I Marmi/Parte prima//Miglior Guidotti e Salvestro del Berretta
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Miglior Guidotti e Salvestro del Berretta.
Migliore. Voi stareste meglio di gennaio al fuoco, messer Salvestro, che di luglio su i Marmi; perché cotesto berretton tinto in grana che voi portate, che fu giá fodrato, si convien piú con il verno che non si confá con la state.
Salvestro. E tu staresti meglio con un celatone in capo, di questo tempo, che con cotesto cappuccio. Oh quanto ti stanno peggio indosso i panni a te che ’l berrettone a me! Ma, s’io non ho altro, come vuoi tu che io faccia? E poi non potrei far senza esso, tanto sono assuefatto a questo peso; e s’io m’alleggerissi, infredderei, e un altro maggiore sarebbe troppo: di questa sorte, che fosse nuovo, non credo che se ne trovi. Ma dimmi, tu, che sei grande piú degli altri, debbi aver maggior caldo degli altri, di ragione; noi, avendone manco e non lo potendo sopportare, come fa’ tu a tollerar il tuo, ch’è tanto maggiore?
Migliore. A rispondere alla vostra dimanda bisognerebbe maestro Dino1 e non il Guidotti, che non è né filosofo né fantastico. Ma io ho udito dire che i luoghi piú alti son piú freschi che quei bassi: il mio luogo che io ho tolto da la Badia è piú fresco che la mia casa di Firenze; cosí fra gli olmi di Fiesole è miglior vento che su la scala di San Girolamo: io son piú lungo, di stinchi, di busto e di collo, di voi; però vengo ad avere il capo, come dire, su la piazzuola di San Francesco e voi lo avete alla Doccia; cosí si ricompensa il mio caldo grande con il ricevere piú aere.
Salvestro. So che stasera io mi sono accoppiato bene! va, di’ che io possi portarne nulla di buono a casa! Almeno ci fossi il Gello, che mi sa rispondere a ogni cosa!
Migliore. Se voi pensaste sempre imparare, voi siate in errore; e’ bisogna ancóra insegnar tal volta: io, per questa, mi sarò appaiato e staremo bene, uno che sa e l’altro no: però ditemi per che cagione son piú i cattivi e gl’ignoranti che i buoni e i dotti.
Salvestro. Tu hai ragione, questa è stata al contrario di quella che m’intervenne con il Bartolini, che, essendo per l’assedio carestia di vino intollerabile, e io, vecchio, non poteva far senza esso, e’ me n’andava a tôrne un fiasco a casa sua fra settimana. Ma egli, da due volte in lá, mi fece dir che non ve n’aveva: io, che conosco i miei polli alla calza, andai da Ridolfi e me ne feci dare un fiasco e gne ne portai con dir: — Fratello, e’ m’incresce che un par tuo stia senza vino; però te n’ho portato un fiasco: bei e non dubitare che io te ne provederò tuttavia, acciò che tu non patischi. — Almanco tu m’hai chiamata la gatta per il nome suo e non hai voluto fare il platonico, come certi de’ nostri ignoranti che fanno il fratello con gli scritti suoi, ma favelli da buon compagno, e però ti vo’ dir cento belle cose.
Migliore. Questo è quello che io desidero. In tanto compariranno altri buoni compagni e andremo a udir poi i ragionamenti loro: or dite.
Salvestro. Il male che tu di’ non vien da altro se non che gli uomini vivono secondo il tempo e non secondo la ragione, oltre all’inclinazione della natura, che è piú pronta al male che al bene, e si dá piú volentieri in preda dell’ignoranza che della virtú.
Migliore. Il tempo e il mondo non è tutto una cosa?
Salvestro. Fa conto che uno sia il fuoco e l’altro il calore, come il sole e la luce: non sono una cosa e sono. Io non voglio parlarti con i termini della filosofia né con cavillose sofisterie, perché tu intenda; ma basta solamente dirti che il mondo ha trovato rimedio a ogni cosa del mondo con la ragione, ma a tutte le cose del tempo no.
Migliore. Non intendo; vorrei esser piú capace di ciò che mi volete dire: fatemi chiaro con fondamenti piú facili.
Salvestro. Odi: se il sole t’offende, non ne vai tu all’ombra?
Migliore. Sí, di ragione.
Salvestro. Se il caminar ti noia, non c’è il cavalcare? se tu solchi il mare, non vuoi tu sicura nave? se il freddo ti stringe, non ricorri tu al fuoco? la sete, quando la ti viene, con il bere non te la cavi? e la pioggia che ti vuole offendere, súbito la ragione non ti fa correre al coperto? Insino alla pèste ha trovato la ragione e il modo di fuggire d’una in altra terra; quando uno ha un nimico, o cerca di rapacificarsi o si guarda o si vendica: e, per finirla, dico che tutte le cose del mondo hanno qualche poco o assai di rimedio; ma il tempo senza ragione, che produce il vizio e l’ignoranza, non ha riparo, non ha termine né modo da difendersi l’uomo o da fargli resistenza.
