Umbria, dopo il tabacco il nulla

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Umbria, dopo il tabacco il nulla
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AGRICOLTURA E REGIONI: I NODI AL PETTINE

Una terra dai connotati caratteristici del Centro, collinare e asciutto, l'eredità di un'antica frammentazione, gli splendori già offuscati del recente boom del tabacco. Alla guida politica una Giunta che garantisce continuità, non priva di dinamismo, di fronte alla quale sono problemi le cui dimensioni trascendono le dimensioni regionali, esorbitano da quelle nazionali.


“Ci siamo svegliati da un sogno: tanto bello era il sogno tanto amaro è il risveglio. Il sogno è stato la crescita della nostra agricoltura nell’arco di anni tra il 1970 ed il 1977, una crescita che si realizzava con tassi di sviluppo tra i più alti del Paese. La nostra, si deve ricordare, era la regione della mezzadria peggiore d'Italia, una forma di conduzione arretrata che coartava gli impulsi di sviluppo cui avrebbero potuto rispondere, autonomamente, tanto i coltivatori quanto i concedenti: la causa storica del ritardo che avevamo iniziato a ricolmare, a tappe forzate, tali da giustificare il più caloroso compiacimento. La locomotiva che ha sospinto la nostra rinascita agricola è stato il tabacco, che nel quadro comunitario ha trovato nella nostra terra un ambiente ideale, ed una pluralità di forze che hanno saputo cogliere l’occasione: agricoltori e cooperative, commercianti e multinazionali, in una competizione che ha creato il sinergismo più proficuo. Tutti hanno contribuito alla vitalità del settore, e quella vitalità ha prodotto grandi investimenti, ha creato un flusso di redditi che ha sostenuto le produzioni meno forti, che si è riversato nelle banche ravvivando l'economia nel suo complesso. Poi, l'effetto delle grandi campagne contro il fumo, le difficoltà mercantili del Bright, il perno della coltura nella regione, insieme alla crisi profonda delle produzioni diverse, zootecnia e olivo, hanno mutato il quadro, le cui luci hanno cominciato a spegnersi negli ultimi anni '70, con un aggravarsi progressivo della situazione, che ci impone, oggi, di fronte ad un contesto di crisi generalizzata, di impegnarci seriamente a inventare un futuro per la nostra agricoltura.”

Anatomia politica

Chi mi propone questa immagine crudamente realistica dell'agricoltura dell'Umbria è Pierfrancesco Ghirelli, meno di quarant'anni ed un curriculum già denso di incarichi prestigiosi, presidente del gruppo consiliare comunista alla Regione, una pista dalla quale non è difficile prevedere il decollo verso mete ancora più ambiziose. Ghirelli è il primo degli interlocutori di cui confronto diagnosi e prognosi, in un rapido itinerario umbro, sullo stato di salute dell'agricoltura di una regione le cui caratteristiche sono quelle emblematiche del Centro, collinare e seccagno, mosaico di poche grandi aziende e di una miriade di minifondi inferiori a tutti i canoni della razionalità agronomica, dalle potenzialità pressoché illimitate nelle aree irrigue, e dalla rigidità in valicabile in quelle asciutte, per la produzione di entrambe le fasce segnato dall’'arretratezza dei circuiti commerciali e dalla frammentarietà dell'apparato agroindustriale. Una regione che vanta, tuttavia, un autentico primato di stabilità politica: la maggioranza socialcomunista è istituzione altrettanto radicata, in Umbria, dell'ordine dei Francescani. Una regione che costituisce caso emblematico per verificare, su un ideale tavolo di dissezione agropolitica, la capacità dell'istituzione regionale di affrontare i mutamenti repentini, e non sempre favorevoli, il tabacco insegna, dell’economia agraria, misurando le forze e le tensioni che sommuovono gli equilibri agrari locali: le produzioni e i redditi, i rapporti tra le parti del processo produttivo e gli organismi che le rappresentano.

Collina e montagna

L'ascesa, lo splendore e la caduta dei tabacco è il perno logico sul quale sviluppa il proprio schizzo del panorama agricolo regionale anche Walter Trivellizi, ventotto anni, laureato in agronomia, presidente regionale della Confcoltivatori.

