusare le sue liberalità, e perfino quel tanto che gli sarebbe spettato per legge.
- Lasciate le vostre ricchezze a chi può averne bisogno più di me; - diceva Aloise. - Ai poveri, per esempio; e parecchie generazioni di cittadini benediranno la vostra memoria. Questa è anche l’opinione d’un mio vecchio amico, il duca di Feira, nel quale potreste ravvisare, vedendolo, una vostra antica conoscenza.... Cosimo Donati. - Era un gran colpo, pel vecchio Vitali, il sentir proferito quel nome. Ma egli lo sopportò validamente, come sanno sopportare i vecchi, fatti insensibili, o poco meno, a certe commozioni morali. Egli si adattò perfino a rivedere l’antico pretendente alla mano di Eugenia, più che quell’altro non si adattasse a rivedere il padre di lei, l’artefice di tutti i suoi mali. Cosimo fu in quella circostanza misurato e cortese; sorvolò sul passato, venendo tosto a rincalzare con le sue argomentazioni i propositi di Aloise. Ed egli, che per la condizione poteva parlare più liberamente del suo giovine amico, che ormai considerava come figlio ed erede, costrinse il vecchio a fare un testamento da galantuomo. Andasse un milione a cui spettava, e a quel milione s’aggiungessero i frutti, computati ad interesse composto. Dieci anni erano corsi oramai dall’asserto deposito del Padre Martelli; si oltrepassava dunque il milione e mezzo; e fu ricupero superiore ad ogni speranza della sacra Compagnia, ad ogni immaginazione degli aderenti di quella. Primo a farne le meraviglie fu il confessore del Vitali, che tosto ne sparse la nuova, fruttando al duca di Feira l’omaggio reverente di tutto il partito dei neri. Lo stesso marchese Antoniotto, come bandieraio di quell’esercito, stimò conveniente di mandare al generoso consigliere un suo biglietto di visita, con alcune righe di prosa robusta, sommamente laudatoria; cortesia che bisognò ricambiare, incappando ancora nella noia di un incontro sulle scale, e di una accoglienza festosa in salotto.
Stranezze del caso, il quale avvicina coloro che potrebbero star bene lontani, ed allontana coloro che starebbero tanto meglio vicini! E l’incontro col signor senatore e la conseguente presentazione alla marchesa, furono il solo segreto che il duca di Feira dovesse custodire, tacendone riguardosamente col suo Aloise. Frattanto, a parlar solamente degli uomini, dovevano esser belli quei due personaggi accostati dal caso; l’uno che lodava l’altro come un benemerito della sua parte; l’altro che ricusava la lode, poichè solamente aveva fatto il debito suo di onesto consigliere, n’avesse anche profitto una gente nemica. Bello, due anni più tardi, il banchiere Vitali, tutto bianco di latte in marmo di Carrara, per trecentomila lire lasciate ad un istituto di carità, che gli eresse la statua; e Dio perdoni al povero letterato, che fu richiesto di dettar l’iscrizione, e non seppe schermirsene!
Del Collini si è già detto, che ebbe un cospicuo legato, bastante a farlo vivacchiare. O non era già ricco? direte. Sì, era; ma quel banco Cardi, Salati e Compagno, nel quale egli, il compagno, teneva impegnati tutti i suoi capitali, sapete pure che fece una mala fine. Già ogni anno, alla stretta dei conti, tra Cardi e Salati si salassava ben bene il compagno: poi, un bel giorno, il Salati era sparito colla cassa; e il Cardi, atteggiandosi a vittima, spandeva torrenti di lagrime, disposto a dare una parte del suo al compagno scottato. Magra consolazione, un cinque o sei mila lire di partecipazione, a chi ne perdeva dugentomila: pure, gli bisognò contentarsene. Poi, anche il Cardi sparì, per vergogna, forse, e per andare a cercar fortuna altrove; più probabilmente per ricongiungersi al Salati, e rifare con lui una nuova ragion di commercio. Speriamo che abbiano azzeccato un altro compagno; quanto a quello di Genova, non ebbe più modo di risorgere! corto a quattrini, si ritrovò politicamente spacciato; il partito ch’egli sperava di capitanare dopo la morte del Gallegos, gli antepose un altro, che non valeva (diss’egli) i legacci delle sue scarpe. Ma così va il mondo; e il nostro grand’uomo dal pelo rossigno, che aveva nutrite in cuor suo tutte le ambizioni, della eleganza, della ricchezza, dell’autorità, si trovò in un giorno deluso di tutte, messo fuori bel bello dalle nobili case, costretto a chinare la fronte orgogliosa, battendo per disperato la povera via delle visite a un franco l’una. Triste destarsi da un sogno di onnipotenza, che lo aveva lusingato, gonfiato, levato al settimo cielo!
