I Figli dell'Aria/5 - Gli orrori delle carceri cinesi
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CAPITOLO V.
Gli orrori delle carceri cinesi.
Fedoro, quantunque provasse una sensazione non meno terrificante, spinto da una viva curiosità, si era approssimato al pertugio, il quale, trovandosi solamente a un metro e mezzo dal suolo, permetteva di vedere al di fuori senza dover arrampicarsi.
Non metteva veramente su un cortile, bensì sotto una immensa tettoia, il cui pavimento era formato da un tavolato crivellato di buchi.
Cinque o sei esseri umani, che parevano già agonizzanti, cogli occhi schizzanti dalle orbite, pallidi come se tutto il sangue avesse abbandonato i loro corpi, si contorcevano disperatamente, mandando lugubri lamenti.
Non si vedevano che i loro tronchi, avendo le gambe, fino alle cosce, nascoste entro il tavolato, in quei buchi che già Fedoro aveva notati.
Alcuni aguzzini seminudi, veri tipi di carnefici, si sforzavano di far inghiottire ai martirizzati un po’ di riso e qualche sorso di samsciù, specie di acquavite estratta dal miglio.
— Ah! Infami! — esclamò Fedoro, rabbrividendo. — Quale spaventevole tortura!... Uccideteli piuttosto di tormentare così quei disgraziati.
— Che cosa stanno facendo quei mostri? — chiese Rokoff, additando gli aguzzini.
— Cercano di prolungare l’agonia alle loro vittime.
— E quale spaventevole supplizio subiscono quei miseri? Forse che stritolano lentamente le loro gambe?
— Peggio ancora, Rokoff. Io ho udito parlare di questa atroce tortura e non vi avevo creduto, tanto mi pareva inverosimile.
— Spiegati, Fedoro, sono un uomo di guerra.
— Sotto quell’assito esiste un fossato...
— E poi?
— Pullulante di topi, di vermi, d’insetti d’ogni specie.
— Ah! Comprendo! — esclamò Rokoff, con orrore. — Essi divorano lentamente le gambe di quei miseri.
— Sì, amico.
— Canaglia! Potevano inventare un supplizio più atroce! E non poter far nulla! Se fossi libero accopperei a calci quei carnefici! Questi cinesi hanno il cuore delle tigri! Andiamocene, Fedoro! Quei lamenti mi straziano l’anima!
— E dove andarcene? Sarei ben lieto di poter uscire; invece, come vedi, la porta è chiusa e solida.
— Ti dico che non voglio rimanere più qui, dovessi spezzarmi le ossa contro queste pareti. —
Il bollente cosacco, senza attendere la risposta dell’amico, fidando d’altronde nella sua erculea forza, si scagliò come una catapulta contro la porta, facendola traballare.
— La scardineremo! — gridò. — E allora guai a chi vorrà chiudermi il passo. —
Stava per slanciarsi una seconda volta, quando i due battenti s’aprirono violentemente, mostrando il magistrato seguito da quattro soldati armati di fucili colle baionette innastate.
Fedoro ebbe appena il tempo di gettarsi dinanzi all’amico, il quale, reso maggiormente furioso, stava per scagliarsi contro tutti, risoluto ad impegnare una lotta disperata.
— No, Rokoff, — disse. — Sarebbero troppo contenti di ucciderci!
— Che cosa fate? — chiese il magistrato. — Ancora una ribellione? Questi europei cominciano a diventare troppo importuni.
— Levateci di qui, — disse Fedoro. — Noi non siamo dei cinesi per assistere alle vostre barbarie. Nella vicina tettoia si tormenta e si uccide.
— Sì, dei ribelli che avevano cospirato contro l’impero, — rispose il giudice. — Sono cose d’altronde che riguardano noi e non voi.
— Non possiamo resistere a simili infamie. —
Il giudice alzò le spalle, poi disse:
— Siete aspettati.
— Da chi? Da qualche membro dell’ambasciata? — chiese Fedoro, che aveva avuto un lampo di speranza.
— Non siamo così schiocchi da avvertire il vostro Ambasciatore. È il tribunale che vi aspetta per giudicarvi. Abbiamo fretta di vendicare Sing-Sing.
— E di ucciderci, è vero? — chiese Fedoro, sdegnosamente.
— Sì, se siete colpevoli.
— Tu sai meglio di noi che noi non abbiamo commesso quell’abominevole delitto.
