I Marmi/Parte quarta/Il Dottore e l'Ignorante academici Peregrini
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IL DOTTORE E L’IGNORANTE
ACADEMICI PEREGRINI
Dottore.«Vita hominis est umbra super terram».
Ignorante. Perché si dice egli, domine doctor, che la vita nostra passa come ombra?
Dottore. Propter fugam: secundum illud Job, al capo XII: «Fugit velut umbra et nunquam in eodem statu permanet».
Ignorante. Non me la tagliate cosí letteralmente minuta minuta; fate che io v’intenda.
Dottore. L’ombra al moto del corpo si muove, e, tanto quanto egli si muta, ed ella ancóra: se tu corri, la corre; se vai piano, la ti séguita sempre pianamente.
Ignorante. Quando voi disputasti con l’Astratto nostro, voi dicevi pur non so che d’Aristotile e di Platone.
Dottore. Noi parlavamo di varie ombre e diverse dell’anima.
Ignorante. Che ombra d’anima? l’anima ha ella ombra? Ditemi qualche cosa, acciò che io impari, ché sapete che io mi chiamo l’Ignorante. Che diffnisti voi di razionale e non razionale?
Dottore.«Anima rationalis est umbra intelligentiæ», perché, secondo il cancellieri parisiense1, parlando delle tre potenzie che conoscono, le va chiamando per varii nomi.
Ignorante. Dio m’aiuti che io possi intendervi.
Dottore.«Nam intelligentiam nominat umbram intellectus angelici, rationem umbram intelligentiæ simplicis, vim cognitivam sensualem umbram nominat rationis». Onde egli è da considerare, secondo Dionisio, al capo VII De’ nomi divini: «In progressu rerum a Deo fit concatenano quædam, ut infimum supremorum fit primum inferiorum: angelus a quo minoratus est paulo minus homo, quoniam est intelligentia simplicior homíne, habet in sua natura illud quasi infimum quod homo habet in sua natura supremum, ut secundum hanc vim intelligentiæ coniungantur absque medio alterius speciei, angelicus intellectus et humanus; unde, sicut angelus est umbra Dei, sic intelligentia simplex est in umbra angeli; ratio in umbra simplicis intelligentiæ et vis sensualis cognitiva in umbra rationis. In qua vi sensuali varii gradus distinguuntur pro varietate suorum officiorum; nam æstimativa collocatur in umbra rationis, fantasia in umbra æstimativæ, sensus comunis in umbra fantasiæ, sensus vero exterior, qui est novissima lux potentiæ cognitivæ, qui deficit et occidit, in potendo solum vegetativa, seu nutritiva, et in umbra sensus comunis».
Ignorante. Dove crede d’esser la signoria vostra? in catedra? che so io di vostre «esteriore» e «comune» e «fantasia»? Io non son l’Astratto che sappi tanta lettera; io, che sono l’Ignorante, vorrei saper da voi qualche bella cosa, e questa sarebbe una: perché si dice la vita nostra è un’ombra?
Dottore. Io ho inteso: tu vorresti un poco di dottrina galante e facile facile e in vulgare. Ecco fatto. La vita nostra, per la misura, si può chiamar ombra; e diremo cosí: quanto il giorno è maggiore l’ombra del nostro corpo è minore; e la cagione è questa: quanto il sole ci vien piú sopra il capo tanto manco facciamo ombra, e, quando egli è per linea retta, noi non ne facciamo punto dell’ombra; e, per il contrario, quando principia il giorno e che il sole è basso, noi mostriamo piú ombra.
Ignorante. A questo modo sarò io dal vostro; quel tanto per lettera non ne mangio. Or ditemi qualche bella interpetrazione.
Dottore. Cosí accade agli uomini; perché quanto il dí della prosperitá è alto tanto è piú breve l’ombra della vita, si come è scritto nello Ecclesiastico al capo X: «Omnis potentatus brevis vita».
Ignorante. Per sí pochi bus e bas, starò io cheto perché intendo; pur che non passino tre o quattro parole, io intendo, se non la lettera, almanco per discrezione.
Dottore. Tre ragioni confermano questa autoritá: la prima è l’invidia, che vuol male a’ grandi piú che ai piccioli, onde tosto caggiono dall’altezze; la seconda è che la ricchezza ed estrema grandezza fa cadere, per disordini del corpo, in varie malattie e scendano al centro della morte; la terza è l’ordine dell’ordin divino, che non si può intendere, che per diverse scale fa scenderci al basso, solamente per mostrarci che le cose terrene son da esser disprezzate. Giá un certo Pietro da Ravenna, dottore, ne scrisse, e mostrò infinite ragioni, perché i sommi stati il piú delle volte vengano spesso spesso al basso, e chi vive in miseria e che delle prosperitá del mondo non sente nulla, gli par la vita lunghissima e rincrescevole. E questo è un modo a mostrarti che la vita nostra è un’ombra.