Il suo fortunato rivale e successore nella condotta del partito, non ebbe da stare molto più allegro di lui. Quello era un momento critico per la parte nera. Speranze nuove allargavano i cuori; molto si aspettava dal terzo Napoleone, e nel Parlamento italiano, per prepararsi ai felici eventi, si facevano alleanze fin allora insperate, tra liberali temperati e liberali più caldi, come fuori del Parlamento tra repubblicani e monarchici. Che cosa poteva fare l’esercito della reazione, davanti a una così larga sollevazione di coscienze infiammate, frementi patria, indipendenza, unità? Sparpagliarsi, aspettando tempi migliori; anzi, in quel crescere di speranze liberali, non isperandoli nemmeno. Quella non era più la fiammata del Quarantotto, da potersene prevedere la fine con l’ultima tracciata di paglia. Del resto, quel povero esercito incominciava a sentir carestia di teste quadre, molte delle quali eran passate, o preparavano il passaggio, nel campo nemico. Soprattutto mancavano i gran nomi, da attrarre col lustro della nobiltà, e da comandar coll’esempio.
Lo stesso marchese Antoniotto, a mezzo il dicembre del ’58, si tirava in disparte. Scontento, non andava neanche più a Torino, per rompere le sue lance in Senato contro i mulini.... di Collegno; nè più si faceva vedere a Genova, essendosi chiuso nella sua villa di Quinto, come Scipione nella sua di Linterno. Scontento! e di che? A sentir lui, della poca saldezza e del nessuno ardimento del partito dell’ordine, a sentir gli altri, per ragioni più intime, più delicate, che la sua prosopopea di grand’uomo avevano spruzzata un tantino di ridicolo; onde egli si era ritirato a Quinto, più tiranno che mai, mentre la marchesa, con quei freschi incominciati, e senza pensar più che tanto alla festa da ballo con cui casa Vivaldi soleva aprire la stagione invernale, aveva creduto opportuno di andarsene a stare da sola in un suo castello delle Langhe.
Ragioni di salute, si diceva per lei, ammiccando, tra caritatevoli amiche. Infatti da un po’ di tempo si lagnava dell’aria marina, e già più volte il suo medico le aveva consigliato di passar l’Appennino. Ragioni di studio, si diceva per lui, ridendo un pochino, tra i buontemponi del suo ceto. Infatti, doveva scrivere un’opera sulla ragione di Stato nei tempi moderni; l’aveva annunziata da un pezzo; non voleva farla aspettare più a lungo; e lo scrivere un’opera di quella fatta non poteva riuscirgli bene fuorchè nella sua villa di Quinto, dove erano meno centinaia di quadri, e più migliaia di volumi, ad ingombrar le pareti.
Il marchese Antoniotto Torre Vivaldi non scrisse l’opera promessa alle genti. Finì il ’58 senza che egli l’avesse pur cominciata; passò il ’59, anno di tali novità politiche da confondere ogni ragione di Stato che s’ispirasse ai trattati del ’15; venne il ’60, e fu peggio che mai. Dicono che il povero senatore se ne accorasse tanto, da farci una malattia; quella malattia che in capo a tre mesi lo condusse alla tomba. E della grand’opera promessa, neanche un capitolo; il che non tolse che l’Armonia di Torino, levando a cielo i meriti dell’estinto, raccomandasse alla vedova di voler dare alle stampe ogni cosa che fosse rimasta di lui; tra l’altro la «Ragion di Stato dei tempi moderni». Anche in alcune parti incompiuta, e in altre non condotte a quella finitezza di stile che era uno tra i pregi del marchese Torre Vivaldi come scrittore, non si poteva defraudarne il mondo, per cui benefizio era stata pensata.