“I fasti di una coltura che ha vissuto un decennio felice hanno accentuato - mi spiega-, il divario di produttività e di redditi tra le aree pianeggianti, meno del 10 per cento della superficie regionale, e quelle collinari e montane, dove insieme alla mezzadria si è dissolta quella zootecnia che della mezzadria era complemento necessaria: la zootecnia degli animali da lavoro. Una zootecnia povera, priva di legami con il mercato, ma un'attività produttiva cui non è stato facile sostituire produzioni alternative. I tentativi esperiti per la creazione di una zootecnia cooperativa sono abortiti in conati privi di qualunque risultato: tanto per la carne, siccome nelle aree di produzione del bestiame “bianco” il mercato è rimasto solidamente nelle mani degli antichi sensali e incettatori, quanto per il latte, poiché la creazione di nove cooperative di trasformazione si è risolta in un inutile sperpero di denaro pubblico. La popolazione dell'intera regione tocca gli 800.000 abitanti, quella di una grande città: l'idea che per offrire al mercato regionale derivati del latte a valore aggiunto non elevato occorressero nove grandi impianti non aveva -annota il mio interlocutore-, grande fondamento. E il mercato l'ha bocciata. Adesso sarà giocoforza trasformarne più di uno in semplice centro di raccolta: intanto, però, i miliardi sono stati gettati. E mentre il tabacco si avviava alla crisi, per le produzioni diverse la crisi era già drammatica realtà, tanto che nel tabacco cercava rifugio anche chi al tabacco non si era mai dedicato. Così l'anno scorso all'esplosione delle superfici ha coinciso una quota ingente di appezzamenti impiantati su terreni poco vocati, con l'inevitabile caduta della qualità, aggravata dalla siccità, che ha compromesso anche la produzione dei terreni migliori. Una produzione eccessiva, e di qualità scadente, ha dovuto misurarsi, così, con una domanda cedente: la miscela dei tre fattori è stata letale. Ne è risultata una cri si di mercato senza precedenti, la dimostrazione ineludibile che col tabacco si deve cambiare strada: ridurre e riconvertire. Due obiettivi per i quali sussiste un impegno generale, la Regione ha elaborato un piano lungimirante e coraggioso, ma che richiederà tempo. E che non garantisce di riacchiappare la gallina dalle uova d'oro che ha preso il volo.”

Chianina e Torgiano

“La nostra agricoltura è di fronte ad un bivio. O, meglio, ha smarrito la strada, e deve affrontare la cruda necessità di trovare strade nuove -conferma Augusto Bocchini, trentotto anni, agronomo, una grande azienda cerealicola, presidente della Federazione regionale degli agricoltori, l'espressione umbra della Confagricoltura di Stefano Wallner-. Ha perduto la strada perché i presupposti economici sui quali si fondavano, nel decennio scorso, gli equilibri delle nostre aziende si sono dissolti. Pensiamo a quelle di dimensioni maggiori, nelle aree collinari, dove avevano trovato un assetto funzionale in una cerealicoltura molto efficiente: grano tenero, un poco di duro, girasole, negli ultimi anni anche colza. Con la tassa di corresponsabilità sul grano, l'assurda esclusione della regione dall'area di erogazione del premio al grano duro, un autentico colpo di sole del Ministero, e la minaccia, sempre incombente, che la Comunità riduca l'aiuto al girasole, quell'assetto non ha più un futuro. Il tabacco è stato, tradizionalmente, la risorsa delle aree più fertili della Val Tiberina, fertili ma soggette a gelate tardive, dove quindi era indispensabile coltivare una pianta che si insediasse nei campi dopo che il pericolo era cessato. Ma il tabacco ha conosciuto una dilatazione di superfici al di là di ogni razionalità, responsabili anche i sindacati, che per accrescere l'occupazione hanno costretto a coltivare tabacco anche chi non ne aveva nessuna intenzione, e sarebbe stato meglio continuasse a fare altro. La zootecnia: chi alleva la Chianina in purezza, al pascolo, per produrre vitelli, i vitelli non sa più a chi dadi. L'ingrasso nella regione è morto, sopravvive qualche cooperativa, frutto di furori che sono costati miliardi, che non può chiudere per il principio fisico, e finanziario, dell'inerzia. Il latte, la grande scelta della Regione dopo il terremoto, quando si stabilì di costellare la Valnerina di caseifici, era scelta priva di fondamenta, e non ha retto al confronto con la realtà crudele del latte nello scenario comunitario. Sopravvive la piccola zootecnia marginale: di nostri associati impegnati nel latte con una stalla degna del nome non si contano più di cinquanta-sessanta aziende. L'olivo, una coltura tradizionale, con un prestigio che ha un preciso, tangibile valore commerciale, è stato messo in ginocchio dalla gelata dell'anno scorso, dopo la quale siamo stati inondati di promesse cui, nei fatti, è seguito ben poco. Resta la vite: della schiera multiforme delle cooperative attraverso le quali è stato sperperato tanto denaro pubblico, le cantine sociali sono l'unico drappello vitale, che fa bilanci decorosi e che ha consolidato, grazie ai bilanci, la fedeltà dei soci. La viticoltura produce e vende, sottolineo, non solo nelle aree che offrono i vini dal nome più illustre, Orvieto e Torgiano, va bene anche nelle aree dai vini meno noti, dove si produce e si vende favorevolmente. Trascurando gli effetti della tragedia metanolo. Che nessuno sa dove si fermeranno.”

