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alleanze fin allora insperate, tra liberali temperati e liberali più caldi, come fuori del Parlamento tra repubblicani e monarchici. Che cosa poteva fare l’esercito della reazione, davanti a una così larga sollevazione di coscienze infiammate, frementi patria, indipendenza, unità? Sparpagliarsi, aspettando tempi migliori; anzi, in quel crescere di speranze liberali, non isperandoli nemmeno. Quella non era più la fiammata del Quarantotto, da potersene prevedere la fine con l’ultima tracciata di paglia. Del resto, quel povero esercito incominciava a sentir carestia di teste quadre, molte delle quali eran passate, o preparavano il passaggio, nel campo nemico. Soprattutto mancavano i gran nomi, da attrarre col lustro della nobiltà, e da comandar coll’esempio.

Lo stesso marchese Antoniotto, a mezzo il dicembre del ’58, si tirava in disparte. Scontento, non andava neanche più a Torino, per rompere le sue lance in Senato contro i mulini.... di Collegno; nè più si faceva vedere a Genova, essendosi chiuso nella sua villa di Quinto, come Scipione nella sua di Linterno. Scontento! e di che? A sentir lui, della poca saldezza e del nessuno ardimento del partito dell’ordine, a sentir gli altri, per ragioni più intime, più delicate, che la sua prosopopea di grand’uomo avevano spruzzata un tantino di ridicolo; onde egli si era ritirato a Quinto, più tiranno che mai, mentre la marchesa, con quei freschi incominciati, e senza pensar più che tanto alla festa da ballo con cui casa Vivaldi soleva aprire la stagione invernale, aveva creduto opportuno di andarsene a stare da sola in un suo castello delle Langhe.

Ragioni di salute, si diceva per lei, ammiccando, tra caritatevoli amiche. Infatti da un po’ di tempo si lagnava dell’aria marina, e già più volte il suo medico le aveva consigliato di passar l’Appennino. Ragioni di studio, si diceva per lui, ridendo un pochino, tra i buontemponi del suo ceto. Infatti, doveva scrivere un’opera sulla ragione di Stato nei tempi moderni; l’aveva annunziata da un pezzo; non voleva farla aspettare più a lungo; e lo scrivere un’opera di quella fatta non poteva riuscirgli bene fuorchè nella sua villa di Quinto, dove erano meno centinaia di quadri, e più migliaia di volumi, ad ingombrar le pareti.

Il marchese Antoniotto Torre Vivaldi non scrisse l’opera promessa alle genti. Finì il ’58 senza che egli l’avesse pur cominciata; passò il ’59, anno di tali novità politiche da confondere ogni ragione di Stato che s’ispirasse ai trattati del ’15; venne il ’60, e fu peggio che mai. Dicono che il