— Il tribunale giudicherà. Venite e non opponete resistenza perchè i soldati hanno ricevuto l’ordine di fare fuoco su di voi.
— Andiamo, — disse Fedoro a Rokoff, dopo avergli tradotto quanto aveva detto il giudice. — Vedremo se il tribunale oserà condannare degli europei senza l’intervento d’un membro dell’Ambasciata russa. —
Ritenendo inutile ogni protesta e troppo pericolosa una nuova resistenza, seguirono il giudice, attraversando parecchi androni quasi bui, dove non si vedevano altro che gabbie destinate ai prigionieri più ricalcitranti, ed entrarono in una saletta quadrata e bassa, ammobiliata con un lurido tavolo sopra cui si vedeva un tappeto ancor più lurido.
Due giudici, appartenenti probabilmente all’alta magistratura, avendo sui loro conici cappelli di feltro il bottone di corallo con fibbia d’oro, insegna dei mandarini di seconda classe, stavano seduti dinanzi al tavolo.
Erano due panciuti cinesi, dalle facce color del limone, con grandi occhiali di quarzo, vestiti di seta a enormi fiori gialli, rossi e azzurrini.
Presso di loro un cancelliere magro e sparuto, stava sciogliendo un bastoncino d’inchiostro di Cina e preparando dei pennelli, non conoscendo ancora i cinesi la penna o reputandola per lo meno inutile per le loro calligrafie veramente mostruose.
In un angolo invece si tenevano ritti due individui d’aspetto sinistro, che portavano alla cintura certi coltellacci da far rabbrividire. Erano due esecutori della giustizia, pronti a far subire ai condannati i più atroci tormenti, anche lo spaventoso ling-cih o taglio dei diecimila pezzi, riservato ai traditori e ai più pericolosi delinquenti.
Nel vederli, Fedoro aveva provato un lungo brivido.
I due mandarini si sussurrarono alcune parole, guardando di traverso i due europei, poi il più anziano si volse verso Fedoro, chiedendogli:
— Voi comprendete il cinese?
— Sì, ma il mio compagno non parla che il russo, quindi domando che vi sia un interprete dell’Ambasciata russa.
— Tradurrete voi; noi non vogliamo stranieri qui, all’infuori dei colpevoli.
— Noi non siamo sudditi cinesi, quindi voi non avete alcun diritto di giudicarci senza la presenza d’un rappresentante del nostro paese.
— Per far intervenire l’Ambasciatore e levarvi dalle nostre mani? Oh! Le conosciamo queste cose.
— Io protesto.
— Lo farete poi, — disse il mandarino. — Voi siete accusati di aver assassinato Sing-Sing, un fedele suddito dell’Impero.
— Chi lo afferma?
— Tutta la servitù di Sing-Sing ha deposto contro di voi.
— Sono dei miserabili, degli affiliati alla società segreta della Campana d’argento, che per salvare i veri assassini incolpano noi.
— Sì, sì, la vedremo. Da dove venite voi?
— Io ed il mio amico Rokoff, ufficiale dell’armata russa, siamo sbarcati a Taku sette giorni or sono per venire qui ad acquistare cinquecento tonnellate di the.
— Siete un negoziante di the, voi?
— Sì, e la mia casa si trova a Odessa.
— Siete venuto altre volte in Cina?
— Tutti gli anni ci torno.
— E conoscevate Sing-Sing?
— Da molto tempo ed ero suo amico. Quale scopo dovevo dunque avere io per assassinarlo?
— L’odio che tutti gli europei nutrono verso di noi e...
— Mentite!
— E poi quello di derubarlo, perchè il suo forziere è stato trovato vuoto.
— E dove volete che noi abbiamo nascosto il suo denaro?
— Chi mi assicura che non abbiate avuto dei complici? — chiese il mandarino. — Il maggiordomo di Sing-Sing ha affermato d’aver veduto delle persone sospette aggirarsi intorno al palazzo, anche dopo che tutte le lanterne erano state spente.
— Allora è lui il colpevole! È lui il ladro! È lui che ha protetto gli affiliati della Campana d’argento.
— Il maggiordomo era affezionato al suo padrone; tutta la servitù lo ha confermato.
— Sicchè voi siete convinto che Sing-Sing sia stato assassinato da noi? —
Il mandarino alzò le braccia, poi le lasciò ricadere con un gesto di scoraggiamento, più simulato però che reale.