Dal castello di Valcalda nelle Langhe non venne risposta all’invito. La castellana non leggeva l’Armonia; ed anche aveva altro da pensare. Ma basti di ciò; noi ci siamo spinti un po’ troppo innanzi nel tempo, e dobbiamo ritornare sui nostri passi; se non vi spiace, fino al 4 dicembre del 1858.
Siamo a Genova; entriamo in un buio portone della via Sauli, presso Canneto il Lungo; saliamo due scale anche più buie, ed eccoci in una stamperia, che è l’officina, anzi la fucina della Nazione, di quel giornale quotidiano, che era nato da pochi mesi, che doveva morire un anno dopo, ma che morendo potè dire il suo vixi, senza esser notato di vanagloria.
Era quello il diario che rappresentava, nel concerto della pubblica opinione, il concorso leale d’una parte dei repubblicani d’allora alla monarchia di Savoia, a patto che si muovesse guerra allo straniero, e si facesse l’Italia. La guerra venne, e l’Italia fu fatta, non importa dir come; nè pensiamo che ciò debba entrare nel nostro racconto. C’entra bensì l’amico Giuliani, uno dei molti giovani che si stringevano intorno al vessillo della Nazione; il quale Giuliani, aspettando la guerra per averci la sua parte, aiutava ad attizzare il fuoco nelle pagine del bellicoso giornale.
Abbiamo detto con ciò che egli era uno dei compilatori; aggiungiamo che la mattina del 4 dicembre egli stava nel bugigattolo che la pretendeva a segreteria del giornale, e che seduto vicino a lui stava Enrico Pietrasanta; ambedue infervorati in un discorso, che, come i lettori vedranno, non aveva da far niente colla politica.
- Che cosa mi dite, Enrico? Ma è proprio vero?
- Che volete? - soggiunse il Pietrasanta. - Non ho potuto impedire, non ho potuto mutar nulla, e mi bisogna esclamare come Mosca Lamberti: Cosa fatta capo ha. Ora non si tratta d’altro che di far presto. Accettate?
- Sono in un brutto impiccio; - rispose il Giuliani con aria perplessa. - Vorrei compiacere al nostro amico, e rispondere alla fiducia ch’egli ripone in me; ma sono anche amico del Cigàla, che è uno dei nostri, e non vorrei....
- Non ve ne date pensiero! - interruppe il Pietrasanta. Accettando, farete cosa grata anche a lui. Questo è un malaugurato negozio, nel quale devono entrare soltanto amici, persone le quali non si impuntino a voler sapere le cagioni dello scontro. Lo stesso Cigàla me ne ha mostrato il desiderio, dicendomi che insieme con me, dalla parte di Aloise, avrebbe veduto volentieri il Salvani, o voi. Ma il nostro Lorenzo è ammogliato; la sua luna di miele è tuttavia nel primo quarto....
- E fo voto che duri; - disse il Giuliani. - Or dunque, poichè la è così, accetterò; e siccome capisco che bisognerà anche far presto....
- Vogliono farla finita quest’oggi stesso. Siamo a mezzodì, e non c’è tempo da perdere.
- Che furia! Basta; così vogliono, e sia. Ma le armi?
- Non c’è nulla da fare; si sono già intesi tra di loro; ed hanno scelta la spada.
- Di bene in meglio! - esclamò il Giuliani. - Ma che farnetico li ha colti, di mandare innanzi le cose a questo modo, non lasciando niente da fare ai padrini? Io non ci vedo molto chiaro; e voi?
- Io sì, ci vedo! - rispose Enrico sospirando.
- Ma come? Aloise, tornato a mala pena da un mese, si guasta di punto in bianco col Cigàla, con un amico, con un giovanotto che non farebbe male, sto per dire, ad un mosca?...
- Sì, avete ragione, - soggiunse Enrico; - ma c’è di mezzo una ruggine antica. Parlo ad un amico mio e di Aloise, e neppur l’aria ha da risapere....
- Non dubitate, son mutolo.
