I Marmi/Parte terza/Ragionamento di sogni degli academici Peregrini/Francesco pelacane e Michel sellaio

Francesco pelacane e Michel sellaio

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Francesco pelacane e Michel sellaio
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Francesco pelacane e Michel sellaio.

Francesco. Lasciate dir chi vuole, che l’esser solo è una delle gran passioni che si possiln trovare; non è malattia, prigione, eremo o perdita d’amici e roba e parenti che la paragoni, se l’è solitarietá come è quella che io sognai.

Michele. Me ne fo beffe, s’io non me ne fo capace bene bene. Dite quella grande.

Francesco. Imaginatevi di trovarvi in questo mondo, che non ci sia altri che voi solo, solo, solo.

Michele. Avrei buon tempo.

Francesco. Udite; adagio. Io mi sognava d’esser solo in una cittá, non pensando che tutte fossero cosí, e quivi mi diedi a mettere insieme vestimenti stupendi, ragunai danari, gioie, anella, catene, medaglie, argenterie, lavori stupendi e cose che mi davano un’allegrezza e un contento grande; trovava da mangiar per tutte le case; per tutte le botteghe, composte, confezioni, carne cotta, e d’ogni sorte pasticci e il vino imbottato e il pan fatto; ogni notte andava a dormire in letti non piú da me usati. Oh che mirabil comoditá ritrovava io per tutto! pensatevelo voi! Tutte le casse erano aperte, tutti gli scrigni, tutti i forzieri e ciascuna casa; onde egli era talvolta che, a rimirar le stupende cose che io trovava, io vi stava a torno due e tre [p. 70 modifica] giorni per casa: cavalli per le stalle superbi, cani da caccia, uccelli e altri animali. Per un cinque o sei giorni io me la bevvi, e me ne teneva buono. In questo tempo cominciarono a corrompersi, per le case, infinite materie, i cavalli morirono, gli uccelli e altri animali, perché non poteva, né manco ci pensavo, governar le bestie; il pane si seccò e divenne muffato, i topi cominciarono a esser padroni delle case e altri animali: io, che trovava della farina, il peggio che io seppi, mi diedi a far del pane e cuocerlo. Pensa che bel vedere era un uomo vestito pomposissimamente, carico di collane e d’anella (perché m’ero tutto adobbato) cuocere il pane! Ma questo era un zucchero di sette cotte. In capo a due mesi gli animali si fecero padroni e n’era pien l’aere, la terra, e le case tutte, onde non poteva a pena mantenermi in una. Io cominciai a dar fuoco alle ville, alle terre, alle case. Oh quante belle cose abruciai io! E’ me ne crepava il cuore; pure, pazienza! Poi mangiavo, s’io n’avevo, perché le bestie e infiniti animali devoravano il tutto: io inghiottí’ cose per la mia gola che Dio sa. Io mi ridussi, ultimamente, abandonato il domestico, alla selva con alquanti cani, vacche e pecore e viveva di latte e di castagne; ma i lupi e gli orsi moltiplicaron tanto, le volpi, le serpi e altre bestie, che il mio armento andò in buon’ora, e i cani: appena sopra un torrione mi potetti salvare con difendermi, fuggendo e gridando, con un sacco di marroni: e lá su mi stava e vedeva le bestie padroni della terra. Allora conobbi che l’oro, le perle, gli argenti e i vestimenti non son buoni a nulla, se non tanto quanto pare a chi gli usa; e s’io non mi destava, mi moriva di fame. Un’altra volta mi sognai d’essere un grand’uomo da bene: prima, io temeva Iddio, di tal maniera che mai avrei fatto una minima cosa contro all’onor suo o commesso fraude inverso il prossimo; poi, non riteneva, pareva a me, se non tanto quanto faceva di bisogno al mio vivere, del resto dispensava a chi n’aveva bisogno; ultimamente, piú tosto che litigare, avrei fatto di gran cose e avrei dato via il mezzo e tutto quanto possedevo che venirne in lite. Di questa mia bontá, se bontá e non sciocchezza si può dire che la fusse, s’accorse un [p. 71 modifica] cattivo e sagace garzone; onde fece una scritta che pareva, ancor che la non lusse, di mia mano, e mi fece su quella debitore di dieci scudi, e, portandomela (pensate voi!), me gli chiedé. Io, quando ebbi ben pensato, lo risolvè’ di non gli esser debitore; egli minacciommi di litigi, e io, per non litigare, elessi per minor male il dargli i dieci ducati, e lo pregai, facendomi fare la quitanza di tutto quello che noi avevamo avuto a fare insieme. Un altro ghiottone, che intese questo pagamento, mi giunse con un’altra scrittura; io, che conobbi questa cosa essere una truffa, lo pregai che litigasse con quel primo che da me aveva ricevuti i ducati e, facendolo condennare per truffatore, si pigliasse i danari. Acettette il partito costui, e lo convinse, perché litigò seco; e in questo che egli vuol tôrre i dinari per sé, mi pareva che ’l giudice sospettasse che non fusse truffatore anch’egli; e trovato il suo pensier vero, mi faceva rendere i miei dieci scudi.

