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V VII
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VI.


     In popol da civili ire diviso
Speranza poca è di salute, allora
Che sol gagliarde fervono le incaute
1235Anime giovanili, intente a còrre
Bella, sognata, non possibil palma,
Mentre della canizie intorpidito
Vacilla il senno, sì che norma e freno
Agli audaci inesperti alcuna sacra
1240Fronte non sorge di guerriero antico.
     Mancanza tal di celebrato prode
Che vero prode alla sua patria splenda,
Nel colmo avvien de’ tralignati tempi,
E lunga indi stagion regna di pazzo,
1245Sanguinoso dominio e d’anarchìa,
Moltiplice opra di fanciulli eroi,
Fintanto che spossati e fatti vili
Piegano il collo a tranquillante giogo.
     Non a tal segno eran corrotti i giorni
1250Di Saluzzo ch’io canto, abbenchè tristi.
Gioventù inferocìa, ma valorosi
Vecchi brillavan sui crescenti ingegni
Per nobil fama di bontà e prodezza.
     Fra tai canuti un prence grandeggiava,

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1255E Giovanni era, l’invincibil sire
Dell’alte torri di Dogliani. Ei nato
All’avo di Tommaso era fratello,
E niun de’ feudatarii dominanti
S’agguagliava a Giovanni in virtù schiette
1260D’amico e padre e leal servo a quelli
Che abbisognavan di consiglio, o scampo.
In dì lontani ei superava i mille
Cavalieri compagni in patrie pugne,
Ed in pugne oltremar, sotto il vessillo
1265De’ campioni di Cristo: or men robusto
È il braccio suo, ma pronta sempre e forte
La intelligenza e immacolato il core.
Grande è la fè del venerato prode
Pel suo nipote or prigionier, ch’egli ama
1270Siccome dolce padre ama il suo figlio,
E ad un tempo siccome un pio guerriero
Ama il signor cui vassallaggio debbe.
     Giovanni con baroni altri devoti
A ghibellina parte ed a Tommaso
1275S’adopravan solleciti, sì ch’oro
Adunar si potesse e adunar gemme,
Al fine urgente di comporre il chiesto
Spaventoso tesoro, onde al marchese
E a sua progenie libertà riedesse.

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     1280Un dì alle sale di Dogliani aveva
A non lieto convito egli parecchi
Fervidi amici accolto, a consultarsi
Coi lor fidi intelletti e a stimolarli,
Prodigando con bello accorgimento
1285Lodi e parole di speranza e preghi.
Dopo la mensa i congregati forti,
Nel bollor de’ pensieri e de’ colloqui,
Facean di voci rintronar le auguste,
Adornate di ferri, alte pareti,
1290Allor ch’entrò il valletto d’armi, e nunzio
Fu dell’arrivo d’Eleardo.
                                                    Al nome
D’Eleardo s’aggrottano le ciglia
De’ ghibellini.
                             — Ingresso entro tue mura
Darai, Giovanni, all’arrogante guelfo?
     1295— Venga il fellon. Certo, Manfredo il manda:
Udirlo giova.
                             Non sapeano alcuni
Infra quei generosi fremebondi
Ch’Eleardo si fosse un di coloro,
I quai, vedute l’ultime rapine,
1300Disperata battaglia avean con gloria,
Benchè indarno, arrischiato entro Saluzzo.

