Guerra dei topi e delle rane/Canto terzo

Canto terzo

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Omero - Guerra dei topi e delle rane (Antichità)
Traduzione dal greco di Giacomo Leopardi (1826)
Canto terzo
Canto secondo
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CANTO III






I


Eran le squadre avverse a fronte a fronte,
    E de le grida bellicose il suono
    Per la valle eccheggiava e per lo monte;
    Rotava il Padre un lungo immenso tuono,
    E con le trombe lor mille zanzare
    De la pugna il segnal vennero a dare.



II


Strillaforte primier fattosi avanti,
    Leccaluom percotea d’un colpo d’asta.
    Non muor, ma su le zampe tremolanti
    Il poverino a reggersi non basta:
    Cade; e a Fangoso Sbucatore intanto
    Passa il corpo da l’uno a l’altro canto.

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III


Volgesi il tristo infra la polve, e more:
    Ma Bietolaio con l’acerba lancia
    Trapassa al buon Montapignatte il core.
    Mangiapan Moltivoce per la pancia
    Trafora e lo conficca in sul terreno:
    Mette il ranocchio un grido, e poi vien meno.



IV


Godipalude allor d’ira s’accende,
    Vendicarlo promette, e un sasso toglie,
    L’avventa, e Sbucator nel collo prende:
    Ma per di sotto Leccaluomo il coglie
    Improvviso con l’asta, e ne la milza
    (Spettacol miserando) te l’infilza.



V


Vuol fuggir Mangiacavoli lontano
    Da la baruffa, e sdrucciola ne l’onda;
    Poco danno per lui, ma nel pantano
    Leccaluomo e’ traea giù de la sponda,
    Che rotto, insanguinato, e sopra l’acque
    Spargendo le budella, orrido giacque.

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VI


Paludano ammazzò Scavaformaggio:
    Ma vedendo venir Foraprosciutti,
    Giacincanne perdessi di coraggio;
    Lasciò lo scudo e si lanciò ne i flutti.
    Intanto Godilacqua un colpo assesta
    Al buon Mangiaprosciutti ne la testa.



VII


Lo coglie con un sasso; e per lo naso
    A lui stilla il cervello, e l’erba intride.
    Leccapiatti al veder l’orrendo caso,
    Giacinelfango d’una botta uccide;
    Ma Rodiporro, che di ciò s’avvede,
    Tira Fiutacucine per un piede.



VIII


Da l’erta lo precipita nel lago;
     Seco si getta, e gli si stringe al collo;
     Finchè nol vede morto, non è pago.
     Se non che Rubamiche vendicollo:
     Corse a Fanghin, d’una lanciata il prese
     A mezzo la ventresca e lo distese.

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IX


Vaperlofango un po’ di fango coglie,
    E a Rubamiche lo saetta in faccia
    Per modo che ’l veder quasi gli toglie.
    Crepa il sorcio di stizza, urla e minaccia;
    E con un gran macigno al buon ranocchio
    Spezza due gambe e stritola un ginocchio.



X


Gracidante s’accosta allor pian piano,
    E al vincitor ne l’epa un colpo tira.
    Quel cade, e sotto la nemica mano
    Versa gli entragni insanguinati e spira.
    Ciò visto Mangiagran, da la paura
    Lascia la pugna, e di fuggir procura.



XI


Ferito e zoppo, a gran dolore e stento,
    Saltando, si ritragge da la riva;
    Dilungasi di cheto e lento lento,
    Finchè per sorte a un fossatello arriva.
    Intanto Rodipane a Gonfiagote
    Vibra una punta, e l’anca gli percote.

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XII


Ma zoppicando il ranocchione accorto
    Fugge, e d’un salto piomba nel pantano.
    Il topo, che l’avea creduto morto,
    Stupisce, arrabbia, e gli sta sopra invano,
    Chè del piagato re fatto avveduto,
    Correa Colordiporro a dargli aiuto.



XIII


Avventa questi un colpo a Rodipane,
    Ma non gli passa più che la rotella.
    Così fra’ topi indomiti e le rane
    La zuffa tuttavia si rinnovella:
    Quando improvviso un fulmine di guerra
    Su le triste ranocchie si disserra.



XIV


Giunse a la mischia il prence Rubatocchi,
    Giovane di gran cor, d’alto legnaggio;
    Particolar nemico de’ ranocchi;
    Degno figliuol d’Insidiapane il saggio;
    Il più forte de’ topi ed il più vago,
    Che di Marte parea la viva imago.

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XV


Questi sul lido in rilevato loco
    Postosi, a’ topi suoi grida e schiamazza;
    Aduna i forti, e giura che fra poco
    De le ranocchie estinguerà la razza.
    E da ver lo faria; ma il padre Giove
    A pietà de le misere si move.



XVI


Oimè, dice agli Dei, qui non si ciancia:
    Rubatocchi, il figliuol d’Insidiapane,
    Si dispon di mandare a spada e lancia
    Tutta quanta la specie de le rane;
    E ’l potria veramente ancor che solo:
    Ma Palla e Marte spediremo a volo.



XVII


Or che pensiero è il tuo? Marte rispose:
    Con gente così fatta io non mi mesco.
    Per me, padre, non fanno queste cose,
    E s’anco vo’ provar, non ci riesco:
    Nè la sorella mia, dal ciel discesa,
    Faria miglior effetto in quest’impresa.

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XVIII


Tutti piuttosto discendiamo insieme.
    Ma basteranno, io penso, i dardi tuoi.
    I dardi tuoi che tutto il mondo teme,
    Ch’Encelado atterraro e i mostri suoi,
    Scaglia de’ topi ne l’ardita schiera;
    E a gambe la darà l’armata intera.



XIX


Disse; e Giove acconsente, e un dardo afferra:
    Avventa prima il tuon, ch’assordi e scota
    E trabalzi da’ cardini la terra;
    Indi lo strale orribilmente rota;
    Lo scaglia; e fu quel campo in un momento
    Pien di confusione e di spavento.



XX


Ma il topo, che non ha legge nè freno,
    Poco da poi torna da capo, e tosto
    Vanno in rotta i nemici e vengon meno.
    Ma Giove, che salvarli ad ogni costo
    Deliberato avea, gente alleata
    A ristorar mandò la vinta armata.

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XXI


Venner certi animali orrendi e strani,
    Di razza sopra ogni altra ossosa e dura:
    Gli occhi nel petto avean, fibre per mani,
    Il tergo risplendente per natura,
    Curve branche, otto piè, doppia la testa,
    Obliquo il camminar, d’osso la vesta.



XXII


Granchi son detti: e quivi a la battaglia
    Lo scontraffatto stuol non prima è giunto
    Che si mette fra’ sorci, abbranca, taglia,
    Rompe, straccia, calpesta. Ecco in un punto
    Sconfitto il vincitor; la rana il caccia,
    E quelli onde fuggia, fuga e minaccia.



XXIII


A’ granchi ogni arme si fiaccava in dorso:
    Fero un guasto, un macello innanzi sera,
    Mozzando or coda or zampa ad ogni morso.
    E già cadeva il Sol, quando la schiera
    De’ topi si ritrasse afflitta e muta:
    E fu la guerra in un sol dì compiuta.