I Robinson Italiani/Capitolo XIV

XIV - Miele e patate dolci

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Capitolo XIV


Miele e patate dolci


Quell’animale che voleva defraudare lo Sciancatello del miele, era grosso quanto un cane di Terranova, ma più basso di zampe, col muso un po’ appuntito e il pelame nero e lucidissimo.

Rassomigliava in tutto agli orsi neri, ma era però più allungato e sembrava anche molto più agile.

Appena trovatosi a terra, non cercò di far fronte agli uomini, ma di darsela a gambe nel bosco; il signor Albani però che sapeva con che specie d’animale aveva da fare, con quattro colpi di randello lo fece cadere al suolo, poi levatasi rapidamente una fune, gliela legò al collo, dicendo:

— Adagio, mio caro; abbiamo un recinto nella nostra capanna e vi starai benone. —

In quell’istante si udì l’orang scrollare ancora furiosamente l’albero ed emettere grida di rabbia, poi si udì un colpo sordo che pareva una tremenda bastonata.

Un altro animale, simile al primo, scendeva precipitosamente lungo l’albero e venne a cadere quasi ai piedi del marinaio. Questi credette bene d’imitare il veneziano; con due colpi di randello stordì il disturbatore delle api, quindi lo legò solidamente, aiutato dal mozzo.

— Bravi, amici, — disse Albani. — Un maschio ed una femmina!... Faremo razza e fra pochi mesi avremo anche noi della carne eccellente.

— Ma ci direte che bestie sono, signore, — disse il marinaio.

[p. 92 modifica]— Sono orsi.

— Terremoto! Orsi! — esclamò il marinaio, balzando indietro.

— Hai paura?

— Se sono orsi, ho motivo di spaventarmi.

— Sono inoffensivi, Enrico. Quelli del Borneo e di tutte le isole Malesi, non sono feroci come gli altri. Come vedi, sono più piccoli di tutte le altre specie e quantunque abbiano denti e artigli, non se ne servono quasi mai e sfuggono l’uomo. Questa doppia cattura ci sarà di molto vantaggio, poichè alleveremo degli orsacchiotti che ci procureranno, di tratto in tratto, degli arrosti succolenti.

— E il miele? — chiese il mozzo. — Quel briccone di Sciancatello ce lo divorerà tutto.

— Ah!... furfante! — urlò il marinaio. — Mangia le mie ciambelle. Ehi, Sciancatello!... Scendi, o ti romperò il mio randello sul groppone, brutto ingordo! —

L’orang pareva fosse diventato sordo. Lo si udiva rompere i rami e scuotere le foglie, mentre le api fuggivano a sciami, ronzando. Il ghiottone stava senza dubbio saccheggiando l’alveare.

Il marinaio, furioso, temendo di non poter assaggiare il miele, nè di fare le sue ciambelle, cercava di scuotere l’albero per costringere l’orang a scendere, ma invano.

Il veneziano e il mozzo ridevano a crepapelle.

— Basta, goloso! — continuava a urlare il marinaio. — Scendi o ti mando a raggiungere tua madre con una freccia che ti farà crepare. Scendi, ladrone ingordo! —

Il mias continuava a rimanere sordo a quella tempesta d’invettive e di minaccie e il marinaio s’arrabbiava maggiormente, credendolo occupato a rimpinzarsi di miele.

— Addio, ciambelle, — diceva il mozzo, sempre ridendo. — Questa volta è lo Sciancatello che si mangia il dolce.

— Terremoto di Genova! — tuonò il marinaio. — Gli darò una lezione tale da fargli vomitare tutto il miele!... Gli fracasserò le ossa!...

[p. 93 modifica]— Eccolo che scende, — disse Albani. — Pare che abbia terminato la colazione. —

Infatti lo Sciancatello scendeva attraverso i rami e le foglie, ma senza fretta. Pareva che fosse imbarazzato a portare qualche cosa, perchè con una mano sosteneva un voluminoso pacco.

— Che cosa rimorchia quel gaglioffo? — chiese il marinaio.

— Ci porterà la cera, colla quale faremo delle buone candele, — disse il Piccolo Tonno.

— Gliela farò mangiare dietro al miele!... Non m’importa un fico della cera!... Scendi, canaglia, che t’accarezzerò le spalle!... —

Lo Sciancatello scendeva, ma sempre con gran precauzione tenendo stretto il pacco.

— Il furbo! — esclamò il mozzo. — E poi dicono che le scimmie sono meno intelligenti degli uomini!...