Ignorante. Questa parte mi contenta; ma, s’io ho memoria, quando andavo a scuola e che io imparava i versi d’Ovidio (non so s’io me ne ricorderò), egli assomigliava la vita nostra all’acqua corrente:
Prætereunt anni more fluentis aquæ.
Dottore. Ancóra nel secondo libro de’ Re, al capo XIIII dice: «Noi moiamo tutti, correndo alla morte come l’acqua su per la terra». E poi, sí come tutti i fiumi hanno dal mare principio e al mare finiscono, la vita nostra comincia in pianto e finisce in pianti. E nell’Ecclesiastico è scritto: «Da quel luogo dove hanno esito i fiumi, quivi ritornano». L’origin nostra fu terra e in terra ci convertiamo. L’acqua ha il moto continuo; noi ci moviamo sempre: ella correndo porta via ogni cosa furiosamente e rovina; noi irati, infuriati e terribili in questa vita facciamo il simile: passati i nostri anni perdiamo il nome e ci risolviamo in terra; l’acqua dopo il suo corso arriva al mare e, perdendo il nome del suo fiume, si convertisce in mare. Disse bene Isaia: «Quasi fluvius violentus vita guam spiritus Domini cogit».
Ignorante. Il mondo mi par tutto fatica; e ciò che ci si fa è gettato via, eccetto il bene.
Dottore. Diceva ben Salamone: «Qui addit scíentiam, addit laborem», Ma meglio, quando io mi messi a riguardare con una intelligenza sottile tutte quelle cose che le mie mani avevano operato e le fatiche grande, c’ho poi compreso d’aver sudato invano, io vidi in tutto vanità, compresi che tutta è un’invenzione da tormentare un animo e ciò che è sotto il sole va in nulla, si convertisce in ombra; alla fine, tanto fa il dotto quanto l’indòtto, conciosia che la morte fa tutti equali. Però io dico che questa vita m’è un fastidio e un tormento, perché ciò che io uso, che sia sotto la luce del sole, trovo tutto ultimamente vanitá e aflizione di spirito. Tutti i giorni dell’uomo veramente son pieni di dolori, di fastidi insopportabili; né pur una notte può stare in riposo la mente; tutto è sottoposto al tormento, e ogni cosa ritorna a un punto, al centro della terra: lei le partorisce e lei le rivuole. A che penar, dunque, tanto in sí estrema miseria? «Sicut egressus est homo nudus de utero matris suæ, sic revertetur et nihil auferet de labore suo».
Ignorante. Conosco ben veramente che sopra tutti noi c’è una gran nube che ci tiene occupati nel tormento e abbiamo del continuo un grave giogo sul collo né mai restiamo di tirarci pesi alle spalle insopportabili, sino che noi da quelli non siamo tirati nell’estremo precipizio della morte; e dell’anima ci ricordiamo poco.
Dottore. Il nostro Quintiliano disse una bella sentenza: «In hoc asperrima conditione fragilitalis humanæ nemo pene mortalium impune vivit». Egli è un tempo che io mi cominciai a far beffe di questa vita, perché l’è una caverna tenebrosa e spaventevole; e beato a chi ne gusta manco; e tal ricchi carnali vorrebbon sempre starci, non conoscendo che quanto piú si fanno padroni del tempo e dei beni della fortuna tanto piú si tirano carico adosso:
Quid valetl argentum,
quid annis vivere centum?
post miserum funus
pulvis et umbra sumus.
L’uomo nato di donna poco tempo ci regna. Che son cento venti anni a un uomo? Un soffio, un vento, un punto di tempo. I nostri lavori son una tela di ragnatelo, poco durabili e una fatica gettata via: da settanti anni in lá tutto è dolore. Che ti paion le cose passate?
Ignorante. Nulla, fumo.
Dottore. Quelle che in dubio sei per passare, che credi tu che le sien per essere?
Ignorante. Manco che nulla, se cosí si può dire.
Dottore. Alla fine, son meno che tu non ti puoi pensare. Un punto, disse Seneca, è quello che noi viviamo, e manco d’un punto. Breve e caduche son tutte le cose e dell’infinito tempo che ha da venire non occupano nulla nulla, perché nulla sono. Senti quel che disse san Bernardo:
Omnia quæ cernis vanarum gaudia rerum
umbra velut tenuis veloci fine recedunt.
Ignorante. Son pur grandissime stoltizie o, per dir meglio, gli uomini son pur pazzi a nuocersi l’uno all’altro! E perché? Oh infinito errore, che per cose síi caduche, sí fragili, per baie di ciancie, per novelle di parole, per ombra, fumo e cosa che si consuma, come è la roba, che venghino offesi tanto gli uomini!
Dottore. Le son circa a quattro cose che cacciano un uomo a far che egli nuoca all’altro; e qui ti voglio insegnare come tu debbi fare a fuggirle e viver piú sicuro.