- Orbene, - proseguì il Pietrasanta, - vi dirò tutto quel ch’io ne penso. Prima di tutto, sapete voi la cagione della partenza di Aloise un anno fa?
- Credo di averla indovinata; un amore sventurato. E il suo ritorno, mi sembra di averlo capito, un risanamento felice.
- No, qui non sono della vostra opinione. Giuliani. Aloise non è risanato. Non lo avete visto, che cera da funerale? Egli è tornato quello di prima, ed è tornato, m’immagino, perchè non gli dava più l’animo di viver lontano.... da lei. Destino! Ieri l’ha veduta per via. Ella passava, sulla piazza delle Fontane Amorose, in compagnia del Cigàla, che a dirvela di passata, salvo il debito della cortesia, non si cura di lei nè punto nè poco. Ma Aloise non la pensa così. M’ero già accorto, fin dagli ultimi giorni che egli rimase a Genova, innanzi di partire col duca di Feira, che la sua amicizia pel Cigàla s’era di molto raffreddata. Egli lo salutava a mala pena per via, e a qualche domanda che io gli feci, rispose con certe frasi scucite, da cui trapelava la stizza. Per farvela breve, Aloise s’era ingelosito del Cigàla; s’era fitto in mente che la dama non lo vedesse di mal occhio. Intorno a questo, non dico di no; ma che lo ami!... Quella donna non ama nessuno, non ha mai amato altro che sè medesima; la qual cosa, come voi ben potete argomentare, non darà troppo gravi apprensioni al tiranno di Quinto. Insomma, ieri Aloise ha veduto la dama, e il Cigàla che le veniva a fianco, ciaramellando allegramente, com’è suo costume; ed ella rideva, e non vide neppur noi, che stavamo a piuolo dieci passi discosto, sotto la base del palazzo Spinola. Ella del resto ci aveva le sue buone ragioni per non vedere, poichè Aloise, tornato dal suo viaggio, non è andato a salutarla, non ha portato neanche un biglietto da visita al palazzo Vivaldi. Il Cigàla, in quella vece, che non ci aveva le stesse ragioni, ci vide e salutò; ma Aloise lo guardò arcigno, e non rispose il saluto. - Perchè, gli dissi, non saluti il Cigàla? - Io? e che bisogno c’è egli di salutarlo, quello sciocco vanitoso? - Non aggiunsi parola, ed egli neppure; ma vidi, e non c’era bisogno di molta acutezza per vederlo, ch’egli era fortemente agitato. Questa mattina egli venne da me. - Ho parlato col Cigàla; mi disse, e ci siamo intesi. - Oh, meno male! risposi. E la nube si sarà dileguata? - Sì, disse Aloise, prega il Giuliani che voglia unirsi a te, per farmi ambedue da padrini. Noi ci batteremo oggi stesso, alle due.... alle tre.... insomma, prima che tramonti il sole, nella villa del Riario, in Polcevera; l’arma è la spada; tu porta le tue; il Riario ne porterà un altro paio. - E adesso avete capito. Giuliani? Che ve ne pare? Danno dello sventato, del pazzo a me; ma i più savi mi vincon la mano. -
Il Giuliani rimase un tratto sopra pensiero. Avvezzo a vederne di tutti i colori sulle scene della vita, non sapeva pure capacitarsi di questa. Ma che farci? Mosca Lamberti aveva ragione; cosa fatta capo ha.
- E il Cigàla lo avete veduto? - disse egli, dopo alcuni istanti di pausa.