Michele. Cotesta fu bella. Oh che sentenza mirabile! Ma piú stupenda sarebbe ella stata a esser visione piú tosto che sogno. Sognasti tu altro di bello?

Francesco. Sognava poi ch’io era diventato poeta e volevo dir tutto il contrario degli altri; e dicendo mal d’una donna, mi parve ch’ella montasse cavalcioni sopra una volpe e mi venisse a tagliare a pezzi, onde mi bisognò schermire tanto che io gli forai la cioppa come un vaglio; cosí la vinsi; ultimamente, gli feci questo sonetto:

     La mia donna ha i capei corti e d’argento,
la faccia crespa e nero e vizzo il petto;
somiglimi le sue labbra un morto schietto
e ’l fronte stretto tien, ben largo il mento;
     piene ha le ciglia giunte e l’occhio indrento,
come finestra posta sotto un tetto;
nel riguardar, la mira ogn’altro obietto
che quella parte ove ha il fissare intento;
     di ruggine ha sui denti e poi maggiore
l’un è dell’altro e rispianate e vòte
le guancie, larghe, prive di colore;

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     ma il gran nason che cola, in fra le gote
cosí sfoggiatamente sponta in fuore
che chi passa s’imbratta, urta e percuote.

Michele. Fu un bel trovato a dir mal di lei e fargli male; ma non istá giá bene.

Francesco. Che male? Io risognai quella istessa notte peggio: parevami d’esser diventato Momo.

Michele. Non fu egli Momo quel che diceva mal di tutti?

Francesco. Momo fu un certo falimbello che sapeva piú i fatti suoi che quei d’altri; e cosí son io: però mi messi a dir d’altri quel poco di male ch’io sentivo dir de’ fatti loro, non a trovar da me di dir male, ma scriver quel che dicevan gli altri.

Michele. Come dire tu eri istoriografo?

Francesco. Copista delle parole d’altri.

Michele. Potresti dire, ciò è, favellava come gli spiritati.

Francesco. Faceva in lettera quello che gli altri fanno a bocca.

Michele. Mostrami la minuta.

Francesco. Eccola: questo era il modo del mio scrivere: «Non mi ricercate se egli ha lettere altrimenti, perché non me ne intendo; s’egli è ricco, non ne son per dir altro, perché mi potrei ingannare in di grosso, perché tali si portano intorno tutto l’avere e tutto il potere. Volete voi altro che una bozza di quello che si dice? Costoro per publica voce vogliano che il fratello sia un’ombra che camini o una fantasma che vadia di notte: il poveretto comparirebbe meglio per banditor della fame che per uomo; se morissi alle suo mani, credo che in una occhiata si vedrebbe tutta la notomia nel suo corpo. La sua putifera gli scusa per interpetre per aver buona lingua; onde non sí tosto se gli dice una parola che la risponde per lui, come faceva il fante di fra Cipolla. Intanto la si lascia intendere, con quella sua pronunzia di papagallo, come egli l’ha giuntata di trecento scudi con il vendergli non so che campi di terra in India Pastinaca o al Cairo che la si voglia dire, [p. 73 modifica] tanto è in quel paese dove egli la levò dagli onori del mondo: per una coppia e un paio e’son dessi. S’io fossi dipintore e volessi dipigner la nebbia, ritrarrei lui a naturale; mai veddi il piú anebbiato; mi venga la morte, se non pare uno stronzolo muffato. Dice una canzona in Firenze:

     Rosso, mal pelo,
che schizza il veleno
di dí e di notte,
che schizza le bòtte.