Migliore. Voi dite il vero: nel tempo dell’assedio era forza fare il soldato e far delle cose senza ragione; pace non si poteva fare, perché il tempo non ce la dava.
Salvestro. Quando gli piacque, adunque, egli ce la diede; adunque gli uomini son forzati a fare a modo del tempo e il mondo séguita il tempo come l’ombra il corpo. S’io avessi da dirti tutte le cose de’ miei dí che sono accadute a me solo, ti farei stupire; e potresti vedere in un sí fatto discorso quale è la cagione che gli uomini tirano piú da una parte, che è la peggiore, che dall’altra.
Migliore. L’opinione che io ho di queste cose è che la poca considerazione che hanno gli uomini sia cagione di tanto errore: ciascuno si considera maggiore, si stima piú nobile, si tien piú virtuoso, si fa piú prudente e si conferma nell’animo piú cose assai che non sono, non solo in uno, ma in mille uomini. Io veggo ogni piccolo scrittore che legge l’altrui opere, che egli non fa altro che tassarle, riprenderle e voler far credere di saper far meglio di coloro che meglio di lui sanno fare.
Salvestro. Cotesto è bene una parte di buon fondamento, a mostrar che son piú gli ignoranti; ma, io trovo, solamente color che sanno lodano; sempre chi non sa biasima gli altri e loda se medesimo: la quale spezie di ciancia ha del cattivo piú tosto che del buono. E perché l’è chiara cosa che piú sono i cattivi che i buoni e gli ignoranti che i dotti, non accade se non che io discorra sul mio libro e che io misuri prima me: forse, con questo passo, te misurerai, e gli altri, con il tuo e mio, si squadreranno ben bene da capo a piedi.
Migliore. Se cosí determinate di fare, io spero d’udire qualche bella cosa sta sera, tanto piú che io son per saper parte della vita vostra, la quale fia cosa rara a udire. Ma che diranno le brigate savie, o che savie si reputano, se Salvestro del Berretta dirá cose rare? Oh, e’ parrá loro impossibile! E pure, se vorrete, siate per dir cose stupende, non cavate di libri o udite dire, ma scaturite fuori dell’ingegno. Che dite, messer Salvestro, dico io bene o no?
Salvestro. Potrebbe essere che io dicesse alcune cose non cosí divulgate, perché son certo d’esserne stato inventore.
Migliore. Come sarebbe a dir? che? Date un poco in terra.
Salvestro. Son contento; ma non andar poi dicendo queste novelle, ché non mi avessino per pazzo o per incredulo.
Migliore. Cosí farò.
Salvestro. Io mi ricordo, quando cominciai a essere uomo e a conoscere la differenza che era dal mondo al cielo (se egli m’è lecito di dir tanto), ch’io mi riscossi tutto tutto e mi s’arricciarono i capegli in capo e cosí le carni mi si raccapricciarono: e questo ne fu cagione la varietá che io vidi della nostra cittá nel tempo della morte (avendo veduta la vita) di fra Girolamo Savonarola. Per la qual cosa cominciai io ad aprir gli occhi e dir fra me medesimo: — Salvestro, che fai tu qua? donde sei tu venuto? in che stanza ti sei tu fermato? chi ti guida? dove andrai? quale è la tua stanza? perché ci sei tu nato? — Le furon queste parole di tanta forza che io stetti molte ore come una statua di pietra, quasi che io non dovessi mai piú muovermi.
Migliore. Udite: se gli uomini si mettessin coteste parole inanzi e le volessero considerare, pensate che molti farebbono il simile; ma ciascuno pensa a viver secondo il tempo e lascia andare l’acqua alla china, vadi pure in giú a sua posta. Ma credete voi che le cose andassero cosí mal come le vanno, se ciascuno si specchiasse ne’ fatti che egli debbe fare? Io mi ricordo aver letto ne’ Fior di virtú, che Drusio Germanico aveva per usanza di venire a visitare i sepulcri di tutti i valenti uomini famosi che stavano sapulti in Italia; e questo lo faceva ogni volta che egli s’aveva a porre in viaggio per guerreggiare. Una volta gli fu dimandato perché faceva quello: lui rispose che nel visitare le sepolture di Scipione e de’ suoi pari morti famosi, dinanzi ai quali la terra tremava quando eran vivi, che egli pigliava forza e animo, rimirando la lor fortuna; e che non si può acquistar piú forza nel ferire i nimici che ricordarsi l’uomo che egli ha da lasciar fama di sé per i secoli che hanno da venire.
