I Marmi/Parte terza/Ragionamento di diverse opere e autori fatto ai Marmi di Fiorenza/Lo Stucco e il Sazio, academici

Lo Stucco e il Sazio, academici

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Lo Stucco e il Sazio, academici
Parte terza - Ragionamento di diverse opere e autori fatto ai Marmi di Fiorenza Parte terza - Stucco e Sazio

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Lo Stucco e il Sazio, academici.

Stucco. Che bel libro è cotesto ch’avete in mano? Sempre vi sète dilettato di libri begli. Ma egli è il Boccaccio: dove l’avete voi avuto a penna sí bene scritto? Io per me non ne terrei uno in casa, perché quegli antichi scrittori scorrettamente scrivevano.

Sazio. Questo è un di quegli bene scritto e ben corretto. E udite in che modo: messer Giovan Battista Mannelli fu un cittadino amator della virtú e fu al tempo di Giovan Boccaccio, il quale scrisse le sue Cento novelle, e lo copiò dall’originale dell’autore.

Stucco. Che n’aparisce di cotesta cosa?

Sazio. Ecco, che messer Giovan Boccaccio lo corresse tutto di suo mano.

Stucco. Ell’è certa: questa è la mano sua; io la conosco. Oh che gioia di libro! Come t’è egli venuto nelle mani? è egli tuo?

Sazio. Il libro è del duca illustrissimo e sta nella sua guardaroba; ma egli m’è stato acomodato tanto che io ne corregga uno di questi a stampa de’ migliori. [p. 80 modifica]

Stucco. E l’altro che tu hai sotto il braccio che libro è?

Sazio. Son cento lettere sopra le novelle.

Stucco. Debbono essere una bella cosa: deh, lasciamene lègger una.

Sazio. Leggi; io son contento.

Un barone, entrato in gelosia, in forma di frate confessa la sua moglie; la qual, vedutasi tradir dal marito, con una súbita arguzia, fa rimanere una bestia lui ed ella rimane scusata1.