— Perchè? — chiese Enrico.

— Non vedi che ha messo i favi dell’alveare nella tenda che portava a bandoliera?...

— Ehi?... Tò!... Una goccia!... Fulmini!... È miele! —

Il marinaio, che stava sotto l’albero, aveva ricevuto una grossa goccia sul viso e si era accorto che era miele. La sua fronte si rasserenò.

— Che lo Sciancatello sia più onesto di quello che credevo? — mormorò.

Il mias, uscito dai rami, si lasciò scivolare lungo il tronco come un vero ginnasta e giunto a terra aprì la tenda che trasudava miele da tutte le parti.

Era piena di favi, ma non già spremuti del succo delizioso, bensì ancora pieni. Il marinaio fece quattro salti attorno all’albero, poi aprì le braccia e si strinse al petto il peloso scimmione, esclamando:

— Dammi un abbraccio, figliuol mio!... Tu sei la più onesta di tutte le scimmie e di tutti gli orang-outan della terra. —

Lo Sciancatello si meritava quell’elogio, poichè invece di [p. 94 modifica]aver saccheggiato l’alveare per proprio conto, aveva portato i favi intatti ai suoi padroni.

Il marinaio non perdette tempo. Si rimboccò le maniche, si fece dare la pentola e si mise a spremere la cera, facendo uscire larghi goccioloni di miele profumato.

S’accorse ben presto che quel recipiente non bastava a contenere tutto il succo, ma il signor Albani s’affrettò a trovare altri recipienti formando dei coni impenetrabili colle larghe foglie d’un arecche.

Quando l’operazione fu terminata, calcolarono la loro provvista a dodici chilogrammi, detraendo qualche chilogrammo regalato all’onesto Sciancatello e alle due scimmie.

— Quante ciambelle! — esclamò il marinaio. — Capperi!... Ne mangeremo a sazietà.

— Ma non hai pensato ad una cosa, Enrico, — disse Albani. — Come faremo ad attraversare i boschi con questi recipienti?... La montagna è ancora alta, amico mio.

— Fulmini!... Ma io non lascerò qui il mio miele, signore. Gli orsi o le scimmie me lo mangerebbero.

— Lo credo, e poi non possiamo condurre con noi gli orsi.

— Lasciatemi qui e salite voi la montagna.

— Non avrai paura delle tigri?

— Ho la cerbottana e le frecce sono avvelenate.

— Ti lasceremo anche lo Sciancatello; è un buon compagno che sa maneggiare solidamente il suo randello.

— Quando sarete di ritorno?...

— Temo che saremo costretti ad accamparci sulla cima della montagna. Domani all’alba faremo ritorno.

— Sarete capaci di trovarmi?... Potete smarrirvi in questi boschi.

— Conosco il mezzo per dirigermi. Addio, Enrico.

— Buon viaggio, signore. Vi preparerò delle ciambelle intanto e sentirete come saranno deliziose!... Me ne intendo, io! —

Si salutarono un’ultima volta, ed il veneziano ed il mozzo si rimisero in cammino lasciando al marinaio anche le due [p. 95 modifica]scimmie poichè, non essendovi più il randello dell’orang, potevano approfittare per fuggire.

Il signor Albani, pur camminando rapidamente, aveva la precauzione di fare di quando in quando, delle incisioni sui tronchi degli alberi, ma sempre su quelli alla sua destra. In tal modo non correva più il pericolo di non ritrovare, nel ritorno, la via percorsa.

Il terreno cominciava a salire, ma era sempre coperto da folti cespugli, da grandi macchie d’alberi che avevano delle foglie smisurate e interrotto di tratto in tratto da enormi massi di natura vulcanica e da fenditure profonde che dovevano servire di letto ai torrenti, durante la stagione piovosa.

Su quei pendii abbondavano le piante gommifere, per lo più isonandra gutta i cui tronchi, incisi, danno una materia attaccaticcia simile al caucciù.

Il signor Albani però, che guardava attentamente tutti i vegetali, scoprì alcuni alberi molto preziosi per loro, poichè potevano surrogare il pane fatto col midollo delle arenghe saccharifere.

Erano dei buâ kaluwi, così chiamati dai Malesi, ma che i botanici conoscono col nome di artocarpus incisa, alberi che producono delle frutta grosse, prive di semi, contenenti una polpa giallastra che ha il sapore di certe specie di zucche.

