I Mille/Capitolo XXXVI
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CAPITOLO XXXVI.
LA VITTORIA.
La vittoria è sul brando del forte |
Nella guerra bisogna vincere, e certo il più grande dei generali è quello che più vinse. Sarebbe meglio la pace, ed io ne sono un discepolo. Ma quando si hanno i ladri in casa, ed i preti, puossi stare in pace con loro?
Dacché cominciai a pensare, io mi feci il seguente ragionamento: Non sarebbe meglio che gli uomini cercassero d’intendersi fraternamente sulle loro controversie senza uccidersi?
Ma potevasi ciò in Italia, chiamata giardino di Europa, mentre questo giardino, ove i suoi abitanti sudavano per vivervi, doveva servire di villeggiatura a quanta canaglia produceva l’universo, che vi si metteva di casa, e senza nessun lavoro voleva vivere splendidamente a spese dei poveri italiani? E tutti vi trovavano vita doviziosa, mentre chi lavorava il giardino col sudore della fronte, aveva oltraggi, bastonate, e vi moriva dalla fame!
Guerra dunque per metter i ladri fuori di casa! Guerra! E qualche volta sconfitti — ma finalmente beati dal sorriso della vittoria, e da quello preziosissimo delle nostre donne, non contaminate al contatto di mascalzoni stranieri! Sconfitti!.... sì, quando i mali semi della tirannide e del prete, dopo d’aver pervertito, corrotto la nazione, la dividevano in tante parti, ciascuna delle quali troppo debole contro i prepotenti, ed incapace di sostenere l’onor nazionale calpestato.
Così divise le popolazioni nostre, lo eran poi ancora nelle singole loro frazioni, tra volenterosi, indifferenti e birbanti. — Trovandosi i primi in numero minimo, sicchè calunniati, traditi, venduti, finivano per essere espulsi o schiacciati dai ladri.
E quando dico ladri, io non intendo soltanto i ladri di un pane, o d’un grappolo d’uva, ma i grandi ladri, quelli che rubano i milioni collo specioso pretesto di difesa nazionale, i chercuti che rubano al povero popolo l’obolo di S. Pietro per saziare i loro vizi ed assoldare mercenari stranieri; infine i grandissimi ladri che dopo di aver rubato una provincia od uno stato, ne coonestano il furto colla durata del dominio, e colla grazia di Dio, commettendo così il doppio delitto del furto e del sacrilegio!
Amico della pace, è vero, io sono, e me ne vanto. — Comunque, una vittoria sui mercenari del dispotismo, è una gran bella cosa! — La campagna è cospersa di membra; le zolle sono vermiglie di sangue, le grida dei feriti ed il rantolo dei morenti vi assorda. — I cadaveri insepolti, o coperti da strato insufficiente, appestano l’aria, ed il morbo uccide popolazioni intiere. — Meglio sarebbe un banchetto fratellevole. — Ma chi la corregge questa stirpe di Caino? — Non ha dessa i suoi culti alle sue divinità schifose più o meno, dalla cipolla al vitello? — le sue maestà, i suoi principi, il suo patriottismo che equivale all’egoismo massimo, le sue glorie, l’onore della sua bandiera? — e tante altre miserie fittizie oltre alle naturali? — Ma pera il mondo! siam beati della vittoria!
Usciamo da quest’altro letamaio umano, un po’ meno puzzolente di quello dei preti, ma pur sempre letamaio!
L’esercito meridionale procedeva verso la Partenopea Metropoli, sulle ali della vittoria.
I centomila soldati agguerriti del Borbone non osavan più tener fermo al cospetto degli imberbi avventurieri, capitanati dai superbi Mille Argonauti e fuggivano e le lor masse scioglievansi davanti alle giovani schiere dei liberi, come la nebbia davanti al sole.
Nella nostra storia noi eravamo rimasti sulle alture di Villa S. Giovanni, dopo la resa d’una divisione borbonica che ci lasciò molto materiale da guerra, cannoni, fucili, munizioni, cavalli, ecc.; lo stesso successe a Soveria con altra divisione.
Da Villa S. Giovanni alla capitale della meridionale Italia fu una marcia trionfale. — Le popolazioni stanche dell’abbominevole dominio borbonico, acclamavano e benedicevano i valorosi liberatori.
Alcuni incidenti lungo la strada come quelli di Soveria e di Sorrento altro non mostrarono che lo spavento dei nemici d’Italia, e l’aumento di possanza dei nostri in armi, munizioni, gente e prestigio.