Noi siamo in dubbio se costui è la Moría, sí ha cera di stitico e d’amorbato; veste come le dipinture, sempre a un modo; se fussi gigante con la persona, come egli è nell’opinione del sapere, sarebbe buono per un cimitero di scomunicati o di giudei. Non gli dar mai altro da mangiare che morti disperati, avelenati o malandrini impiccati, perché e’ mi pare a punto uno stomacuzzo da simil generazione. Oh che bestia a volersi far capo d’una academia de’ piú begli intelletti d’Italia! Noi vogliamo un dí far correre il suo canale acqua lanfa, tante staffilate gli voglián dare. Qua ci sono testimoni di fede che l’hanno veduto predicatore delle piazze; altri credono che fusse il primo cantainbanco di Carcovia, qual dice esser la sua patria; non cerretano, per non esser da Cerreto, non se gli può dire, non essendo di paese, né manco archimista, perché non è affummicato ancor bene: fate voi; una spiritata lo chiamò, vedendolo alla finestra, Scopaprigioni, come s’ella avesse saputo le trappole di quella sua lettera falsa fatta per rubare i soldi a quel monsignore, le truffe delle botteghe... Egli ha tutti i segnali che può avere un tristo: vista babuina, non corta né guercia, perché se ne trovano de’ buoni, ma babbuina, che non ne fu mai alcuno buono; sta a bocca aperta, ciò è aspetta l’imbeccata; è stato spia secreta e birro publico. Del credere, ci sián risoluti che il suo credo e quel de’ moscoviti sia tutto uno. Quanto egli abbia di buono, è che egli digiuna spesso in pane e acqua e se ne va quattro dí della settimana senza cena [p. 74 modifica] al letto; non c’è qua virtuoso alcuno povero che egli non lo abbi fatto ricco in tre dí con le frappe né libraro che non abbi frappato con le trappole né stampatore ristucco con le ciancie. Non vo’ dir che ce ne sieno stati de’ corrivi a dargli capo d’arra per far non so che cose ladre, rapezzamenti di certe leggende o altre pedanterie; ma, perché io ne fui cagione, la metterò a monte, io ne voglio dir una: e’ voleva tradurre in otto mesi tutte le Istorie del Machiavello in latino, la Bibbia cementarla tutta, rifare il Boccaccio, il qual dice esser corrotto e aggiugnere alla lingua, corregger il Furioso in trenta mila luoghi dove mostra star male e che l’autore non seppe, in quei versi, ciò che si dicesse, e traduceva e dichiarava i Comentari di Cesare; e tutta questa poca fatica faceva per cento lire e due ducati e mezzo, e súbito ch’egli le aveva principiate tutte, voleva i baiocchi. Lo stampatore, come uomo di fede, lo faceva volentieri; ma, nel volerne una sicurtá di suo mano, si guastò la coda al fagiano, e va per rima. Non piglierebbe venticinque scudi in dono; manco di mille la sua signoría non degna. Volete voi altro? che gli è venuto in un paese dove si fa la farina del buon grano. Io non guardo mai cenacoli che io non mi ricordi di lui, perché tutti gli spenditori di Cristo hanno duo terzi della suo cera. Io voglio esser profeta: o costui se ne va in fummo col tempo o diventa invisibile o va in aere o gli è nascosto in un fondo di muraglia. Un galante intelletto, sentendolo frappare, disse: — Maestro parabolano, se voi fate una di coteste pruove qua, io son contento di credervi tutto il restante. — Non è si tosto arrivato uno in casa che dice: — Or ora si parte il tale. — E sempre nomina gran personaggi, i quali non sanno pur la casa, non che conoschino la sua signoria. Quando costui capitò in Vienna, fece un bel tratto: si finse amalato e scriveva certe polize a tutti coloro che avevan qualche nome, con dire che desiderava d’esser servitore della lor virtuosa persona, e, dove poteva far loro piacere, si offeriva; e che sarebbe ito a vederli, ma che gli perdonassino, perché era amalato. Le persone domandavano l’aportatore: — Chi è costui? — Oh! — rispondeva il fante — un uomo savio letterato, dotto in [p. 75 modifica] libris grecis, latris, ebraicis et castronagginis . — Cosí, per non parere discortesi, noi altri ce n’andavamo da costui a visitarlo: onde si prese questo gambone, con dire: — Le mie virtú mi fanno corteggiare. — Ed ebbe a dire una volta che ci menava tutti per il naso come si menano i bufoli. Alla fine e’ si sta in quel saione e in quelle calze che presso a tre anni sono non s’è mai cavate; so che i lenzuoli non gli raffreddan le carni; alla romita, schiavina e saccone; una sua cappa legge ebreo, e certe spalliere ch’egli aveva, con brocche antiche, non però di molta valuta, i tapeti a nolo hanno fatto la donna novella, e i panni verdi, che gli sbracciava per apparenza della sua arroganza, tosto bisogna rendergli»1.

Michele. Non piú di cotesto stile; guarda se tu sognasti altro.

Francesco. Parevami d’esser fatto capitano e aver due eserciti, uno nella cittá dentro, a buoni e forti bastioni e l’altro a torno, e gli facevo spesso spesso combattere insieme e stavo a vedere con un bandierone in mano, facendogli azufiare tanto che io gli volevo fare tutti morire.

Michele. Questo ufizio non era troppo da uomo da bene; tu mi riuscivi meglio a scriver male.

Francesco. E a scriver bene era assai migliore.

Michele. Fa che io vegga o oda il tuo stile a dir bene.

Francesco. Son contento. Io mi messi a volere scriver le vite degli uomini, di alcuni, dico, e andare insino all’originale del fondo delle casate loro. Deh, ascolta, della prima che io scrissi, come io mi ci acomodai bene.