Salvestro. Che di’ tu di Fior di virtú? Cotesta cosa la scrive un greco scrittore ben grande: io non credetti che tu pescassi sí a fondo.
Migliore. Da poi che noi altri plebei possiamo legger nella lingua materna, non accade che voi altri dotti vi maravigliate, e diciate: «egli non è stato a studio»; perché, se voi sapete le cose in greco e in latino, noi le sappiamo in vulgare. Ora non direte voi d’esser piú come i polli di mercato, s’io vi dicesse di quel cavalieri che venne d’Egitto (se ’l piovano Arlotto non m’inganna, che ne fa memoria nelle sue Facezie ) a Roma, per veder s’egli era la veritá delle gran cose che si dicevano di sí fatta cittá. Vedutala, gli fu detto: — Che ve ne pare? — Due cose — disse egli — vorrei in questo mondo: portar la gloria del vostro nome e nel partir lasciar la memoria de’ vostri passati; perché voi non sète manco gloriosi in vita della lor fama che loro famosi in morte della vostra gloria.
Salvestro. Ben be’, voi siate usciti di leggende: come domin sa’ tu tanto? Io mi maraviglio che tu non ti facci addottorare, perché sarai il maggior uom di Firenze.
Migliore. Voi mi date la baia. Io vi dico, Salvestro, che questi uomini si specchiavano ne’ buoni e ne’ virtuosi e oggi costoro si rimirano ne’ cattivi e negli ignoranti; qua si comincia a mutar ogni dí nuove foggie di vestimenti, a trovar nuovi intingoli per pasteggiare e nuove chimere di girandole per istraziare il tempo e trattener le femine; le lettere son ite a monte, i costumi antichi spianati e gli ordini vecchi buoni perduti: io son pur giovane e mi ricordo che i vecchi erano di qualche autoritá; ora la gioventú ha dato nello scorretto e non ci son per nulla i padri antichi.
Salvestro. Peggio è, Miglior mio caro, che non c’è riparo; e però, quando viddi un sí dotto frate morire e far tante matterie una sí savia cittá, mi riscoss’io.
Migliore. Che pensasti voi allora in quel vostro timore o che vi s’appresentò dinanzi?
Salvestro. Conobbi un termine e un ordine di tutte le cose inaspettatamente e scòrsi con l’intelletto che, fra quel cielo e questa terra, ci è un ordine in tutte le cose che non può preterire: noi arriviamo alla state, giungiamo all’inverno, scorriamo alla primavera e ci conduciamo all’autunno non ci accorgendo anzi desiderando sempre d’andare inanzi, come colui che, cavalcando o navigando, quanto piú forte camina o quanto piú veloce solca il mare tanto piú si contenta l’animo.
Migliore. Il cielo, anzi il fattor di quello, ha benissimo (per confermazione dell’opinion vostra) contrapesato le cose, secondo che io veggo: egli ha dato corrispondente a ciò che c’è, al dolce l’amaro, al duro il tenero, alla luce le tenebre, alla sanitá la malattia, al riso il pianto, al buono il cattivo, alla vigilia il sonno, alla pace la guerra, al caldo il freddo, alla povertá la ricchezza, al piacere il dispiacere, al fuoco l’acqua e alla gioventú la vecchiezza; e, brevemente, tutte le cose hanno, volete dir voi, il suo contrapeso.
Salvestro. Sí, ma egli c’è meglio: quando ebbi veduto che nulla c’era di netto, volli tentare gli stati umani, onde mi fuggi’ dal padre mio e dalla mia terra, credendomi di fare qualche buon baratto a cambiar paese; alla fine, quando ebbi cercato popoli diversi, nazioni lontane, paesi nuovi a me, conobbi che per tutti i luoghi ci sono le bilance pari.
Migliore. Se provavi a esser signore, forse vi sareste mutato d’opinione.
Salvestro. Ancóra in quello stato, che io non provai mai, credo che vi sia tanta carne quanto osso. Che patí Nino re e godé, che trovò tanta guerra? che piacere e dispiacere ebbe Semiramis a far tanti edifici? che consolazione ebbe e dolore il greco Ulisse a navigare tanti mari? Alessandro, che signoreggiò tanta terra, credo che sopportasse, con quell’allegrezze, infiniti disturbi; Cesare alla fine ne cavò un bel viso di quelle tante e tante fatiche! Chi avesse fatto contare a Ciro re di Persia, nell’acquistar dell’Asie, se egli trovava tanto dolce quanto forte, credo che l’avrebbe pareggiata. Non vo’ dir del cartaginese Annibale, Pirro re de’ Piroti, o d’Attila (che tutti costoro sono stati signori, signori da dovero) come la misura è ita lor giusta. Non ti pensar, che la natura e Iddio tien pari pari queste bilance per non far torto ad alcuno.