Ignorante. Voi m’insegneresti la bella cosa.
Dottore. Lo scultore bisogna che trovi la materia disposta a introdurvi dentro la figura.
Ignorante. Io intendo dove voi volete colpire; pur dite, via.
Dottore. A ciò che la vita tua sii piú sicura, io ti vo’ dir brevemente quello che tu debbi osservare; però ti prego che sí attentamente mi dia orecchio a questi ammaestramenti come proprio io ti volesse insegnare, essendo amalato, a farti libero dalla infirmitá e sanarti senza dubitazione, ma fussi certo, fatto quel rimedio, súbito guarire. Considera primamente qual siano quelle cose che infuocano un uomo all’accenderlo contro all’altro: se tu ben le riguardi, le sono molte, ma ridotte in pochi capi: verbigrazia, invidia, speranza, odio, paura e dispregio. Di tutti questi il timore è tanto leggieri che molti si son vivuti in esso per cagion di rimedio; il quale se alcuno lo disprezza e se lo mette sotto i piedi, senza alcun dubio passa oltre: nessuno pertinacemente né con diligenza nuoce a colui che è dispregiato; ancóra nella battaglia nessun combatte con colui che ghiace, ma con colui che sta in piedi e con l’arme in mano. Tu fuggirai la speranza degli iniqui, se tu non avrai alcuna cosa la qual possi accendere l’altrui cupiditá, se nessuna cosa di grande stima possederai, perché son desiderate ancóra che siano poche conosciute; e cosí tu fuggirai l’invidia, se gli tuoi beni non metterai dinanzi agli occhi degli uomini e se non ti vanterai di essi e ti saperai godertegli nel tuo seno. Ma tu fuggirai l’odio che vien dalla offesa in questo modo, non facendo ingiuria a persona né gratificandoti ad alcuno; dal quale odio ti difenderá il senso comune, perché questo è stato pericoloso a molti. Alcuni hanno avuto l’odio e non nimico. E acciò che tu non sia temuto, ti gioverá la mediocritá della fortuna, la umiltá dello ingegno. Quando gli uomini sapranno che tu sia tale che senza pericolo ti possino offendere, la tua riconciliazione fa che la sia facile e certa; ma lo esser temuto, cosí in casa come fuor di casa, è molesto, cosí da’ servi come da’ liberi: ogni uno ha forza assai per nuocere. Aggiungi ora a questo che colui che è temuto teme; nessuno mai è possuto esser terribile sicuramente. Resta per ora a dirti del dispregio; la misura del quale ha in sua potestá colui che a se stesso lo aggiunge, colui che si lascia dispregiare perché vuole, non perché debbe. La incomoditá di questo è scossa da le buone arti e l’amicizie di coloro che son potenti apresso a qualche un potente; al quale sará utile accostarsi, non avilupparsi con esso, acciò che, alle volte, non ti costi piú il rimedio che il pericolo. Ma nessuna cosa certamente tanto ti gioverá quanto essere in quiete e parlar poco con altri e assai con te medesimo. Egli è una certa dolcezza, del parlare di alcuno, che tacitamente ti entra nell’animo e lusingati e, non meno che la briachezza o l’amore, ti fa manifestare li tuoi secreti: nessuno tacerá quello che ha udito, nessuno favellerá tanto quanto avrá udito; colui che non tacerá un secreto, non tacerá ancóra colui che gne ne ha detto; ciascuno uomo ha alcuno al qual dice tanto quanto è stato detto a lui e, per conservare la sua loquacitá e sia contento, degli orecchi d’uno si fará un popolo, e cosí, quello che poco dianzi era secreto, s’è convertito in fama. Una gran parte della sicurtá è niente iniquamente fare: confusa vita e perturbata fanno gli uomini prepotenti; tanto temono quanto nuocono né mai sono senza timore; imperò che temono poi che hanno fatto il male, e la coscienza gli rimorde e non gli lascia far altro e poi gli costringe rispondere a se stessa. Colui sostien la pena che l’aspetta, ma colui l’aspetta che la merita. Può ben l’uomo di mala coscienza esser sicuro in alcuna cosa del corpo, ma in nessuna può esser mai sicuro dell’animo; imperò che, ancóra che non sia discoperto, si crede di poter esser sempre palesato; e tal dormendo si muove, e ogni volta che parla delle altrui scelleraggini, egli pensa del continuo alle sue e non gli pare che ’l suo peccato sia in tutto cancellato. Onde, per risolverti, perché ho alcune faccende da fare, ti dico, e nota ben questa mia sentenza, che mai il peccatore tien celato il suo male per confidenza, ma per fortuna alcuna volta si crede che sia secreto. E mi raccomando.
Ignorante. Servitor di vostra mercé; e bacio la man di vostra signoria.
- ↑ Roberto de’ Bardi, cancelliere dell’universitá di Parigi, teologo famoso. Di lui Filippo Villani, nelle Vite [Ed.].