Coop e Cap

Se il quadro produttivo è tanto denso di ombre, tanto povero di luci, quale è la fisionomia dell'apparato attraverso il quale i vostri prodotti, freschi o trasformati, raggiungono il mercato? L'Umbria è sede tradizionale di grandi pastifici e mangimifici: sono un complemento sufficiente dell'agricoltura regionale, o l'agricoltura umbra avrebbe bisogno di un apparato agroindustriale diverso? Cosa fanno le coperative? E i consorzi agrari, chiedo al mio interlocutore?

“Credo che l'assenza di un apparato agroindustriale sia la remora più grave -mi risponde Augusto Bocchini-, alla ricerca, da parte della nostra agricoltura, di quelle strade nuove senza trovare le quali è destinata alle sabbie mobili. L'inventario è desolante: la regione vantava il grande patrimonio della Buitoni, che la famiglia che l'aveva creata ha ceduto al gruppo De Benedetti, che non segue, palesemente, strategie locali, ma nazionali, o multinazionali. Il pastificio Ponte è stato ceduto, invece, ai francesi della Gervais Danone: un'altra società multinazionale che non sappiamo quale strategia seguirà. Dei tre grandi mangimifici operanti nella regione quello di Valigi, in difficoltà, è stato rilevato, recentemente, con tutti i crismi della politica, dalla Lega. Sull'operazione non è possibile esprimere, per il momento, alcun giudizio: seguiremo con attenzione gli sviluppi, per arrivare a formularne uno. Per il tabacco, due grandi multinazionali, una è la Philip Morris, sono presenti con impianti di altissimo livello tecnologico, e un ammirevole dinamismo deve essere riconosciuto anche alla Fat, un'azienda che riunisce centinaia di agricoltori in forma di società semplice, quindi con responsabilità illimitata: una prova, credo, di quale possa essere il grado di partecipazione degli agricoltori quando la cooperazione non è il toccasana evocato da vati e astrologhi estranei al mondo agricolo, ma la strada per soddisfare esigenze obiettive degli agricoltori. E questo in una regione dove lo spirito cooperativistico è tutt'altro che radicato, ma dove può diffondersi. Il secondo esempio illuminante è quello delle cantine sociali: da quando i bilanci hanno dimostrato che erano lo sbocco più vantaggioso dell'uva, il loro ruolo si è consolidato, i produttori hanno cominciato a conferire regolarmente, e da semplici conferenti hanno acquisito lo spirito di autentici soci. Ma attorno a queste isole felici c'è il deserto: restando nella sfera del tabacco, esclusa la Fat e Santa Giustina, una cooperativa efficiente, delle altre, rosse o bianche, con i nuovi equilibri dovremmo dire rosa, molte non sono riuscite ad imporre la propria presenza sul mercato neppure negli anni più favorevoli: sperare che ci riescano nello scenario agitato dalla crisi può costituire solo prova di ingenuità, o di sicumera. La cooperazione zootecnica è una voragine in cui la Regione continua a gettare, a saldo degli errori che ha commesso e delle illusioni che ha alimentato, fiumi di miliardi. Che arrivando in ritardo non bastano mai, tanto che dopo ogni ripianamento si deve cominciare a preparare quello successivo. C'era nella regione uno zuccherificio, a Foligno: ha chiuso. Il Consorzio agrario non è mai stato capace di fare più che vendere trattori e fertilizzanti: nessun impegno nella sfera della trasformazione, nessuno in quella della vendita dei prodotti agroalimentari, il grande obiettivo mancato, peraltro, su scala nazionale, dalla casa madre. Se è vero che oggi si dovrebbe produrre solo con la certezza di collocamento, come si fa nell'industria, perché produrre molto non serve a nulla se non si è sicuri di vendere, sui canali attraverso i quali i nostri prodotti raggiungono i mercati manchiamo di qualsiasi strumento di controllo, siamo in balia di forze di mercato sulle cui manifestazioni siamo assolutamente impotenti. E se lo siamo per le derrate tradizionali della regione, lo siamo tanto più per le produzioni sulle quali potremmo puntare per la riconversione che si impone alla nostra agricoltura. Potremmo, credo, giocare carte significative nell'ortofrutta: ma con quali strumenti, per la commercializzazione del prodotto fresco? E per la trasformazione e la vendita del prodotto a destinazione industriale?”