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     Ei nella sala addotto vien. Severo
Salutevole cenno appena a lui
Movon gl’irati ghibellini.
                                                   — Donde
1305Tu, guelfo, a me?
                                      — Sir di Dogliani, al cielo
Piacque arricchir le avite mie castella
Di non lieve tesor. Vedi tal borsa
E orïentali perle ed adamanti,
Che saranno alcun che, perchè s’affretti
1310Dell’infelice signor mio il riscatto.
     — Che veggo? Agli occhi miei creder poss’io?
Tu che a Manfredo! . . .
                                           — A lui sacrato ho l’armi
Credendol pio liberator; lo vidi
Menzognero e tiranno, e gli ho disdetto
1315Il non dovuto mio servigio.
                                                          Ai torvi
Cavalieri asserenansi le fronti:
Esultan, cingon l’arrivato prode,
Gli stringono la destra, e per quegli ori
Da lui recati, soverchiare omai
1320Veggion quanto al riscatto era mestieri,
E benedicon Dio.
                                    Quel dì medesmo

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Andò il sir di Dogliani al regio campo;
La libertà ricomperò del prence
E de’ figli di lui; volaron messi
1325A Cuneo, a Pinerolo: e nel seguente
Giorno redenti uscirono il felice
Padre dai torrïon che il Gesso bagna,
E dall’altra fortezza i giovinetti,
E si rïabbracciàr con dolce pianto;
1330E dal suolo natìo trasser raminghi
Con Riccarda all’Insùbre ospital reggia.
     Gli esuli amati accompagnò Giovanni
Con altri pochi; e fra costor v’avea
Un cavalier cui nascondea il sembiante
1335Ferrea visiera. Di Dogliani il sire
Narra per via a Tommaso, onde l’estrema
Voluta somma gli venisse. Il prence
Chiede ove sia il benefico Eleardo;
E il pro’ Giovanni sottovoce: — Vedi
1340Quel cavalier che le sembianze cela,
E accostarsi non osa: egli è Eleardo.
Sino a’ confini ei t’accompagna, e poscia
Rieder vuole a sue torri, e mantenervi
L’insegna tua ed apparecchiarti aiuti
1345Pel dì che il ciel te chiamerà a vittoria.
     Serbar silenzio non potè il commosso

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Esul marchese, e, volto il palafreno,
Ad Eleardo s’accostò, e per nome
Chiamandol con affetto, — A te perenni
1350Sien grazie, disse; or mi si svela quanto
Debitor ti son io.
                                      Balzar di sella
Volle e prostrarsi il giovin, ricordando
La frenesìa che inimicollo al sire.
Ma smontò questi insieme, e lo rattenne
1355Con vivo amplesso, e intorno al cavaliero
Venner anco Riccarda e i dolci figli,
Mercè rendendo, che senz’esso lunga
Durar potea la prigionìa tuttora.
     Più da temersi non parea Tommaso
1360A’ nemici frattanto, e sovra lui
Liete canzoni alzavano beffarde.
Ma tacquer le canzoni indi a non molto
Al grido inaspettato, esser Tommaso,
Non nella reggia de’ Visconti, in vana
1365Mestizia ed in abbietti ozi sepolto;
Bensì già di colà rapidamente
Tornato a’ gioghi saluzzesi, in mezzo
A falange d’armati, inalberando
Il vessillo di guerra.
                                           Allor Manfredo

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1370Sovra il suo seggio impallidisce, e copre
Il timor collo sdegno, alto sclamando:
     — La prima volta i dì sparmiammo al tristo;
In nostre mani or riede, e, qual lo merta,
Guiderdon di sua audacia avrà la scure.
     1375Solleciti provveggono Manfredo
E il sir del Balzo al moversi di lance
Che di Tommaso sperdano i fautori,
E s’odon rinnovar le invereconde
Del patrio ben promesse. Odonsi voci
1380D’increscimento onde si dice afflitto
Degli scempii Manfredo. Odonsi voci
Di futura clemenza irrevocata,
E di leggi paterne, e di novello
Tribunale integerrimo, e d’onori
1385A chi giovi col senno e colla spada
Al marchese, allo stato, ai sacri altari.
     Uso antico, perenne è di potenze
Su rapina fondate, allor che spunta
Il giorno del periglio, il serrar l’ugne
1390Sovra l’oppresso volgo e accarezzarlo,
E sfoggiar mire eccelse a sgombrar tutti
Alfìn gli avanzi de’ passati danni.
     Di nuovo suona piucchè mai d’astuti
Stranieri l’eloquenza: essi la mente