- Sì, a caso, per via, mentre ancora io duravo fatica a riavermi dal colpo. Voi capite, Giuliani, che avevo tentato di smuovere Aloise, di fargli capire.... Ma sì, le furon novelle! - Tutto è inteso tra noi, mi rispose asciutto: l’essenziale è di farla presto finita, perchè stasera vorrei ritornare col duca alla Montalda; se mi ami come sempre, dammi una mano; se no.... - Questo furono le sue ultime parole. Ed io, lo vedete, accettai. Tornando al Cigàla, eccovi ciò che egli mi disse: - Son lieto, in questa brutta congiuntura, di saperti dalla parte di Aloise, ed amerei che tu avessi a compagno un altro amico, o molto prudente, o molto ignaro delle cose nostre. Io ho scelto il Riario, che non sa nulla di nulla, e il Morandi, uomo serio, di poche parole e di nessuna curiosità, ai quali ho dato a credere che si tratti d’una questione politica, mutatasi sventuratamente in alterco. Aloise ha torto marcio. Io era andato stamane da amico, da fratello, a chiedergli perchè mi si mostrasse così sostenuto; mi dicesse in che avessi potuto dispiacergli, chè, senza ancora saperne nulla, io gliene dimandavo scusa. Egli mi rispose acerbo, e l’abbiamo finita come sai. Ha torto, lo ripeto; io non gli ho fatto nulla, non ho nulla a rimproverarmi che faccia contro ad una schietta e leale amicizia. Ho un sospetto, sai?... E qui, se pure ho indovinato, egli è fuori di strada. Ma egli m’ha offeso, e perdio! s’egli è valente schermidore, io non sono una sbercia, neanche al suo giuoco!
- Io vedo, - disse il Giuliani, il quale aveva attentamente ascoltato il racconto di Enrico, - che qui non c’è altro da fare che contentarli. Ma il duca di Feira, non ne sa nulla?
- Mah! - rispose Enrico, stringendosi nelle spalle. - Certo, Aloise non gli ha detto nulla: mi è parso così impaziente, così frettoloso, appunto per timore che il duca venga a sapere questa sua scappata. Povero duca! L’ho veduto poc’anzi in via Nuova; e m’ha salutato appena; forse aveva fretta egli pure. Non si riconosce più, quell’ottimo tra i gentiluomini: pare invecchiato di vent’anni. Anch’egli deve essersi avveduto che la piaga di Aloise, tutt’altro che rimarginata, si è inciprignita, ritornando all’aria di Genova.
- Basta; - notò il Giuliani, alzandosi da sedere; - purchè le cose vadano bene oggi, al resto si penserà; e il duca, che ama Aloise, non è uomo da starsene colle mani in mano, aspettando il rimedio dal cielo, come la manna gli Ebrei. Andiamo ora, coll’aiuto di Dio. Che ore sono?
- Il tocco, Giuliani; andando subito, potremo essere in carrozza alle due.
Scambiate queste parole, uscirono, per correre dal Montalto, e far gli apparecchi della partenza. Aloise aveva già pensato e provveduto ad ogni cosa; le armi erano già nella carrozza del Pietrasanta, e il dottor Mattei, con tutto il bisognevole dell’arte sua, era agli ordini loro.
Un’ora dopo, debitamente avvisata la parte avversaria, che li precedette di parecchi minuti, i quattro amici, lieti nell’aspetto come se andassero a sollazzarsi in campagna, uscivano di città; giunti a Sampierdarena prendevano lo stradone della Polcevera.
Aloise era sparuto anzi che no, ma di buon animo, ilare, quasi festevole; e questo gli aveva fatto tornar sulle guance i bei colori della giovinezza. La giornata era bella, non fredda, e il sole mandava coi tiepidi raggi alla nuda campagna quasi un postumo saluto dell’autunno. L’immagine era di Aloise, che, come tutti sanno, era poeta nel profondo dell’anima, e in quel tragitto appariva tale due volte di più. Fu egli, per tal modo, che tenne desta la conversazione. Ringraziò il Giuliani del tempo che quasi perdeva per lui, togliendolo ad altre cure più gravi e più utili; ragionò della felicità del loro amico Lorenzo, di ciò che avrebbe potuto operare per la sua patria quel giovine generoso, ove lo consentissero i casi, e d’altre cose consimili, con facile eloquio, con mente serena. Tranne le speculazioni filosofiche, che non ci furono, pareva Socrate, innanzi di ber la cicuta.
Giunti che furono a Rivarolo, la carrozza s’avviò al ponte che mette alla destra riva del fiume, e per quella nuova strada, costeggiando le falde della collina di Coronata e Fegino, li condusse in pochi minuti al cancello della villa Riario. Colà smontarono, fra le riverenze di due contadini che li aspettavano per additar loro il sentiero: poco stante, alla svolta d’un viale che conduceva al palazzo, trovarono il Riario, il Morandi, il Cigàla, che insieme col loro medico salivano a lenti passi per l’erta.