Più sopra ne scoprì altre appartenenti alla stessa specie, ma assai più produttive. Erano i buâ naglesa o artocarpus integrifolia, meglio conosciuti col nome di alberi del pane, piante grandissime che producono le frutta più grosse di tutti i vegetali, rotonde, coperte di scaglie puntive e così pesanti, che due uomini non sempre riescono a portare un solo frutto.

— Se ce ne piomba una sul cranio, lo schiaccia come una nocciuola, — disse il mozzo. — Non ho mai veduto frutta così grosse, signor Emilio.

— Ci faranno sudare per portarle alla capanna, Piccolo Tonno, — rispose il veneziano.

[p. 96 modifica]— Contate di venire a raccoglierle?

— Certo.

— Sono adunque eccellenti?

— Hanno il sapore dei fondi del carciofo e quella polpa, cucinata sui carboni, può supplire il pane.

— Ma non si conserverà.

— I polinesiani la conservano, pigiandola entro buche scavate nel terreno, ma prende un sapore acidulo non però sgradevole a chi riesce ad abituarsi.

— Ma ci vorrebbero dei facchini, per portare fino alla spiaggia tutte quelle frutta.

— Se non avremo dei facchini, avremo degli animali e un carretto, spero.

— Un carretto?...

— E perchè no?...

— Ma chi lo tirerà?... Le scimmie, forse?...

— Chi?... Ho notato parecchie orme di babirussa e se riesco a prenderne due, vedrai che ti farò andare in carro, mio Piccolo Tonno.

— Ma voi volete procurarci mille comodi, signore.

— È la mia idea. Orsù, continuiamo la marcia o giungeremo tardi sulla vetta. La montagna è ancora alta assai. —

Ripresero l’ascensione attraverso a quelle selve che diventavano sempre più difficili e più intricate, recidendo gli smisurati rotangs che formavano talvolta delle reti impenetrabili e fugando grandi bande di volatili e specialmente di podargus, bruttissimi falchi colla testa grossa, il becco corto e largo come una bocca, la testa coperta di pochi ciuffi di peli e le penne del corpo bigie a screziature nere.

Anche qualche aquila audace, uccellacci grossi come tacchini, armate di robusti artigli, colle larghe ali nere ed il dorso rossastro variegato di nero, volavano via emettendo acute grida.

A mezza costa s’imbatterono in numerosi drappelli di scimmie, occupati a saccheggiare gli alberi fruttiferi. Ve n’erano di varie specie, ma erano talmente selvatiche, che [p. 97 modifica]fuggivano rapidamente appena scorgevano i due naufraghi, celandosi nei più fitti nascondigli della foresta.

Si scorgevano bande di ducs, scimmie colla coda lunga, la faccia piatta, i piedi neri e le orecchie invece color carne viva; delle lawados dalla faccia priva di pelo, color rosso fino a metà, colla testa coperta da una specie di parrucca fatta di peli grigiastri e molto folti; delle scimmie dal naso lungo e grosso e parecchie altre che il veneziano non poteva ben distinguere perchè fuggivano troppo rapidamente.

Alle quattro, mentre stavano per riposarsi all’ombra d’un arecche, il signor Albani additò al compagno una pianta poco alta, munita di larghe foglie d’un bel verde, dicendo con voce allegra:

— Ecco una scoperta preziosa. Finalmente avremo una piantagione!...

— È una pianta di tabacco, forse? — chiese il mozzo. — Quale fortuna per Enrico, che non sogna che pipe e sigari!...

— Non è tabacco, ma qualcosa di meglio: scava! —

Piccolo Tonno estrasse il coltello e si mise a scavare la terra attorno alla pianta, con infinite precauzioni. Poco dopo metteva allo scoperto un tubero assai grosso, pesante un buon chilogrammo e che rassomigliava ad un pomo di terra.

— Cos’è questo? — chiese egli, sorpreso.

— Un ubis, — rispose Albani.

— Non vi comprendo.

— Una patata dolce.

— Lave del Vesuvio!... Una patata!...

— E delle migliori, ragazzo mio.

— La metteremo a cucinare sotto la cenere.

— Niente affatto, goloso. La conserveremo, dissoderemo un pezzo di terra e fra tre o quattro mesi faremo la nostra raccolta.

— Sperate di trovarne altre?...

— Ne sono certo, Piccolo Tonno. Avanti, e giriamo intorno gli sguardi. —

[p. 98 modifica]Il mozzo si mise nella borsa il prezioso tubero e ripresero le mosse guardando a destra ed a manca.

Tre ore dopo giungevano sulla vetta della montagna, carichi di altri sette ubis che avevano scoperto sotto la boscaglia.