Quale buongoverno?

Se l'agricoltura umbra vive un travaglio profondo, e se l'apparato agro industriale sul quale può contare non offre nessun perno sicuro sul quale intraprendere la riconversione che le è imposta, cosa ha fatto la Regione, la monolitica giunta “rossa” per prevenire, o attenuare, la crisi che avanzava, cosa fa per controllarne le conseguenze, assicurare all'agricoltura regionale vie di uscita? Lo chiedo al capogruppo comunista nel Consiglio regionale.

“La regione ha assecondato lo sviluppo della tabacchicoltura, favorendo lo sfruttamento di quella che è stata, obiettivamente, una grande opportunità economica, ha operato la scelta zootecnica, invece, commettendo un grave errore. Adesso si è mossa con tempismo per promuovere la riconversione della produzione di tabacco, stimolando intese per la riduzione delle superfici, ricerche e prove colturali per spostare l'epicentro della produzione dal Bright al “cimato”, una coltura che nelle nostre campagne si deve imparare a realizzare con la maestria che era stata conseguita per il primo tipo. Perché il tabacco non è finito -sottolinea Ghirelli-, è in crisi, una crisi inarrestabile se vogliamo, che lascia aperti, tuttavia, spazi considerevoli a chi sappia produrre quello che un mercato in contrazione è disposto a pagare di più. Ma al di là dei problemi concreti, è sul terreno istituzionale che dobbiamo misurarci con un quadro nuovo, riformando strutture, riscrivendo leggi, facendo meglio quella programmazione che ci siamo sempre proposti come obiettivo, della cui realizzazione abbiamo verificato tutte le difficoltà. Soprattutto direi, per le contraddizioni della legislazione nazionale, che non ci esimono dal misurarci con le insufficienze che possiamo riscontrare nella nostra azione. Per rispondere alle esigenze della società è necessario mirare, oggi, alla chiarezza delle leggi, alla snellezza e all'efficienza amministrativa. Dobbiamo sostituire un numero di leggi eccessivo con pochi testi unici, che tutti possano consultare e capire. Poi affidarne l'esecuzione agli organismi meglio preparati a:d attuarle. Se abbiamo la consapevolezza di fare buone leggi, dobbiamo anche essere sicuri che l'istituzione cui ne affidiamo l'esecuzione sia in grado di applicarle.”

Non esiste, mi meraviglio, nella cultura politica di sinistra, il canone che impone la delega dei compiti di amministrazione dell'agricoltura a comuni, comunità montane, comprensori e affini? Come supremo imperativo democratico, qualsiasi siano le capacità operative degli uffici comunali?

“Sulle deleghe in Umbria possiamo dichiararci liberi da qualsiasi tabù -è la risposta di Ghirelli-: siamo una piccola regione di 800.000 abitanti, le dimensioni di un grande quartiere di Roma. Qualsiasi ripartizione di compiti dimostri di poter funzionare la possiamo accettare. Nell'incertezza che gli enti minori non siano in grado di esprimere l'efficienza cui dobbiamo mirare, nulla ci impone di delegare: date le dimensioni, niente ci impedisce di amministrare, eventualmente, dal centro.”