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1395San di Roberto; un re sì pio, sì grande
Ne’ benefici intenti, unqua non visse.
Ei vuol felice Italia, ei vuol felici
I prodi Saluzzesi. Attribüirsi
Non denno a lui nè a’ capitani suoi
1400Nè all’ottimo Manfredo i brevi strazi
Recati dalla guerra al marchesato.
Si saneran le cicatrici, e in loco
Della prisca Saluzzo, è già decreta
Sulle rovine sue più vasta e bella
1405E forte una città che degna appaia
Di cotanto dominio, e faccia invidia
Alla rival Taurino. Al guelfo rege
Cosa non è che sì altamente prema,
Come il dispor che a’ piè dell’Alpi sia
1410Il regio feudo Saluzzese un nido
Glorïoso di prodi, atto a far fronte
Ai vicini avversari. Indi i confini
Di questo feudo estendere or si vonno,
Sì che divenga ampia duchea gagliarda,
1415A’ Visconti terrore ed a’ Sabaudi.
     Tal dipintura offerta è dagli scaltri
Alle volgari fantasìe. Nè il lustro
Della reggia di Napoli si tace,
Che l’egual non fu visto, e il portentoso

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1420Incivilir de’ popoli ove impulso
A piena civiltà dona sì forte
Il gran Roberto; il gran Roberto, amico
Di dottrine e bell’arti; il gran Roberto
Che pone il core in luminosi ingegni,
1425E più in Petrarca, uomo divino, a cui
Sulle chiome Roberto in Campidoglio
Metteva fregio d’immortal corona.
E si dice che tosto il re a Saluzzo
Con Petrarca verranne coll’arguto
1430Narrator di Certaldo, il cui volume
Fra le più vaghe istorie annoverati
Ha d’una sposa Saluzzese i vanti,
Onde per tutti d’Occidente i regni
L’alme gentili, in onorar Griselda,
1435Onoran di Saluzzo il caro nome.
     Ed in qual secol e in qual mai contrada
Mancaron voci splendide e robuste
Ad adular la moltitudin cieca,
Schernendo quasi barbara e compiuta
1440La vicenda de’ scorsi anni infelici,
E asseverando ch’ora alfin comincia
L’età de’ veggentissimi intelletti?
Ma tempi v’ha più di prestigio ricchi
Per quest’amabil fola; e simil tempo

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1445Era quel di Roberto e delle tante
Suscitate degl’Itali speranze,
Ch’indi la morte di quel re disperse.
     Tai brillanti menzogne avriano forse
Illuso ancor le Saluzzesi valli,
1450Se a governar l’esercito severa
D’un retto capitan si fosse stesa
La destra allor, frenando de’ guerrieri
L’esecranda licenza. Al siniscalco
Tanta giustizia non premea; invocata
1455Venìa talor, ma indarno da Manfredo
Ambo imperar voleano, e il Provenzale
Non consentìa che un suo guerrier giammai,
Per quante iniquità sui vinti oprasse,
Colpevol fosse detto e avesse pena.
     1460Del supremo stranier la tracotanza,
E quindi le ribalde opre di mille
Armati suoi sovra l’inulta plebe
Qui riprodusser quel furor, che visto
S’era in Sicilia poco innanzi, quando
1465Per l’isola scoppiàr vespri di sangue.
Se non che men secreti i Saluzzesi
Scorger lasciaro improvvidi le trame,
E più avveduti e unanimi vegliaro
Gl’investiti oppressori alla difesa.

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     1470Tace il mio carme i varii assalti e i varii
Destini delle insegne ora fuggiasche
Or vincitrici. Sempre a’ ghibellini
Anima principale era il Dogliani,
Come già tempo il Procida a sue terre,
1475E fra i ministri al suo comando egregi
Splendea per senno e per virtù Eleardo.