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povero senatore se ne accorasse tanto, da farci una malattia; quella malattia che in capo a tre mesi lo condusse alla tomba. E della grand’opera promessa, neanche un capitolo; il che non tolse che l’Armonia di Torino, levando a cielo i meriti dell’estinto, raccomandasse alla vedova di voler dare alle stampe ogni cosa che fosse rimasta di lui; tra l’altro la «Ragion di Stato dei tempi moderni». Anche in alcune parti incompiuta, e in altre non condotte a quella finitezza di stile che era uno tra i pregi del marchese Torre Vivaldi come scrittore, non si poteva defraudarne il mondo, per cui benefizio era stata pensata.

Dal castello di Valcalda nelle Langhe non venne risposta all’invito. La castellana non leggeva l’Armonia; ed anche aveva altro da pensare. Ma basti di ciò; noi ci siamo spinti un po’ troppo innanzi nel tempo, e dobbiamo ritornare sui nostri passi; se non vi spiace, fino al 4 dicembre del 1858.

Siamo a Genova; entriamo in un buio portone della via Sauli, presso Canneto il Lungo; saliamo due scale anche più buie, ed eccoci in una stamperia, che è l’officina, anzi la fucina della Nazione, di quel giornale quotidiano, che era nato da pochi mesi, che doveva morire un anno dopo, ma che morendo potè dire il suo vixi, senza esser notato di vanagloria.

Era quello il diario che rappresentava, nel concerto della pubblica opinione, il concorso leale d’una parte dei repubblicani d’allora alla monarchia di Savoia, a patto che si muovesse guerra allo straniero, e si facesse l’Italia. La guerra venne, e l’Italia fu fatta, non importa dir come; nè pensiamo che ciò debba entrare nel nostro racconto. C’entra bensì l’amico Giuliani, uno dei molti giovani che si stringevano intorno al vessillo della Nazione; il quale Giuliani, aspettando la guerra per averci la sua parte, aiutava ad attizzare il fuoco nelle pagine del bellicoso giornale.

Abbiamo detto con ciò che egli era uno dei compilatori; aggiungiamo che la mattina del 4 dicembre egli stava nel bugigattolo che la pretendeva a segreteria del giornale, e che seduto vicino a lui stava Enrico Pietrasanta; ambedue infervorati in un discorso, che, come i lettori vedranno, non aveva da far niente colla politica.

- Che cosa mi dite, Enrico? Ma è proprio vero?

- Che volete? - soggiunse il Pietrasanta. - Non ho potuto impedire, non ho potuto mutar nulla, e mi bisogna esclamare come Mosca Lamberti: Cosa fatta capo ha. Ora non si tratta d’altro che di far presto. Accettate?