I giuochi della vita/Per la sua creatura
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PER LA SUA CREATURA.
Suonarono.
La piccola signora V***, che stava in cucina accomodandosi un cappello, o meglio guarnendo un cappello d’inverno con le piume ed il nastro d’un cappello d’estate, s’alzò in fretta in fretta, si tolse il grembiale ed andò ad aprire. Sulle prime, fra il buio dell’ingresso e quello della scala, non distinse bene se la lunga persona, che aveva suonato, fosse uomo o donna; poi udì una voce gutturale che chiedeva “la signora V***?„ vide un mantellone nero, una pellicciona nera, un cappellaccio nero tirato sugli occhi, un paio d’occhiali: le parve che la persona fosse un uomo vestito da donna ed ebbe paura. Ma subito sorrise fra sè. Un ladro? In casa sua c’era poco da rubare: non c’era neppure quella perla che si chiama la serva.
— S’accomodi.... — disse con voce franca, aprendo tutta la porta, con quella sicurezza serena, che è il miglior patrimonio dei nullatenenti.
Solo nel salottino da pranzo, che serviva anche per ricevere, la signora V*** s’accorse che la visitatrice era una donna, e neppure brutta, e neppure vecchia.
— Sono io la signora V***. S’accomodi.
— Vorrei parlarle.... — disse la straniera, e sebbene nel salottino non si soffocasse, si tolse il mantello, gettandolo sulla spalliera della sedia. Sullo sfondo marrone del raso che foderava il mantello ella appariva elegantissima, sebbene non più giovine, in un abito inglese perfetto. Aveva le mani pìccole, strette in guanti di pelle grigia, brillanti alle orecchie e sul cappello una lunga coda d’un uccello raro. E la sua piccola bocca stretta, sdegnosa, finiva di rivelare in lei la gran dama avvezza al comando.
La signora V***, la quale, bisogna avvertire, non aveva ancora venti anni, la guardava con ammirazione, stupita che una sì gran dama si trovasse in casa sua. La straniera osservava l’ambiente umile, la personcina diafana, il volto pallidissimo, le mani rosse della piccola signora e sembrava se ne trovasse perfidamente soddisfatta.
— Senta: — disse con voce gutturale e gorgogliando le sillabe in gola — vengo a darle notizie della sua bambina.
La signora V*** alzò vivamente la testa, arrossì e poi si fece ancor più pallida dì prima.
— Non si spaventi: notizie buone! Io sto tutto l’inverno ad Albano. La balia della sua bimba è la figlia del mio giardiniere....
— Ah! — gridò la signora V***.
Che tenerezza, che gioia, che dolcezza, che amore vibrarono in quel grido! Ella avrebbe voluto baciar il lembo del mantello della straniera, solo perchè la straniera aveva per giardiniere il padre della balia.
E la straniera cominciò una specie d’interrogatorio.
— È da molto che non vede la bimba?
— Da due mesi.
— Perchè non allatta lei?
— Allattavo; ma son così anemica che ho dovuto smettere.
— Perchè non prese la balia in casa?
La giovinetta guardò la dama con gli occhioni grigi dolenti spalancati, come per dirle: Eh, per lei che ha quel mantello lì.... mantello che lo stipendio d’un anno di mio marito non basterebbe a comprare.... per lei tutto è facile; per noi, se sapesse!
— Le balie qui costano! Noi non siamo ricchi: per pagare la balia abbiamo mandato via la serva.
— E come fa senza serva?
— C’è una donna che mi fa la spesa; il resto lo faccio io.
— Suo marito è impiegato?
— Ma sì! Era impiegato alle poste e telegrafi; cento tredici e novantatrè al mese. Che altro voleva sapere? Anche quello che dovevano mangiare quel giorno?... Oramai la signora V*** cominciava a seccarsi della curiosità indiscreta della straniera. Finalmente la dama si decise a dire il suo nome, un nome ostrogoto che la signora V*** provò a ripetere fra sè, senza riuscirvi.
— Ecco: — disse poi la straniera, — vuole molto bene alla sua bambina?
I dolenti occhioni grigi si spalancarono di nuovo. Erano domande da farsi quelle?
— E lei di bambini non ne ha? — chiese arditamente la piccola signora.
— No.
Si capiva allora la strana domanda.
— Se le voglio bene! Ah, non si può dire, cara signora! Non si può dire! Non si può!... E’ un affetto, quello pei figli, che supera ogni cosa, ogni parola.
La dama strinse la bocca, la piccola bocca sdegnosa, e parve contrariata, più che dalle parole, dall’accento commosso della giovine madre. Ma disse:
— Ha ragione. Eppoi la sua bambina è così carina: io la vedo ogni giorno: la balia la conduce a spasso nel mio giardino. E la piccina mi conosce: quando mi vede dà dei piccoli gridi: io metto il dito nella fossetta del suo roseo mento ed essa sorride. Sembra un uccellino.
— Oh, Dio mio, Dio mio! — disse la madre, in estasi.
— E suo marito le vuol bene?
— A chi, alla bimba? Ne va pazzo. Forse, prima che venisse, non la desiderava: la vita è già così difficile quando si è in due; ma poi! Ma poi! Nessuna felicità è paragonabile a quella d’aver un figlio, del quale poter dire: mio, suo, nostro! Ah, signora mia!
