I misteri del processo Monti e Tognetti/Capitolo XXX

XXX. Tradimento

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Capitolo XXIX Capitolo XXXI

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XXX

Tradimento.


Curzio, venuto fuori sulla loggia ed affacciatosi al parapetto, si accorse con maraviglia e piacere, che quella volta i galeotti addetti alle opere muratorie della fortezza, erano molto più vicini a lui che non fossero il dì prima. Essi lavoravano in quel giorno sopra una specie di ponte mobile, situato a ridosso di quella parte del maschio, ov’egli appunto si trovava.

A un leggero sibilo ch’egli emise, un forzato, che Curzio riconobbe per quello stesso che nel giorno innanzi gli aveva fatto cenno di aspettare, volse la testa in su, e appena lo vide, gli fece un altro segno, più espressivo del primo, col quale gli diceva con tutta evidenza: Tenetevi pronto.

Curzio rimase intento cogli occhi ad ogni più piccolo moto di quei condannati; gli parve che quel medesimo che gli aveva diretti quei segni, scambiasse un rapido cenno col loro guardiano. Poi di lì a poco, come se avessero terminato il lavoro della giornata, i galeotti a due a due sfilarono giù dal ponte: uno solo rimase: era proprio quello che aveva stretta seco una segreta intelligenza. Era di quelli che non portavano la catena.

Il giovane prigioniero non ebbe tempo di maravigliarsi del come quel forzato avesse potuto rimanere indietro sul ponte non ostante la sorveglianza del guardiano, chè una sorpresa più forte lo aspettava. Appena il condannato fu rimasto solo, con una sveltezza e un’agilità, che lo dimostravano rovetto in siffatti esercizi, si diede a salire ponendo i piedi sulle ineguaglianze del muro, come avrebbe fatto sui gradini di una scala. Fu così rapida la sua salita, ch’egli giunse al parapetto e saltò dentro la loggia di Curzio, prima che questi potesse rendersi ragione di tutta l’estensione del pericolo che quell’uomo correva, e prima che nessuna delle tante sentinelle che vigilavano all’intorno si accorgesse di quel viaggio prodigioso.

― Presto, presto! disse quell’uomo appena fu vicino a Curzio; vestitevi con questi abiti.

E così dicendo in un baleno egli si trasse di dosso la casacca, i calzoni, e il berretto a righe gialle e nere, che formavano il suo vestiario da galeotto.

Curzio rimase un istante irresoluto; per quanto forte fosse il desiderio ch’egli aveva di fuggire dalla sua prigione, si arrestò per un momento innanzi all’idea d’indossare quegli abiti. Ma vinse ben presto la ripugnanza, e spogliati con prestezza eguale a quella del condannato il suo soprabito e i suoi calzoni, si vestì rapidamente cogli abiti di colui. [p. 126 modifica]

— Ora, gli disse il galeotto, scendete subito per la strada per la quale io sono montato; la discesa vi riuscirà certo più facile della salita.

— E poi? chiese Curzio.

— Poi raggiungete il drappello dei forzati, e non temete. Il guardiano farà il resto.

Dunque il guardiano era d’accordo, pensò Curzio. Ma non era tempo da riflessioni. Salutò con un’occhiata più che con la voce quell’uomo misterioso; misurò collo sguardo la distanza che lo separava dal ponte mobile, scavalcò il parapetto, si aggrappò a quello colle mani, lasciò andare le gambe, cercò coi piedi un appoggio, e coi piedi e colle mani attaccandosi ai buchi della muraglia e alle rotture delle pietre diroccate, discese per l’altezza di cinque o sei metri, finchè cadde, più che non arrivasse, sul ponte. Di li senza perder tempo entrò nella finestra, per la quale si penetrava nell’interno dell’edifizio. S’incamminò per un corridojo che trovò aperto dinanzi, e in fondo a quello raggiunse il drappello dei forzati, al quale doveva unirsi. Il guardiano gli fece un segno segreto con cui gli confermò la sua connivenza.

Curzio si confuse nel branco dei galeotti, e il guardiano li avviò innanzi. Essi passarono corridoi, scalette, e baluardi, finchè giunsero nel cortile della fortezza, e di quivi passarono dalla gran porta, per ridursi alla darsena. Era cosa consueta, e nessuno vi faceva attenzione.

Quando furono giunti fuori della fortezza, si avviarono giù per una stradella vicina. In quella via il guardiano s’incontrò in un suo collega e con quello scambiò poche parole, dopo le quali gli cesse la guardia del drappello, ed egli col solo Curzio si avviò da altra parte.

È cosa consueta in Civita-Vecchia dove i galeotti sono occupati in ogni sorta di lavori, anche pei privati, il vederne un solo scortato da un guardiano volgere in una direzione qualunque.