«In un certo regno di questo mondo, per non far nome al luogo, avenne alcuni anni sono che un nobilissimo cavaliere, quasi un de’ primi baroni della corona, prese moglie giovane e bella, non meno di nobil sangue che conveniente al grado suo; e, godendosi felicemente insieme, era tanta e sí fatta l’affezione che si portavono l’uno all’altro che, ciascuna volta che ’l barone andava per alcun bisogno del re in paese lontano, sempre nel ritorno suo trovava o di mala voglia, quasi distrutta da’ pensieri, o inferma la sua bella consorte. Ora avenne una volta infra l’altre che dal re fu mandato il barone a Cesare per imbasciadore; e, dimorando piú del solito suo molti mesi, o per casi fortuiti che si fosse o per ispedire facende importanti o come si volesse, diede la sorte che la donna sua, dopo molti dolenti sospiri e lamenti, gli venne, nel rimirare gli uomini della sua corte, indirizzato gli occhi dove per aventura la non avrebbe voluto; e fu lo sguardo di tal maniera che fieramente d’un paggio molto nobile e costumato, il qual la serviva, senza poter fare riparo alcuno, s’inamorò. Onde, aspettato piú volte tempo commodo, senza trarre di questo suo amore motto ad alcuno, una sera gli venne a effetto il suo pensiero; perché, chiuso destramente la camera, fingendo di farsi porgere alcune lettere e leggerle, e con questa commoditá dato ardire al giovane di passar piú inanzi che non era ragionevole, [p. 81 modifica] con certi modi ornati parte d’onestá e parte dintornati di lascivia, con certi sguardi da far arder Giove e talora velocemente aprendosi alquanto il bianco e delicato seno e tosto richiudendolo e spesso scoprendo il picciol piede con alcuna parte della candida gamba piú che neve, fingendo, come sopra pensiero, rifrescarsi, accompagnando tali atti con alcun sospiro, e tanto arditamente e accortamente fece che ’l giovane mezzo timoroso, disse: — Deh, madonna, movetevi a pietá della gioventú mia, perché il tenermi qua ristretto a tanto tormento mi strugge il cuore. — Alle quali parole le ardenti fiamme d’amore che serrate si stavono nel petto d’alabastro finissimo, diedero una scintilla di fuoco nel vólto di lei, il quale, accendendosi tutto, diventò come un lucentissimo sole; e, prendendolo per la mano, la quale era di tal maniera che avrebbe liquefatto il diamante, e dopo assai ragionamenti e una stretta fede, oimè!, colse il frutto di quel piacere che strugge di desio ciascuno amante. Avenne dopo molti e molti giorni che, con gran diletto felicemente del lor amor godendo, che un nuovo accidente gli assalí: e questo fu, che un barone famigliarissimo, e quasi come fratello reputato, del marito, non gli essendo tenuto chiuso porta del palazzo, anzi, riverito e onorato, soleva spesse volte corteggiare e onorare la nobil donna; dove una mattina, essendo l’ora tarda, senza esser d’alcuno impedito, per insino nella camera, la quale per mala sorte trovò aperta, se ne andò, credendosi, sí come l’altre volte, non dare impedimento alcuno. Aveva la giovane e il bellissimo paggio, dopo i piacevolissimi solazzi, preso un grave e saporito sonno, sí come avenir suole il piú delle volte in simil casi; tal che il barone, non vedendo la donna, con insolito ardire alzò del paviglione un lembo, e, compreso il fallo della femina e la prosunzion del giovane, non si potè tenére in quel súbito, per l’affezione che portava al marito, di non gridare: — Ah, rea e malvagia femina, questi sono i modi di leale consorte? Ah, sfrenata gioventú, ch’è questo che io veggio? — e con altre infinite parole. Al qual grido destáti i due amanti e storditi dal novo caso, altro rimedio non potettero prendere che umilmente raccomandarsi non meno con [p. 82 modifica] calde lagrime che stretti prieghi, per Dio mercé chiedendo, con assai singolti da rompere ogni duro core. Il barone, che non era di smalto, anzi di carne, sentí due colpi in un sol trarre d’un arco, il primo di pietá e di compassione, l’altro d’amore e di libidine; e, d’una parola in l’altra trascorrendo, si quietò con questo patto, di godere, alcuna volta, parte dei beni dal paggio felicemente posseduti. Cosí, restato la femina contenta, esso quieto e il paggio allegro, piú e piú giorni goderono la dolcezza che passa ogni piacere umano. La fortuna, nimica dei contenti, la qual non sa conservare lungo tempo la felicitá in uno stato, non gli bastò solo aver fatto il primo e il secondo inconveniente, l’uno e l’altro brutto, che la vi aggionse il terzo, bruttissimo: e questo fu che un frate, capellano della donna, assai disposto della persona, era solito passare nella anticamera a ordinare i suoi misteri, e, trovato chiuso la strada e tardando l’ora di far l’offizio suo, con una ordinaria prosonzione, per alcune scale secrete nell’anticamera pervenne; e, ascoltando piú volte all’uscio che in quella entrava e spesso ritornandovi, avenne che aperto lo trovò, ma molto bene accostato, e con la mano pianamente aprendolo alquanto, comprese che ’l familiare barone con la signora a grande onore se ne giaceva e d’ogni desiderio suo dolcemente si contentava; ed essendo alquanto desideroso di far tal viaggio esso ancóra, pensò piú modi che via prender doveva a questo fatto. Onde, uscito il barone del letto e della camera partito, súbito il frate senza punto dimorare se n’andò al letto della madama e gli disse: — E’ sono piú anni, illustre signora mia, ch’io servo l’onorato barone vostro consorte, e la servitú, ch’io ho fatto seco, per altro non è stata se non mediante la bellezza ch’è posta nell’angelica faccia e ne’ lucenti e folgoranti lumi de’ bei vostri occhi; e perché l’amore ch’io vi porto non ha termine né luogo, non ha alito ancor rispetto a religione o a condizion mia e con l’ardore de’ vostri vivi razzi sí forte m’ha assalito che piú volte, tratto dalla strada dell’impossibile, sono stato vicino ad amazzarmi, e, fatto di tal caso deliberazione risoluta, non ci andava guari di tempo che esequivo la crudeltá in me; ma, veduto Amore [p. 83 modifica] il fiero mio e bestial proponimento, m’ha, la sua mercé, pôrto alquanto di lume in queste oscure tenebre de’ miei affanni, e questo è stato che con gli occhi proprii ho veduto quello ch’alla mia salute era di bisogno. — E qui alla donna, che stava piena di meraviglia, molti particolari narrò e con molte parole gli dimostrò il danno che ne seguiva e il vituperio che lei ne riportava, se di tal cosa non gli acconsentiva; e, dall’altro, proponeva un silenzio fedele, una pace eterna e un quieto riposo; ultimamente, che lei gli donava la vita e a sé e al baron suo parimente la conservava: tal che la donna piatosa, fra ’l timore e la paura e la promissione del tenerlo secreto, per una sola volta gli acconsentí, con molto suo dispiacere e affanno, alle disoneste voglie: né si partí della camera che ’l tutto si messe a effetto.