— Che ne farà di sua figlia?
— Mah.... chi lo sa! È così piccina! Eppure io ho un’idea stravagante.
— Sentiamo.
— Che debba diventare una grande cantante.... Non so perchè ho questa idea. Ad ogni modo un’arte o un mestiere glielo faremo apprendere: oramai una donna che non sa far nulla, non val nulla.
Silenzio. La dama pareva riflettere sull’assioma della giovane madre. Questa pensava al destino di sua figlia.
Finalmente la straniera s’accomodò gli occhiali, sollevò la testa con un gesto da leonessa e disse lo scopo della sua visita. Ecco tutto: ella voleva adottare la bambina dei V***; così la bambina diventerebbe ricca, felice. E i genitori, poichè le volevano tanto bene, dovevano cederla senza fiatare.
E la signora V*** non fiatava davvero, per la sorpresa, e più ancora per lo spasimo che provava al solo pensiero di dover cedere la sua creatura.
La sua creatura! Il suo uccellino! La sua vita! Il suo universo! La sua piccina! Ma quella straniera era matta, matta da legare. La signora V*** l’esaminò bene; ma poi ricordò che la straniera non aveva figli e capì come si potevano fare certe proposte.
— Ne parlerò con mio marito, — rispose, tanto per dire qualche cosa. Poi accompagnò la straniera fino alla scala, augurandole fra sè che, nello scendere, s’impigliasse nel mantellone e rotolasse sino in fondo. Poi rientrò, ma non ricordò più il fornello, la pentola, il cappello; solo si rimise automaticamente il grembiale, ed entrò in camera, s’inginocchiò davanti al gran letto bianco, e cominciò a piangere. Calò la sera: un melanconico raggio di luna penetrò di sbieco per la finestra, ed il letto, sul cui candore disegnavasi l’ombra arabescata delle cortine, fu tutto coperto da una tenue luminosità d’oro. La giovane madre si rivide su quel letto, con la sua bambina a fianco; e la bambina sorrideva fra sè, il primo sorriso, come devono sorridere gli angeli. Nessun’altra manifestazione di bellezza umana, nessuna aurora di primavera, nè il sorgere del sole dai mari, nè il tramontar della luna sulle montagne, erano belli come quel sorriso di creatura appena nata, come quell’alba di vita.
Il signor V***, giovine, biondo e magro, nel ritornar dall’ufficio trovò sua moglie che piangeva, col capo appoggiato sul letto.
— Che hai? — gridò spaventato. — Perché sei lì al buio? Perché piangi?
Ella s’alzò.
— Senti. È venuta una signora, una ricchissima signora straniera. Vuole la nostra bambina: la adotterà. Gliela dobbiamo dare.
Il marito rise.
— Tu sei matta! E quella è matta!
— No, no, no! — singhiozzò la piccola signora. — Non siamo matte: è la verità. La signora vede sempre la bimba, perchè la balia è figlia del suo giardiniere, e sta ad Albano, e la riconosce, e sembra un uccellino....
— Cosa? cosa? — gridò il marito intontito.
— La signora sembra un uccellino? O il giardiniere....
— No, no, no! — interruppe la piccola signora. — La nostra bambina, il nostro uccellino.
E continuando a piangere spiegò meglio le cose, e concluse dicendo che, per il bene della bambina, dovevano cederla.
Allora il marito s’irritò sul serio.
— Cederla! — gridò.— Come un sacchetto di carbone, come un paio di stivali! Ma tu sei pazza! Ma non credevo che tu fossi così matta!
E continuò a gridare, e insultò la moglie, dicendole che voleva vender la sua creatura, per poter un giorno sfruttarla, ed aggiunse: — Quando torna la vecchia strega, io la getto giù per le scale, spingendola a pugni, a pugni, a pugni!...
Poi uscì sbattendo la porta.
La signora, nonostante gli insulti crudeli e ingiusti del marito, cessò di piangere, accese il lume, tornò in cucina. Le pareva di rivivere; era così felice!
Ma poco dopo egli tornò: ella trasalì e si turbò, tanto egli era cupo, livido, disfatto.
— Senti: — disse egli — tu hai ragione. Non bisogna essere egoisti; per il suo bene dobbiamo cederla (disse proprio l’orribile parola). Noi ce ne faremo un’altra.
E rise; e anclie la giovine madre rise; ma il loro riso pareva sogghigno di scheletri.
*
— Che hai, che hai? — chiese il marito, mentre ella si svegliava tremando. — Perchè ridevi? che sognavi?
— Ah, mio Dio! — ella disse, aprendo i grandi occhi grigi dolenti. — Sognavo una cosa orribile. Questo, questo e quest’altro.
E raccontò il sogno fatto, con tutti i più minuti particolari. Poi fece la solita osservazione:
— Di’, come è bello svegliarsi dopo un brutto sogno!
Egli sorrise, poi domandò:
— Ma, se la cosa avvenisse realmente, tu, dimmi, piccina, ti comporteresti come hai fatto nel sogno?
Ella si sentì struggere alla sola idea che un sogno tanto orribile potesse avverarsi, ma rispose coraggiosamente:
— Sì!