Fedoro fu preso da un impeto di furore.
— Voi non ci ucciderete, canaglie! — urlò, battendo furiosamente il pugno sul tavolo. — Noi siamo innocenti e per di più europei.
— Se siete innocenti, provatelo, — rispose il mandarino con calma.
— Cominciate coll’arrestare il maggiordomo e costringerlo a confessare la verità. A voi i mezzi non mancano per strappargli quanto egli sa e che non vuol dire.
— Non abbiamo alcun motivo per tradurlo qui e sottoporlo alla tortura. Non è già nella sua stanza che fu trovato il pugnale che servì agli assassini per trucidare Sing-Sing.
— Siete dei banditi!...
— Dei giudici.
— No, delle canaglie, che per odio di razza volete sopprimerci, ma le Ambasciate europee non vi permetteranno di compiere una simile infamia. —
Il mandarino alzò le spalle, poi fece un gesto.
Prima che Fedoro e Rokoff potessero sospettare ciò che significava, si sentirono afferrare per le spalle e per le braccia da dieci mani vigorose ed atterrare.
Una banda di carnefici o di carcerieri, tutti di statura gigantesca, era entrata silenziosamente nella sala ed al cenno del mandarino si era scagliata improvvisamente sui due europei, prendendoli di sorpresa.
Nè Fedoro, nè Rokoff avevano avuto il tempo di opporre la menoma resistenza, tanto quell’assalto era stato fulmineo.
Mentre i giudici si ritiravano per deliberare sulla pena da infliggersi ai due colpevoli, i carcerieri ed i carnefici, aiutati anche dai soldati, strappavano di dosso ai due russi le loro vesti, costringendoli ad indossare una ruvida keu-ku, specie di casacca fornita d’ampie maniche ed un paio di keu-ku, sorta di calzoni molto ampi che formano sul ventre una doppia piega e che usano portare i barcaioli ed i contadini.
Levarono quindi loro gli stivali, surrogandoli invece con le ha-tz, ossia scarpe grosse, a punta quadra e un po’ rialzata, con suola di feltro bianco, poi con pochi colpi di rasoio fecero cadere le loro capigliature, non lasciando coperta che parte della nuca.
Era una trasformazione completa: i due europei erano diventati due cinesi e per di più dell’ultima classe.
Quando quei manigoldi ebbero finito, sollevarono violentemente Fedoro e Rokoff e li cacciarono a forza entro una gabbia di bambù, d’una solidità a tutta prova e così stretta da contenerli a malapena.
Quando Rokoff si sentì libero, mandò un vero ruggito. S’aggrappò alle sbarre e le scosse con furore, mentre dalle sue labbra contratte uscivano urla feroci.
— Banditi! Canaglie! Vi mangerò il cuore! Siamo europei! Aprite o vi uccido tutti! —
Erano vani sforzi. I bambù non si piegavano nemmeno, quantunque l’ufficiale, come abbiamo detto, fosse dotato d’una forza più che straordinaria.
Fedoro invece, accasciato da quell’ultimo colpo, si era lasciato cadere in fondo alla gabbia girando intorno sguardi inebetiti.
Intanto il cancelliere era rientrato tenendo in mano un cartello su cui si vedevano dipinte delle lettere contornate da geroglifici superbi. Lo mostrò per un momento ai due prigionieri, poi lo appese sotto la gabbia.
Fedoro era diventato orribilmente pallido e si era avventato contro le traverse come se avesse voluto strappare al cancelliere quel cartello che annunciava la loro pena.
Ed infatti aveva potuto leggere:
Condannati a morte perchè assassini.
Subito otto uomini avevano alzato la gabbia ed erano entrati in un’altra sala dove se ne vedevano parecchie altre contenenti ciascuna due prigionieri, ma molto più piccole, tanto anzi, che i disgraziati che vi erano rinchiusi non potevano fare il più piccolo movimento senza mandare urla spaventose.
— Fedoro, — disse Rokoff, che aveva gli occhi schizzanti dalle orbite. — È finita, è vero?
— Sì, se non interviene l’Ambasciatore russo.
— E oseranno ucciderci?
— Come cinesi.
— Perchè ci hanno vestiti così?
— Onde nessuno possa sospettare che noi siamo europei.
— E come ci faranno morire?
— Non so... ma ho paura e sento che divento pazzo!... —