Curzio e il guardiano passarono per molte vie, finchè si condussero all’aperta campagna. Quando furono giunti a un certo punto il guardiano fe’ cenno a Curzio di fermarsi, poi si volse indietro, si accertò che non erano spiati da nessuno, e disse:

— Seguitemi!

Presero un sentiero di traverso, camminarono senza altre parole. Passarono in mezzo una melanconica pianura, intralciata da roveti e da acque stagnanti, percorsa qua e là dalle mandre di bufali e di cavalli selvaggi; si ch’era forza ad ora ad ora ripararsi nelle staggionate1.

Il guardiano si fermava ad ogni tratto, e guardava intorno come per [p. 127 modifica]orizzontarsi, poi proseguiva il cammino, Curzio si fermava con esso, e con esso riprendeva la strada.

Andavano e tacevano. Pareva inutile a Curzio il fare domande. O quell’uomo voleva salvarlo, ed egli non aveva che a seguirlo per ridursi a buon porto: od era un traditore, e in questo caso egli era ormai in sua balia, e non v’era possibile riparo. Unica via era quella di abbandonarsi alla sorte.

Quando furono pervenuti, dove la boscaglia si faceva più fitta, e l’acqua dilagava in palude, il guardiano si arresto, e mandò un fischio prolungato, al quale quasi subito fece risposta un fischio più acuto. Ed ecco sbucare da un cespuglio un uomo, e farsi incontro a quei due.

Curzio riconobbe la figura di Giano. Egli ignorava la parte di complicità che quell’uomo aveva avuto nel suo arresto, ma non poteva a meno di nutrire una certa diffidenza contro colui, che gli aveva promesso di condurlo a salvamento nella sera stessa in cui venne arrestato. E perciò quell’incontro gli mise nell’anima il sospetto, di cui diè segno indietreggiando d’alcuni passi.

— Non temete, disse allora Giano avanzandosi, io ho giurato alla signora principessa di liberarvi dalla prigione, e se l’altra volta non giunsi a trarvi a salvamento, spero questa volta coll’ajuto del Signore di riuscirvi.

Poi Giano fece un segno di convenzione al guardiano, che aveva condotto Curzio fino in quel luogo, e gli pose in mano del denaro che, l’altro guardò, e numerò ben bene prima di allontanarsi. Il giovane fuggitivo non era troppo rassicurato dal discorso di quell’uomo misterioso, ma egli si trovava in tale condizione, che gli era forza di seguire l’unica via che gli si era schiusa dinanzi.

Giano s’inoltrò nella boscaglia, facendo un cenno a Curzio, e questi gli tenne dietro.

Girarono a lungo in quel labirinto di macchioni e di paludi. Più s’inoltravano, e più si faceva forte nella mente di Curzio il sospetto del tradimento, e già meditava di abbandonare la sua guida, e qual si fosse il rischio, cacciarsi a caso nel bosco, fidandosi alla cieca fortuna: quando all’improvviso lo stesso Giano, che sopravanzava d’un buon tratto di strada il compagno spicca una rapida corsa, e in un baleno si perde nel più fitto della macchia, lasciando Curzio solo sopra il sentiero.

Allora ciò ch’era dubbio, diventa un’assoluta certezza. Giano era un traditore, che aveva procurata la sua evasione per condurlo a più sicura rovina.

Ma che fare in una situazione tanto pericolosa? Da che parte potea egli rivolgersi, così perduto in un bosco, all’avvicinarsi della notte, ignaro delle strade, stanco del cammino, senza cibo, senza denaro, e con quelle vesti da galeotto sul dosso? [p. 128 modifica]

Non poteva nemmeno decidersi a passare la notte alla meglio in quel luogo. Giano era andato senza dubbio a denunziarlo; e i soldati sarebbero venuti a cercarlo senza ritardo. Si mise in braccio della provvidenza, avviandosi alla ventura per uno di quei tanti sentieri della boscaglia. Dove o condurrebbe? egli non lo sapeva ma camminava, camminava, colla speranza di allontanarsi almeno a tempo dal punto dove il traditore l’aveva lasciato.

Era forse un quarto d’ora che procedeva in quella direzione, quando si trovò sbarrata la via da un bacino d’acqua stagnante. Retrocedere, sarebbe stato un perdere tutto il frutto del cammino percorso: tentare il guado era troppo rischio e forse inutile. In quella stretta il giovane pensò di costeggiare lo stagno fino a che potesse riprendere il sentiero nella direzione di prima.

La riva di quella palude era frastagliata ad angoli che raddoppiavano il cammino. Curzio era giunto in un luogo nel quale i cespugli selvaggi riuniti a modo di siepe giungevano a toccare l’orlo dell’acqua, allorchè intese al di là di quel fogliame un rumore metallico simile a quello ch’è prodotto dal cozzo delle armi da fuoco. Certamente v’erano dei soldati nascosti fra quegli arbusti.