Miti in conflitto

Ripropongo la medesima do manda a Carlo Gubbini, assessore regionale all'agricoltura: meno di cinquant'anni, astro nascente del managerialismo craxiano in terra di San Francesco. Il quale mi spiega che nella vicenda delle regioni ha esercitato il proprio imperio il principio fisico dell'azione e della reazione. “Ricordo i tempi in cui dalle regioni saliva il coro che chiedeva l'abolizione del Ministero dell'agricoltura -mi confida-: sono passati poco più di dieci anni, paiono anni-luce. Siamo stati travolti, in Italia, dall'ebbrezza panregionalista come lo eravamo stati da quella pansindacalista. Un eccesso, come tale irragionevole: a dimostrarlo è sufficiente riflettere sulle dimensioni internazionali dei mercati delle derrate agricole, quei mercati i cui equilibri, o squilibri, hanno dimostrato tanto traumaticamente il proprio peso condizionante, negli anni più recenti, sul nostro sistema agroalimentare. O ricordare le coercizioni schiaccianti, per la nostra agricoltura, che impone Bruxelles, dove la nostra agricoltura deve essere rappresentata dal Ministro, e possibilmente da un Ministro autorevole. E’ stato un eccesso che ha generato, per un meccanismo perverso, un eccesso di segno contrario: ad esaminare la legislazione statale più recente emerge la tendenza, insistente, pervicace, all’espropriazione dei compiti regionali a favore degli organismi ministeriali”

Di cosa può mai riappropriarsi, mi stupisco, una apparato la cui mummificazione ne fa, ormai, reperto per un museo sull’agricoltura egizia?

“Del piano di spesa proposto da Pandolfi, complessivamente 16.500 miliardi, al Maf ne verrebbero riservati 8.000, la metà: una mummia egizia che pretende di spendere 8.000 miliardi è una mummia che gode di buon appetito, una mummia in ottima salute -ride divertito Gubbini-. Quindi, insisto, da un eccesso, a quello opposto, con un Ministero che manca di assolvere, sistematicamente, ai propri compiti veri, che restano inevasi. Se oggi, ne sono profondamente convinto, il Ministero assumesse le proprie responsabilità, internazionali e nazionali, di grande indirizzo, invece delle ritrosie di una volta susciterebbe un coro di applausi. Ma rivendicare compiti amministrativi non è dimostrare di saper assolvere alle proprie funzioni. È il modo per alimentare una contesa che la ragione vorrebbe fosse chiusa per sempre. Ma se il Ministero è un cadavere in buona salute, le regioni, obietto, paiono creature bisognose di cento protesi, cui nessun mago dell'ortopedia politica pare poter più imprimere vitalità e dinamismo amministrativo.

“Evitiamo le generalizzazioni -replica, categorico, Gubbini-: se ci sono, soprattutto al Sud, regioni alla deriva nell'inefficienza, ce ne sono tante, nella geografia della Penisola, che stanno mostrando di saper assolvere ai propri compiti. Manca, se vogliamo, quel coordinamento che costituisce, oggi, esigenza impellente. Ma per realizzarlo sarebbe sufficiente apprestare, finalmente, gli strumenti necessari, innanzitutto attribuendo natura istituzionale a quella conferenza delle presidenze regionali che già sussiste presso la Presidenza del Consiglio. Bisogna, cioè, evolvere il meccanismo da cui le regioni hanno avuto vita, non di condannare l'istituzione per carenze di cui non sono direttamente responsabili.” Parti, controparti