Si salutarono tutti con molta cordialità; lo stesso Aloise si fece con atto grazioso incontro al Cigàla, e incominciò a ragionare con lui, come se eglino fossero i padrini, anzi che i combattenti. E questo s’intenderà di leggieri; quel duello, a cui si disponevano, era stato concertato da essi; le armi scelte da essi; era dunque naturale che provvedessero al resto.
- Ci batteremo su questa spianata; - disse Aloise, poichè furono giunti di costa al palazzo, dove, nell’ombra gettata dall’edificio, era un largo lembo di suolo al coperto del sole; - il terreno è battuto e liscio come un’aia; la luce uguale per ambedue.
- Ottimamente; - rispose il Cigàla; - non si potrebbe trovare un luogo più adatto. -
I padrini furono del medesimo avviso, poichè tosto si diedero a tutti i minuti uffizi della geodesia duellaria. E in quella che essi misuravano il campo e segnavano i punti per le mòsse dei combattenti, Aloise, preso pel braccio il Mattei, lo condusse passeggiando fino all’angolo del palazzo, donde si vedeva il cielo aperto, sereno in alto, e stipato al basso di nuvolette, che si dipingevano di vaghi colori ai raggi del sole.
- Guardate l’orizzonte, Mattei; quant’è mirabile per varietà di colori, per magnificenza di luce! Il sole è davvero un monarca, in tutto lo splendor del suo trono! Passerà un’ora, e questa sua pompa sarà finita, per ricominciare domani; e così via via fino alla consumazione dei secoli. Ma noi per fortuna non abbiamo bisogno di tanto; basterà quest’ora per sforacchiarci a dovere.
- E per una controversia ridicola! - sentenziò con accento di rimprovero il Mattei.
- Sicuro, ridicola, come tutte le controversie del mondo. Ve n’ha di serie, per avventura? E in tutte non siamo noi pronti a giuocare ugualmente la vita? Badate a me, Mattei; - proseguì con amaro scherno Aloise; - se ella valesse davvero qualcosa, non la porremmo a repentaglio per alcuna ragione; ed io certamente non la metterei a così vil prezzo come ora.
- E il duca?... - chiese il Mattei, come per richiamare l’amico a più teneri pensieri.
- Ah, non mi parlate del duca! - gridò il giovine sgomentito.
E rimase un tratto in silenzio. Indi, quasi volgesse la parola a sè medesimo, continuò:
- Ma, Dio santo, dovrò io dunque prolungare ancora questo martirio? Ed egli, vive forse più lieto, perchè io vivo e gli dò il quotidiano spettacolo de’ miei patimenti? -
Il dialogo fu interrotto in quel mentre dai padrini, che annunziavano essere ogni cosa all’ordine. Aloise fu sollecito a mettersi in assetto di combattimento. La tempesta svegliata nell’animo suo dalle parole del Mattei, si dileguò in un attimo; ilare in volto si piantò di rincontro al Cigàla, e lo salutò col più gaio sorriso. Il Cigàla lo ricambiò cortese.... ma triste.
- All’armi, dunque! - esclamò Aloise, con quella serenità della quale aveva già fatto prova; - peccato che due gentiluomini come noi non siano qui venuti a combattere pei begli occhi d’una dama!
- Così pur fosse! - soggiunse il Cigàla, tenendo bordone al prudente artifizio o allo scherno dell’avversario, che ben poteva esserci dell’una cosa e dell’altra. - Io terrei la giostra con più di baldanza!
- Fate conto, Cigàla! - disse di rimando Aloise. - Figuriamoci ambedue che ella sia qui, questa sognata castellana, e che dall’alto di quel verone ella assista al torneo, per gittare col sommo delle dita un bacio a quella spada che uscirà tinta del sangue di uno di noi. Il Cigàla si morse le labbra, e non rispose più altro. Enrico intanto s’era fatto innanzi per offrir loro le spade. Le tolsero, salutarono alla svelta i padrini, ed impegnarono le lame.