I Mille/Capitolo XXXVII

Capitolo XXXVII. Il 7 settembre

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Capitolo XXXVII. Il 7 settembre
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CAPITOLO XXXVII.

IL 7 SETTEMBRE.

Io quelle stesse vie, già solcate dal trionfo ove i regi eran dal mondo trascinati ai carri dei superbi Quiriti!

Quand plus neureux jadis
     Aux charaps de Partenope
     Mes jeunes miliciens ont étonné l'Europe
     Essuyant leurs pieds nus sur les tapis des rois.
      (Autore conosciuto).


Il 7 settembre 1860! E chi dei figli di Partenope non ricorderà il gloriosissimo giorno? Il 7 settembre cadeva un’abborrita dinastia e sorgeva sulle sue rovine la sovranità del popolo, che una sventurata fatalità rende sempre poco duratura.

Il 7 settembre un proletario accompagnato da pochi suoi amici che si chiamavano aiutanti col solo distintivo della rossa camicia, entrava nella superba capitale del focoso destriero1 acclamato da cinquecento mila abitanti, la di cui scossa potrebbe muovere l’intiera penisola dal Mongibello al Cenisio — il di cui ruggito baste- rebbe a far mansueti e meno ingordi i reggitori insolenti ed insaziabili, od a rovesciarli nella polve! [p. 189 modifica]Eppure il plauso ed il contegno di quel grande popolo valsero nel 7 settembre 1860 a mantenere innocuo un esercito numeroso che trovavasi ancora padrone dei forti e delle migliori posizioni della città, di dove avrebbe potuto distruggerlo.

Il Dittatore facea la sua entrata in Napoli, mentre tutto l’esercito meridionale malgrado le marcie forzate, trovavasi ancora ben distante verso lo stretto di Messina, ed il re di Napoli nella notte dal 5 al 6 abbandonava il suo seggio per ritirarsi a Capua. Il nido monarchico ancor caldo venne occupato dagli emancipatori popolani, ed i ricchi tappeti delle reggie furon calpestati dal rozzo calzare del proletario. Esempi questi che dovrebbero servire a qualche cosa, almeno al miglioramento della condizione umana; ma che non servono per l’albagia e la cocciutaggine degli uomini del privilegio, che non si correggono nemmeno quanto il leone popolare spinto alla disperazione, li sbrana con ira selvaggia, ma giusta, esterminatrice!

I Napoletani come i Siciliani, non secondi a nessun popolo per intelligenza e coraggio individuale, furon quasi sempre mal governati, e sventuratamente molte volte con sul collo dei governi stranieri, che solo cercavano di scorticarli e mantenerli nell’ignoranza.

Ai pessimi governi devesi quindi attribuire il poco progresso in ogni ramo di incivilimento e di prosperità nazionale.

E questo governo sedicente riparatore, fa egli [p. 190 modifica]meglio degli altri? Egli poteva farlo! doveva farlo! Ma che! nemmen per sogno; coteste ardenti e buone popolazioni che con tanto entusiasmo avean salutato il giorno del risorgimento e dell’aggregazione alle sorelle italiane, sono oggi..... sì, oggi ridotte a maledire coloro che con tanta gioia un giorno chiamaron liberatori!

I giorni passati in Napoli dopo l’ingresso furono consacrati ad organizzar una prodittatura con a capo il venerando Giorgio Pallavicino, quindi a preparare l’esercito meridionale all’offensiva ed alla difensiva, poiché i Borbonici coadiuvati dalla reazione europea, ingrossavano al di là del Volturno.

Frattanto ogni sollecitudine era spinta sino al ridicolo dagli aspiranti al merito di propaganda e d’intrighi per la monarchia-messia, cioè sabauda, i quali avean usato i più ignobili e gesuitici espedienti per rovesciare Francesco II e sostituirlo.

Tutti sanno le mene d’una tentata insurrezione che dovea aver luogo prima dell’arrivo dei Mille, e per togliere loro il merito di cacciar i Borboni, cosa che poteva benissimo eseguirsi, se la codardia non fosse l’appannaggio dei servi.

Non ebbero il coraggio d’una rivoluzione i sabaudi fautori, ma ne avean molto per intrigare, tramare, sovvertire l’ordine pubblico con delle miserabili congiure, e delle corruzioni tra i mal fermi servi della dinastia tramontante. — E quando nulla avean contribuito negli ardui tempi [p. 191 modifica]della gloriosa spedizione, oggi che si avvicinava il compimento dell’impresa, la smargiassavano da protettori nostri, sbarcando truppe dell’esercito Sardo in Napoli (per assicurare la gran preda s’intende), e giunsero a tal grado di protezionismo da inviarci due compagnie dello stesso esercito il giorno dopo la battaglia del Volturno, cioè il 2 ottobre.

Era bello veder i regi settentrionali usar ogni specie di fallace ingerenza, corrompendo l’esercito borbonico, la marina, la corte, servendosi di tutti i mezzi più subdoli, più schifosi, per rovesciare o meglio dare il calcio dell’asino a quel povero diavolo di Francesco — che finalmente era un re come gli altri, con meno delitti, senza dubbio per non aver avuto il tempo di commetterne, essendo giovane ancora — e rovesciarlo e sostituirvisi e far peggio!

Sì, era bello il barcarnenare di tutti que’ satelliti, diplomatizzando col re di Napoli, facendola da alleati suoi, cercando di condurlo a trattative paterne, con promettergli forse, che ci avrebbero proibito di passare il Faro, d’accordo col Bonaparte, come già accennavamo, con un vascello francese nello stretto, e la marcia celere dell’esercito settentrionale verso il mezzogiorno2, ed infine attorniandolo d’insidie e di tradimenti.

Oh sì! se non avessero tenuta per tanto [p. 192 modifica]preziosa la loro brutta pelle, essi potevano facilmente compiere una rivoluzione e presentarsi all’Italia come liberatori.

Che bella cosa se potevano far stare con tanto di naso i Mille, e la democrazia italiana tutta!

Ma sì! sono i bocconi fatti che vi piacciono, signori liberatori dell’Italia a grandi livree! e quanti fastidi non dovete aver avuti in quello splendidissimo 7 settembre, di udire la più grande delle moltitudini italiane, acclamare altri e non voi — e se la voce di qualche ingannato o di creatura vostra, vociferava il vostro nome, voi certo sentivate nella miserabile vostra coscienza di non averlo meritato.

Anche a Palermo, com’era naturale, tramavano i fautori della monarchia sabauda e gettavano contro i Mille la diffidenza tra la popolazione, spingendola ad un’annessione intempestiva.

Essi mi obbligarono di lasciar l’esercito sul Volturno alla vigilia di una battaglia per recarmi nella capitale della Sicilia a placare quel bravo popolo, suscitato dai cavouriani agenti.

Assenza che costò all’esercito meridionale la sconfitta di Caiazzo, unica in tutta quella gloriosa campagna, che scosse alquanto il prestigio dell’esercito vincitore e rimontò non poco il morale dei borbonici.



Note

  1. Emblema di Napoli.
  2. Non scordi il lettore il dispaccio di Farini a Buonaparte: «Noi marciamo con quarantamila uomini, per combattere la rivoluzione personificata, cioè i Mille» .