Un quadro agricolo difficile, una Giunta regionale determinata a svolgere un ruolo di protagonista: quale parte recitano, di fronte al governo regionale, e nei rapporti reciproci, le organizzazioni che rappresentano il mondo agricolo? Lo chiedo a Augusto Bocchini. “Ci troviamo ad operare in una regione il cui governo è solidamente nelle mani di una maggioranza dalle precise connotazioni politiche –è la risposta del mio interlocutore-. Non è nostro compito, né nostro interesse, contestare quella maggioranza, che esprime, rileviamo, anche uomini di considerevoli capacità. Come organizzazione di imprenditori con quella maggioranza ci confrontiamo sulle scelte economiche, contestiamo quelle che offendono la logica imprenditoriale, siamo disponibili ad operare, invece, nello spirito della collaborazione, sui terreni in cui è possibile stimolare la crescita, tecnologica ed economica, della nostra agricoltura. Notiamo con interesse, su questo piano, che tra i responsabili regionali va facendosi strada, di fronte alla crisi, la consapevolezza dell'inanità di erogare denaro secondo la considerazione dei destinatari, e della necessità di convogliare le risorse disponibili verso le imprese capaci di avvalersene per progredire, ne siano titolari conduttori in economia, vi svolgano il proprio lavoro coltivatori diretti. Non è, questa, notoriamente, l'opzione di altre forze agrarie, con le quali pure siamo aperti al confronto e alla collaborazione. Non può non suscitare il nostro compiacimento, tuttavia, constatare che la coerenza della nostra filosofia viene imposta dalla stessa realtà delle cose –sottolinea Augusto Bocchini-, e riconosciuta dai responsabili politici.” “Non siamo, per l’identità di matrice politica, la quarta colonna della Giunta -proclama Walter Trivellizzi: siamo, in autonomia di valutazioni e di impegni, disponibili alla collaborazione, pronti, ove necessario, alla critica. E con le altre due organizzazioni imprenditoriali i nostri rapporti sono improntati a reciproco rispetto e, direi, ad una collaborazione sempre più fatti va, di fronte ai problemi che impongono a tutti scelte concrete. Una nota stonata, che rilevo in un quadro sostanzialmente positivo, è stata, tuttavia, la recente manifestazione della Coldiretti, imperniata su un'arringa di opposizione tanto radicale quanto sterile, costruita sugli slogan delle rivendicazioni di un'epoca che sarebbe bene dimenticassimo tutti, perché i tempi sono cambiati, e tutti dobbiamo saper cambiare: anche l'organizzazione che è tuttora la prima, per numero di adesioni, delle forze agricole regionali.” E i vostri rapporti con la Lega, incalzo? Tra Confcoltivatori e Lega è noto che la convivenza, che dovrebbe essere amorosa, è agitata, non di rado, da sussulti e screzi non propriamente idilliaci. “In Umbria tra le due organizzazioni il grado di collaborazione è oltremodo positivo -smentisce le mie illazioni il Presidente della Confcoltivatori regionale-. Ciò non toglie che per le operazioni che giudichiamo di fondamenta economiche più discutibili esprimiamo le nostre riserve. Collaborazione, cioè, ma non collateralismo.” Confronto le dichiarazioni sui rapporti tra organizzazioni agricole e potere regionale dei responsabili delle prime con le valutazioni dell' Assessore all'agricoltura.

“Tra gli interlocutori con i quali mi trovo a confrontare valutazioni e ipotesi di intervento della Giunta ritengo di dover distinguere -precisa Carlo Gubbini-, le organizzazioni cooperative, affaticate da una serie di situazioni di grave disagio, che riuniscono troppi organismi sottocapitalizzati, quindi meno liberi di scegliere e guardare al futuro, e le confederazioni professionali, con le quali, con tutte, sottolineo, il confronto è oltremodo costruttivo. Rispetto ad anni non remoti hanno realizzato, credo si debba riconoscere, una crescita culturale molto significativa: non si propongono più come organismi tesi alla rivendicazione, controparti di stile sindacale, per capirci, ma, piuttosto, come espressione di forze economiche disponibili a discutere e concordare strategie economiche. Se la Regione, insisto, è l'istituzione chiamata a tradurre, su un territorio dalle peculiarità specifiche, scelte di politica agraria che debbono ispirarsi, ribadisco, ad una strategia nazionale, per l'assunzione di quelle scelte organismi capaci di discutere in termini economici, non semplici portatori, cioè, di contestazioni e rivendicazioni, sono gli interlocutori da cui possono venire i contributi più proficui per indirizzare l'agricoltura regionale sulle strade da cui ne dipende il futuro del settore.”

Oltre la crisi

Ma esistono strade capaci di consentire all'agricoltura di un'area dalle caratteristiche peculiari della collina mediterranea, asciutta, interna, di non elevata fertilità media, di sfuggire alla morsa dei mercati che pare stia stritolando tutte le fasce più deboli dell'agricoltura europea? E cosa possono fare le forze politiche, e quelle professionali, di una piccola regione, perché quelle strade, se esistono, siano imboccate con tempestività, determinazione, efficienza? È l'ultimo quesito che propongo ai miei interlocutori.