Retrocedè subito, e seguendo sempre la riva dello stagno, e raddoppiando il passo, continuò ad allontanarsi; a un tratto si trovò impedito il cammino da un corso d’acqua che veniva a perdersi nella palude. Con un salto vigoroso, si slanciò, e giunse a piede asciutto dall’altra parte del rivoletto.

Di là si apriva uno spazio più largo, libero dalle acque e dalla boscaglia; il fuggiasco poteva inerpicarsi sopra una piccola eminenza, che aveva di fronte, è franando giù dall’altra costa, trovare la salvezza. Ma in quella appunto che formava questo pensiero, ecco sbucare da quello stesso rilievo di terreno altri armati.

Era ormai cosa evidente: gli davano la caccia. Esso era circondato, come il cignale, intorno a cui si è formato un circolo di mute e di cacciatori.

Senz’armi, senza difesa, senza ajuto alcuno, esso era abbandonato ai nemici che si avanzavano da ogni parte. Già il cerchio si faceva più stretto, e le voci dei soldati, che si additavano fra loro il fuggitivo, giungevano fino a lui.

Che fare in quel supremo momento? Raggiunto dai soldati, avvinto, incatenato, sarebbe ricondotto a prigionia più dura, più disperata, si sarebbe di nuovo macerato in quegli sforzi impotenti, in quei desolanti pensieri di prima. Valeva meglio attirare sopra di sè il piombo di quelle carabine... e finirla! Fu con tale intendimento che Curzio simulò di volgere a impetuosa fuga dalla parte dell’acqua stagnante.

— Egli ci sfugge! gridò una voce. Fuoco! [p. 129 modifica] E subito dopo i colpi dei moschetti echeggiarono in quella mesta solitudine.

Curzio, colpito da cinque o sei colpi, cadde supino. Non gli rimase che un istante di vita: il tempo di rivolgere un pensiero a sua madre, e un’ultima invocazione al Dio dell’avvenire.

Pio IX con un movimento istintivo gettò con una mano la penna, e coll’altra respinse la cartella col foglio. — Pag. 136.

Quando i soldati giunsero al luogo dov’era caduto lo trovarono cadavere.

Le trame tenebrose del principe Rizzi e del suo sicario avevano ricevuto il loro compimento. [p. 130 modifica]

Era vicina la notte: pochi soldati rimasero a far guardia al morto che si sarebbe trasportato l’indomani. Gli altri ritornarono in città.

Dopo la mezzanotte un soldato boemo stava di sentinella presso il cadavere, mentre i suoi compagni dormivano avvolti nei loro pastrani sotto un riparo di frasche. Stanco e un poco avvinazzato, egli andava sonnecchiando, finchè postosi a sedere sopra un sasso si lasciò vincere da quel torpore, che è una cosa di mezzo fra il sonno e la veglia.

Il buon boemo vagava da qualche istante in quella indecisa regione che sta fra i sogni e la vita reale, quando è svegliato del tutto da un rumore indistinto: spalanca gli occhi, balza in piedi, e vede vagamente in quell’ombra un braccio del morto alzato che ricade, e nello stesso tempo sente qualche cosa strisciar via tra l’erbe del terreno e le frasche.

Restò colpito da un improvviso terrore. Le fole superstiziose da cui fu cullata la sua infanzia diventano in quel momento realtà spaventose; vuol gridare e non può, vuol camminare, e non lo reggono le gambe. Trema come per freddo, e gli battono i denti.

Quando venne il caporale per toglierlo di sentinella, lo trovò in quello stato, fu deriso da tutti come pauroso, e alla mattina fu portato all’ospedale con una febbre gagliarda.

Quegli che produsse la disgrazia del soldato boemo fu Giano. Egli aveva promesso al principe un segno palpabile del suo trionfo. Curzio teneva al dito un anello, dal quale non si era mai diviso, perchè era un ricordo della principessa, e Giano lo sapeva, perchè una volta egli stesso aveva recato quel dono. Egli pensò dunque di portare al principe quel contrassegno.

Ronzando intorno al luogo dell’uccisione, approfittò della dormiveglia di quel soldato per avvicinarsi al cadavere, e strappargli dal dito l’anello, fuggendo subito carpone per terra, mentre la sentinella, allibita dallo spavento, divenne incapace di muoversi e di gridare.

Quando fu sotto il raggio della luna, guardò l’anello per riconoscerlo. Era ben quello; e di più, era tutto macchiato di sangue rappreso: ciò gli accresceva valore!


Note

  1. Così chiamano nell’agro romano quei ripari di legno, dove si sta al sicuro dalle offese dei bufali e dei cavalli sciolti.