Finito il tempo dell’imbasciaria, il nobil uomo, ritornato al re e parimente a casa, trovò la donna, fuor del solito suo costume, non solamente sana, ma allegra, e assai piú bella e in miglior stato, e di questo caso ne fece assai maraviglia. Dove, piú volte immaginatosi onde questa cagione derivar potesse né trovando né conoscendo per modo alcuno sí nuovo accidente, tentò piú vie di saperlo, né alcuna giovandone, deliberò, con modo non molto ragionevole, di tal cosa chiarirsene e farsi certo se quello che ei credeva fosse vero. Essendo adunque venuto il tempo che gli uomini vanno a deporre la miglior parte dei lor segreti nel petto de’ confessori, andò il barone a ritrovare un valente padre, dal quale la donna era solita confessarsi; e prima con i preghi e poi oprando l’autoritá e la potenza sua, fece tanto che gli concesse e l’abito e il luogo. Dove la donna con le sue donzelle una mattina per tempo se n’andò, e sinceramente postasi ginocchioni, delle sue colpe cominciò a chieder perdóno: ed essendo arrivata all’atto del matrimonio, fieramente si diede a piagnere; ed essendo pur domandata dal confessore e assicurata del perdóno del suo fallo, la gli disse come d’un paggio onorato e molto a lei carissimo era inamorata; la qual cosa gli aveva prodotto piú nuovi e piú crudeli accidenti che s’udissero mai; e, detto questo, di nuovo [p. 84 modifica] piú forte si diede lagrimare. Il barone, avendo avuto questa prima ferita, per cercare quel che non doveva e quel che non avrebbe voluto ritrovare, fu quasi spinto dallo sdegno a scoprirsi; ma, desideroso di sentir piú inanzi, con buone parole l’acquetò e gli fece il perdóno facile di tal peccato. Disse la donna: — Doppo il paggio, padre mio, pur con suo consentimento, perché altrimenti non ho potuto fare, anzi forzatamente l’ho fatto né ho possuto far di manco, se Dio mi perdoni, a un nobilissimo barone, tante volte quante egli ha voluto, carnalmente acconsentii; e doppo questo errore, ultimamente, che mi dispiace assai, sforzata e contra mia voglia, a un frate maladetto mi son data in preda (che tristo lo faccia Iddio!) ch’io non lo veggio mai con sí fatti panni adosso che io non gli desideri tutti i mali del mondo. — E dal dispiacere del peccato e dal dolore dell’ingiuria, gli sopravenne sí fieri singulti che piú parlare in modo alcuno non poteva. Il marito, piú dolente che consigliato, preso dal nuovo caso un furore pazzo e dalla maraviglia stordito, trattosi il capuccio di testa e a un tempo medesimo aperto la grata dove i confessori si stanno ascosti, disse: — Adunque, malvagia donna, non se’ stata in vano né hai passati i tuoi giorni indarno, ché sí disonestamente e sí lascivamente gli hai spesi! — Qui può imaginarsi ogni donna che in simili accidenti si fusse ritrovata, che dolor fu quello della femina colpevole: dove, vedutasi palesata e scoperta senza riparo di scusa alcuna, fu quasi per tramortire, non tanto per i casi passati quanto per la novitá del presente. Pure Iddio, volendo punire l’inganno del tradimento usato alla donna, gli diede non meno forza che virtú; e alzato gli occhi in verso il marito infuriato, con un arguto modo, quasi che da un nuovo sonno svegliata fosse, gli disse con un mal piglio: — Oh che nobil cavaliere! oh che gentil sangue di signore! oh che real barone che tu sei divenuto! Oh mia infelice sorte! Non so qual debb’esser piú ripresa in te delle due viltá dell’animo che t’è entrato nel petto, o l’imaginarti che la tua buona donna faccia fallo alla tua persona o l’esserti vestito si vilmente, astretto non meno da dappocagine d’intelletto che da furiositá di [p. 85 modifica] poco senno. I’ mi contento bene che per insino a ora tu abbi ricevuto il premio che tu andavi cercando; ben è vero ch’io non voglio usare i termini con teco che tu meco hai usato e tenerti ascoso la tua stoltizia e non ti palesar la mia bontá. Dimmi: sei tu fuor del senno? non sei tu paggio del re? non sei tu barone? ultimamente, non sei tu divenuto un maladetto frate? Quali altri paggi, quali altri baroni e qual altro frate ha auto a far con meco che tu? Sei tu sí uscito del cervello che tu non lo conosca? Ch’io son vicina, per questo caso disonesto e della poca fede che tu tieni nella mia persona, quasi di trarmi gli occhi di testa, per non vedere un sí brutto spettacolo. Deponi, uomo savio, sí orribile sospetto e cerca di coprire sí sciocco e sí vituperoso modo che tu hai usato di vestirti frate, ch’io giuro a Dio ch’io non posso piú dinanzi alla faccia tua star ginocchioni, tanto mi pesa questo caso e duole. — E in piedi levatasi, tutta turbata in faccia, senza far piú parole, alle sue donne se ne tornò. Il barone, veduto scoperto la sua pazzia e creduto fermamente alle parole della valente donna, cercò non meno di coprire il fallo che d’emendare il suo errore».