Michele. Di’, via, ché io sto saldo; ma non mi riuscire cosí scrittore come capitano.

Francesco. «Sopra tutte le fatiche umane e ogni azione che può operare un uomo in questo mondo, una ne trovo io nobile, onorata ed eccellente e difficilissima: questa, riavere il perduto onore, suscitare l’antica nobiltá di sangue e illustrare con l’acquistate e proprie virtú il secolo presente e di tutte [p. 76 modifica] queste azioni dar fama onorata a quelli che verranno. Di queste grandezze debbono far fede due cose: una, che deriva dai principi, in rimunerar tali virtuosi e le cose illustri in onorargli; ultimo, l’opere stesse di quello che da tanta nobiltá e grandezza è onorato. E tanto piú meritano d’esser esaltati e premiati tali uomini quanto che con i loro studi virtuosi e fatiche onorate danno maggior giovamento e diletto agli altri. Io ritrovo l’antica e nobil casa dei Baccelli avere avuto egregi uomini nella cittá di Campo e per molte civili discordie essere smembrata e quasi destrutta; onde si ritrasse quel poco che restò nelli contadi e per le castella, tal che perde sustanze, grandezze e reputazioni. Ma, come spesso suole avenire, non permessero i cieli tanta destruzione, sí che qualche poco di radice non restasse per far gran pianta in non molto tempo, come s’è veduto per l’opere dell’autor di questa dignissima opera. Che sia il vero quel che io scrivo, ammirino gli uomini la macchina dell’aguglie, spettacol da maravigliarsi e onor publico, considerino la perfezione del Laocoonte, la dolcezza delle figure e la divinitá d’Apollo: quali sieno e quante le perfezioni che vi si ritrovano dentro, lo lascierò nel giudizio de’ petti sani e delle menti spogliate di passioni, e, per non esser lungo, tante e tante opere e disegni divini suoi, ancóra che l’invidia di molti uomini, accecati dalla malignitá, con morsi venenosi spesso abbino cercato atterrare la virtú e la fede di chi opera virtuosamente. E benché a questi piú tosto sia lecito tacere che risponder loro, per essere animali privi di ragione che muoiono affatto, pur dal proprio artefice è stato risposto che i vizii de’ mordaci, che molte volte si reputano nobili, si sepeliranno con la casa insieme, facendo ai passati suoi nobili antichi molto oltraggio. Egli, con la speranza delle sua qualitá, suscitará gli antichi onori e racquisterá le perdute spoglie. Ma nella mia mente sta fermo questo giudizio, che qualunque virtuoso vuol diventar perfetto, operi in questo secolo, perché dalli invidiosi, che sono una gran parte, son biasimate tutte le buone operazioni e ’ virtuosi fatti, e, se potessero, atterrerebbero gli uomini insieme con l’opere: ma il sole (che allumina tutte le [p. 77 modifica] tenebre e destrugge le nebbie) della veritá ha sempre dato lume e virtú e fatto crescere le piante divine e, con premii, dignitá, onori e con i proprii ori e argenti suoi, premiato e messo nelle grandezze i virtuosi, come apertamente e generalmente si vede per molte cittá (o antica nobiltá quanto sei illustre!) e particolarmente si comprende ne’ Baccelli fidelissimi alla madre natura. Al paragone della quale, sí degli egregi fatti generali come de’ costumi e virtú particolari, sta il discreto intelletto, il quale riduce i rari spiriti e divini ingegni sparsi in diverse parti nel seno del suo governo e reggimento con premii e onori equali al merto. Ma che spero io fare noto forse quel che le bocche e le lingue suonano con veritá per tutto, e delle piú virtuose e onorate? e le proprie qualitá, che lo hanno fatto Dio in terra, tacerá il mio debile scrivere? Questo mi sia lecito dire, che le presenti poche parole sieno date in luce per mostrar solo che anch’io, benché indegno, sotto l’ombra di sí divina pianta respiro e meco stesso nobilmente mi glorio dello aver l’autore di questa dignissima opera una onorata fama della casa mia, acciò che resti, ne’ secoli avenire, a’ suoi figliuoli si degna memoria di tanto padre che con l’opere ha illustrato il suo sangue e con la fede esaltato se stesso».

Michele. Non mi fare star piú a disagio, ché questi tuoi sogni son molto lunghi.

Francesco. Tu hai ragione: egli è ora di dormire; il restante doman da sera te gli snocciolo; oh saranno begli!

Michele. Se non son meglio di questi, me non còrrai tu, me non farai tu stare a piuolo.

Francesco. Meglio assai: sí che io t’aspetto.

  1. Sotto sotto deve straziare, come al solitlo, il Domenichi [Ed.].