Migliore. Questo vostro discorrere si confá con la novella de’ corsali e del sole.
Salvestro. Che novella?
Migliore. Una che mai l’udiste dire a’ vostri giorni.
Salvestro. Avrò caro in mia vecchiezza di sentirla e impararla.
Migliore. Dice che s’era un tratto forse mille navi di diversi corsari (e se le non erano mille, l’eran novecento novantanove almanco) le quali, essendo tutte in un porto ragunate, si deliberarono di pigliare il sole che ogni mattina vedevano spuntare fuori dell’acqua; e cosí tutti si posero a ordine con piú remi e piú gente che potevano, con dire: — Come noi abbiamo il sole, noi siamo ricchi, perché raggireremo a modo nostro, or facendolo stare ora andare, eccetera. — E cosí, chi piú presto fu in ordine, si messe alla regata, che tanto vuol dire quanto a gara chi piú tosto v’arriva, e, dato de’ remi in acqua, chi a mezza notte, chi due ore inanzi giorno, chi all’alba e chi a di chiaro, cosí cominciarono a dirizzar la prora alla dirittura dove pareva loro che egli uscisse dell’acqua. Ben sapete che alcune navi essendo inanzi, pareva, a quelli che erano adietro e degli ultimi, che coloro fussino quasi quasi per mettergli le mani sopra, e ne pativano un batticuore grande; e quanto piú andavano inanzi piú si credevano esservi appresso. Alla fine giunsero le prime a tal luogo che conobbero che l’era una stoltizia espressa, e si trovavano cosí lontani per pigliare il sole come quando erano in porto. Molti, che per istracchi rimasero adietro, vedendo i navili a dirittura della spera sul levarsi, si disperavon a non v’esser ancor loro. E benché ve ne capitasse male alcuni, non ci si pensava; e ancóra che, tornando adietro, i poveri marinari dicessero, a quei che erano restati, che la cosa era in mal termine come prima, non lo volevan credere. Cosí son gli stati dell’uomo: egli corre per giungere al contento e non s’accorge che sempre il discontento lo séguita.
Salvestro. Ora vedi che tu sei venuto dalla mia. Io conobbi in un tratto che io era chiuso fra il cielo e la terra, e, considerati tutti gli stati, m’imaginai che ci fosse (dico per parlar naturalmente) un’altra vita e che questa fosse una carcere a tempo, e mi cominciai a preparare per andarvi; ma immaginati oggi una cosa, domani pensane un’altra, fanne stasera una e domattina ti disponi a farne un’altra, mai trovai cosa, come carnale, che mi mettesse per buona strada o m’insegnasse la diritta via. Egli mi fu dato a credere assai cose, insegnatomene poi molte altre e fattomene provare infinitissime, che per non esser tenuto pazzo non vo’ dire; alla fine (la tua favola del sole mi viene a proposito) mai ci trovai sesto.
Migliore. Voi non potevi, messer Salvestro mio, caminare per la buona via, perché avevi due impedimenti, cattiva guida e carico. Bisogna spogliarsi di tutti i mondani affetti, di tutte le passioni della ricchezza, di tutti i travagli della roba e d’ogni faccenda carnale; poi pigliar per compagnia qualche semplice persona, qualche mente pura o qualche elevato spirito; non caminar dietro alle pedate de’ sapienti umani altieri, che si credan di sapere come stanno i cieli, dove si rivoltano le stelle, che effetti fanno i pianeti, che virtú danno gli angeli, che inclinazioni ci porgan gli elementi, e sapere le cose di Dio per sapienza acquistata.
Salvestro. Io crederò esser su’ Marmi, fuor di chiesa, e io mi troverò su le panche alla predica dentro. Or vedi dove tu sei entrato! il mio cervello è appunto da coteste parole! Noi non saremo d’accordo.
Migliore. Ma che gente è questa che spunta qua per la via del Cocomero? Fermate, Salvestro, il vostro ragionamento e stiamo a veder quel che ci è di nuovo. Egli è Ghetto sensale e il Carafulla, che vengono in qua. E’ fia meglio udir le ciancie che dicano, da che ciascun se ne ride; poi, se non stasera, un’altra finiremo il nostro ragionamento.
- ↑ Del Garbo, famoso medico fiorentino, che, testimone Filippo Villani nelle Vite, avrebbe avuto parte nella condanna di Cecco d’Ascoli [Ed.].