Stucco. Piacemi l’invenzione: ma tu dicesti di lèggere una lettera e ci hai narrato una storia. Che s’ha da far poi del corretto Boccaccio e delle lettere?

Sazio. Stamparle tutte in un volume.

Stucco. Sará bell’opera certamente. Tu mi pari un libraro: oh, tu n’hai un altro in seno! che cosa è quest’altro?

Sazio. L’Idea del teatro del signor Giulio Camillo.

Stucco. Dá qua, ché io voglio veder s’io vi trovo sopra una cosa da non la credere. Oh come ci menano per il naso noi altri ignoranti questi dotti dotti dotti!

Sazio. Avrò caro di notarla.

Stucco. Mostrami il libro: «Ma, seguendo il proposito nostro, è da sapere che in noi sono tre anime, le quali tutte tre, quantunque godano di questo nome comune ‛animo’, nondimeno ciascuna ha ancóra il suo nome particolare». [p. 86 modifica]

Sazio. Di queste tre anime egli l’ha detto un’altra volta in una sua lettera.

Stucco. Non importa; sta pure a udire: «Imperciò che la piú bassa e vicina e compagna del corpo nostro è chiamata ‛nepes’, ed è questa altrimenti detta da Moisè anima vivens».

Sazio. Vedete quel fa a saper ebreo, greco e latino!

Stucco. Vedete quel che è non star saldo a quello che hanno scritto i dottori della chiesa! State pure a udire: «E questa, perciò che in lei capeno tutte le nostre passioni, la abbiamo noi comune con le bestie».

Sazio. Le nostre passioni son tutte adunque cose da bestie: oh, le bestie non hanno, credo, le passioni che abbiamo noi.

Stucco. Udite pure.

Sazio. È egli stampato in luogo autentico?

Stucco. In Fiorenza e ancóra in Vinegia.

Sazio. Sta bene, seguitate tutto ciò che voi volete dire.

Stucco.«E di questa anima parla Cristo quando dice: ‛Tristis est anima mea usque ad mortem; e altrove: ‛Qui non habuerit odio animam suam perdit eam. Al qual vocabulo non aspirando la lingua né greca né latina, non si può rappresentare nelle traduzioni la sua significazione».

Sazio. Saldo: chi non avrá in odio la sua anima la perderá; adunque, chi l’avrá in odio l’acquisterá. Talmente che, acquistandola, l’uomo guadagna un’anima come quella delle bestie?

