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gli orrori delle carceri cinesi 37


— Spiegati, Fedoro, sono un uomo di guerra.

— Sotto quell’assito esiste un fossato...

— E poi?

— Pullulante di topi, di vermi, d’insetti d’ogni specie.

— Ah! Comprendo! — esclamò Rokoff, con orrore. — Essi divorano lentamente le gambe di quei miseri.

— Sì, amico.

— Canaglia! Potevano inventare un supplizio più atroce! E non poter far nulla! Se fossi libero accopperei a calci quei carnefici! Questi cinesi hanno il cuore delle tigri! Andiamocene, Fedoro! Quei lamenti mi straziano l’anima!

— E dove andarcene? Sarei ben lieto di poter uscire; invece, come vedi, la porta è chiusa e solida.

— Ti dico che non voglio rimanere più qui, dovessi spezzarmi le ossa contro queste pareti. —

Il bollente cosacco, senza attendere la risposta dell’amico, fidando d’altronde nella sua erculea forza, si scagliò come una catapulta contro la porta, facendola traballare.

— La scardineremo! — gridò. — E allora guai a chi vorrà chiudermi il passo. —

Stava per slanciarsi una seconda volta, quando i due battenti s’aprirono violentemente, mostrando il magistrato seguito da quattro soldati armati di fucili colle baionette innastate.

Fedoro ebbe appena il tempo di gettarsi dinanzi all’amico, il quale, reso maggiormente furioso, stava per scagliarsi contro tutti, risoluto ad impegnare una lotta disperata.

— No, Rokoff, — disse. — Sarebbero troppo contenti di ucciderci!

— Che cosa fate? — chiese il magistrato. — Ancora una ribellione? Questi europei cominciano a diventare troppo importuni.

— Levateci di qui, — disse Fedoro. — Noi non siamo dei cinesi per assistere alle vostre barbarie. Nella vicina tettoia si tormenta e si uccide.

— Sì, dei ribelli che avevano cospirato contro l’impero, — rispose il giudice. — Sono cose d’altronde che riguardano noi e non voi.

— Non possiamo resistere a simili infamie. —

Il giudice alzò le spalle, poi disse:

— Siete aspettati.

— Da chi? Da qualche membro dell’ambasciata? — chiese Fedoro, che aveva avuto un lampo di speranza.