“Alla possibilità, e alla nostra capacità, di intraprendere vie nuove credo fermamente -dichiara il Presidente della Confagricoltura umbra: dovremo cambiare molte cose, conquistare spazi nuovi sul mercato dei prodotti di qualità elevata, segmenti di mercato limitati, se vogliamo, ma capaci di assicurare alti redditi. Pensiamo alla Chianina, con la quale non possiamo pretendere di competere con il bestiame dei grandi allevamenti industriali: ma non possiamo ignorare che esiste un pubblico di estimatori della carne della nostra razza. Naturalmente, la conversione di una domanda potenziale in flusso mercantile è risultato che non ci regalerà nessuno, che dobbiamo costruire noi, con lungimiranza e tenacia. Lo stesso vale per l'olio d'oliva. E l'elenco potrebbe continuare. Conquistare i mercati nuovi richiederà, evidentemente, del tempo, ma sul tempo dobbiamo saper giocare con accortezza le carte che ci pone ancora nelle mani il tabacco, da cui dobbiamo trarre tutto quello che può ancora dare, servendocene come ammortizzatore mentre esploriamo i terreni del futuro.”

“L'agricoltura umbra uscirà, indubbiamente, dalla crisi, diversa da quello che era, ma vogliamo che ne esca rafforzata -dichiara Trivellizzi-. Certo, per molte aziende, le più piccole, non c'è altra strada che l'integrazione dei redditi agricoli con proventi diversi, ma siamo una delle regioni dalle potenzialità più significative, in tutto il Paese, per l'agriturismo, e abbiamo già una buona legge regionale per potenziarlo. Per altre aziende il futuro deve consistere nell'ampliamento, soprattutto attraverso l'affitto: contiamo che i cosiddetti accordi in deroga, di cui siamo fautori, consentano di rimettere in movimento il mercato fondiario, tragicamente inceppato. Dobbiamo saperci avvalere, cioè, di una molteplicità di strumenti: quelli di cui prevede l'uso articolato il programma integrato che la Regione ha recente mente presentato a Bruxelles, il Programma Trasimeno.”

Affitto e integrazione di reddito sono gli ingredienti fondamentali anche della ricetta per il futuro dell'agricoltura umbra di Pierfrancesco Ghirelli.

“ Il Partito Comunista -riconosce con franchezza- ha pagato un prezzo alquanto elevato, anche in termini elettorali, per aver voluto una legge sull'affitto contro la quale sussisteva una diffusa opposizione. E questo nonostante che alla Sezione agraria del Partito, dove ho lavorato a fianco di Pio La Torre, che quella legge non potesse funzionare lo si fosse detto con chiarezza. Adesso si deve cambiare. Ma anche postulando che l'affitto assicuri nuovo ossigeno ad una parte delle aziende umbre, ne resta una costellazione per le quali solo il sussidio di redditi diversi potrà evitare il collasso dell'economia familiare. Chi contesta l'utilità del part-time vive fuori dal mondo -proclama con calore il mio interlocutore-, non conosce la realtà, almeno questa realtà. È stato sulla filosofia dell'integrazione tra agricoltura e attività diverse, fonti di redditi complementari, che abbiamo costruito il nostro “pim”, di cui aspettiamo l'approvazione da Bruxelles. L'agriturismo rappresenta, indubbiamente, una di quelle fonti: l'Umbria è bella, e il suo fascino attira, tanti visitatori e da lontano.”

E’ bella o era bella? Obietto: avete trasformato i vostri fondovalle in congerie informi di capannoni. Ai piedi di Todi e Foligno si stendono pezzi di banlieu milanese: la vista dei vostri borghi medievali non ne gode molto in modo apprezzabile.

“Quei capannoni non abbelliscono il nostro paesaggio -riconosce il dottore sottile del Partito Comunista-, ma quando sono stati costruiti l'alternativa era tra la creazione di qualche posto di lavoro in fabbrichette fatte senza nessuna tradizione e l'emigrazione dei contadini che abbandonavano i poderi mezzadrili in Belgio, in Germania o in Australia. E’ stato un sacrificio necessario. Ma adesso, le assicuro, le costruzioni nuove sono sotto controllo. Poi, non sia così categorico: quei capannoni sono brut ti, ma per quanto siano brutti, l'Umbria resta bella, immensamente bella!”

Terra e vita, n. 34 1986

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