Stucco. La logica l’intende altrimenti. Ascolta prima il restante: «Come, per cagion d’esempio, in quel salmo ‛Lauda, anima mea, dominum'; quantunque la scrittor dello Spirito santo abbia posto il vocabulo di ‛nepes’ ci fanno usare il comune. E fu ben ragione che il profeta usasse il vocabulo ‛nepes’ volendo lodare Dio con la lingua e con altri membri che formano la voce e sono governati dalla ‛nepes’ che è piú vicina alla carne. L’anima di mezzo, che è razionale, è chiamata col nome dello spirito, ciò è ‛ruach’».

Sazio. Io son ben sazio da vero. Che noi abbiamo tante anime in corpo? S’io pensava, non comprava questo libro altrimenti. [p. 87 modifica] Stucco. Anzi sí, perché è stupendo. «La terza anima è detta ‛nessamath’ da Moisè, ‛spiracolo’ da Davitte, e da Pittagora ‛lume’, da Agostino ‛porzion superiore’...».

Sazio. Egli si fonda benissimo.

Stucco. Pur che coloro voglin dir ciò che egli intende, ogni cosa sta bene, «... da Platone ‛mente’, da Aristotile ‛intelletto agente ’. E sí come la ‛nepes’ ha il diavolo che e’ le ministra dimonio per tentatore, cosí la ‛nessamath’ha Dio che le ministra l’angelo: la poverella di mezzo da amendue le parti è stimolata; e se per divina permissione s’inchina a far unione con la ‛nepes’, la ‛nepes’ si unisce con la carne e la carne con il dimonio e il tutto fa transito e trasmutazione in diavolo; per la qual cosa disse Cristo: ‛Ego elegi vos duodecim et unus ex vobis diabolus est'».

Sazio. A questo modo tutti abbiamo il diavolo nella anima prima.

Stucco. Voi mi fate venir voglia di ridere. Udite il fine: «Ma se per grazia di Cristo (da altri non può venire un tanto benefizio) l’anima di mezzo si distacca, quasi per lo taglio del coltello della parola di Cristo, dalla ‛nepes ’ mal persuasa, e si unisce con la ‛nessamath ’, la ‛nessamath ’, che è tutta divina, passa nella natura dell’angelo e conseguentemente si trasmuta in Dio. Per questo, Cristo, adducendo quel testo di Malacchia, ‛Ecce ego mitto angelum meum' vuol che s’intenda di Giovanni Battista trasmutato in angelo nella provvidenza divina ab initio et ante secula».

Sazio. Abreviamela questa cosa: salta con il lèggere, perché ho fretta stasera.

Stucco. Ecco fatto: «Non posso fare che io non metta la opinione dello scrittor del Zoar: La ‛nepes’essere un certo simulacro o vero ombra nostra, la quale non si parte mai da’ sepolcri e lasciasi non solamente la notte, ma ancor di giorno da quelli a’ quali Dio ha aperti gli occhi. E perciò che il detto scrittor dimorò all’eremo per quaranta anni con sette compagni e con un figliuolo per cagion di illuminare la scrittura santa, e’ dice che un giorno vide a uno de’ suoi santi e cari compagni [p. 88 modifica] distaccata la ‛nepes’ talmente che gli faceva di dietro ombra al capo; e di qui s’avidde che questo era il nunzio della vicina morte di colui».

Sazio. Perché tu m’hai legato la bocca con dir santo e santi, però sto cheto e credo che questo e maggior dono possa concedere Dio all’uomo; ma perché Giulio Camillo non fu santo, non vo’ creder di cotesto Teatro nulla. I’ l’ho per acuto ritrovatore, ingegnoso e letterato, del resto non gli credo nulla e non voglio piú cotesto libro: to’lo per te.

Stucco. Sgratis svobis. Lasciami finir questo capitolo: «Ma con molti digiuni e orazioni ottenne da Dio che la detta staccata ‛nepes’ da capo al corpo suo si ricongiunse».

Sazio. Non me ne dir piú: a Dio: serba il libro per te.

Stucco. A rivederci.

  1. Pur nella Seconda libraria, sotto Drusiano Battifolli [Ed.].