Grand Tour/IV
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Tra le più piccole di tutte le regioni d'Italia, partecipando al novero di quelle a statuto speciale il Friuli gode di una lunga tradizione di autonomia, e della propria autonomia ha saputo servirsi per conquistare mete che nessun'altra regione ha tentato. Piccolo, in Friuli, é bello: al di là degli elementi rassicuranti non mancano, però, conflitti e contraddizioni.
Regione a statuto speciale, regione di primati
Primati politici: dalla fondazione, nel 1964, la Democrazia Cristiana é arbitro incontrastato dell'amministrazione locale. Primati sociali: la coesione della popolazione ha consentito, dopo le distruzioni del terremoto, di ricostruire case, fabbriche e aziende agricole in tempi in cui in nessuna regione italiana erano mai state riparate le ferite di una tragedia comparabile. Primati agricoli: da Roma a Bologna i vini del Collio sono assurti a complemento d'obbligo della cena nel ristorante chic, le medie produttive del mais e della soia sono le più alte d'Italia, i frutticoltori friulani contendono a quelli romagnoli il primato della produzione di kiwi. E in un paese la cui agricoltura soffre della tara atavica della frammentazione fondiaria il Friuli é stata l'unica regione ad intraprendere una coraggiosa politica di riaccorpamento. Con risultati, nelle aree dove l'intervento é compiuto, che dimostrano cosa potrebbe essere l'agricoltura italiana se fosse governata da un disegno strategico anziché da mille velleità e improvvisazioni.
Primato sindacale
Mi guida a conoscere i vanti dell'agricoltura regionale, a ricercare, tra le luci del quadro, le ombre nascoste, le incertezze sul futuro, l'uomo che della vita agricola friulana é solidamente insediato in sala comandi: per due legislature consigliere regionale, attualmente insediato a Palazzo Madama, vicepresidente nazionale della Coldiretti, da sette anni Paolo Micolini é a capo della Coldiretti regionale, la prima, per numero di adesioni e per peso organizzativo, delle organizzazioni professionali della regione. Ventimila soci, 130 dipendenti, un bilancio di 2,3 miliardi, in gran parte derivato dalle prestazioni di un modernissimo centro di elaborazione dati (bilanci, contributi, contabilità Iva), i propri uomini dislocati nei centri nevralgici della cooperazione, in Friuli macchina poderosa, la Coldiretti é, nella regione, quasi sinonimo di agricoltura. E a differenza che in terre diverse, dove l'antica "Bonomiana" stenta ad abbandonare le attitudini antiche di sindacato “assistenziale", Coldiretti in Friuli è sinonimo di un'agricoltura dai caratteri incontestabili di modernità.
Dalla stazione di Udine, dove mi recapita un vagone arroventato dal lungo tragitto nella canicola di agosto, affronto con Micolini il primo itinerario del mio soggiorno friulano: meta la sua azienda a Cervignano, dove sarò suo ospite a cena. Le campagne che attraversiamo presentano l'aspetto singolare della pelle di leopardo: mais splendidi, da 120 quintali per ettaro, mais miserevoli, che forse non raggiungeranno i 50. Contro le buone abitudini del clima locale, mi spiega Micolini, quest'anno il Friuli é stato colpito da una siccità impietosa. Dove gli agricoltori dispongono di acqua, pompando senza soste i primati tradizionali potranno essere conservati, ma dove acqua non c'é, i campi bisognerà sacrificarli per ricavarne un magro trinciato.
Solcando la pianura conversiamo di rapporti tra sindacati agricoli e di vicende comunitarie: Micolini segue le relazioni, non sempre idilliache, con la Confagricoltura, e rappresenta la Coldiretti nel Copa, di cui è vicepresidente. A Cividale il mio ospite si arresta alla sede della Cooperativa Viticoltori, sodalizio anomalo di cui Micolini mi vuole fare conoscere le peculiarità. Ci ricevono Silvio Nadalutti, due metri di solidità friulana, le mani grandi come pale, presidente, e Vanni Zanuttini, consigliere, presidente nazionale, per parte sua, della razza Pezzata Rossa, uno dei vessilli del Friuli agricolo. Davanti a un bicchiere ristoratore di champenois freddissimo vengo aggiornato delle anomalie costitutive, e dei successi commerciali, della cooperativa. Che é nata, nel ’75, dall'impegno della Coldiretti per creare un organismo che riunisse i piccoli produttori di un'area di grande tradizione vitivinicola. Delle tante adesioni della prima ora non sopravvissero fino alla convocazione dal notaio che quelle di cinque famiglie, in tutto 30 ettari di vigneti, che per fare la cooperativa dovettero entrarci con due membri ciascuna.
Per contrarre le spese affittarono, come stabilimento, un antico essiccatoio per bozzoli, e decisero di ripartire tra i soci anche tutto il lavoro di cantina: la combinazione tra qualità delle uve ed oculatezza di gestione consentiva al sodalizio di acquisire, fino dai primi anni, un mercato ricco, tanto da remunerare le uve fino a 90.000 lire al quintale, il doppio di molte cooperative diverse. I cinque soci effettivi decidevano, tuttavia, di non erogare le prime liquidazioni per autofinanziare la società, che realizza il proprio movimento commerciale interamente con fondi propri, senza chiedere alle banche una lira sola, restando debitrice ai conferenti dell'uva di due campagne. Una situazione assolutamente anomala nel quadro cooperativistico nazionale, siccome impedisce l'ammissione di nuovi soci, cui sarebbe oltremodo arduo fare pagare il valore dell'avviamento realizzato, a proprie spese, dai fondatori, e che non consente di fruire dei generosi ripianamenti di passività che la Regione offre alle cooperative: le passività verso i soci non sono equiparabili a quelle verso le banche.
Quale coldiretto?
Una breve appendice alla conversazione vitivinicola per cercare risposta a una curiosità zootecnica: anche considerando la rusticità della bestia e il prezzo del vitello, la produzione di latte di una pezzata rossa ripaga dell'impegno dell'allevamento? Lo chiedo al presidente della razza e a quello della cooperativa, anch'egli allevatore. I quali rispondono unanimi che la stalla é, ormai, un'inutile schiavitù. Una schiavitù che se a Zanuttini, con bestie da 55 quintali, rende ancora, nota Micolini, che ai propri associati fa con disinvoltura i conti in tasca, a Nadalutti, con bestie da 25 quintali, fa perdere soldi.
E un'attività che perde é un'attività che deve essere chiusa, conviene, amaro, il Presidente della Cooperativa Viticoltori: oggi in agricoltura bisogna guardare al responso del bilancio, e un bilancio in attivo si fa solo con tanta, tanta efficienza, riconosce. L'efficienza predicata dalla Confagricoltura? Mi concedo la domanda maliziosa. Wallner dice cose giuste, riconosce Silvio Nadalutti, coldiretto di Cividale, cose che tanti dei nostri dirigenti dovrebbero, ormai, dire anche loro: abbiamo troppi uomini che ricoprono posti di responsabilità senza essere capaci di mettere la testa fuori dalla loro stalla. I nostri capi debbono capirlo, e ammicca, con candida furbizia, all'amico Micolini.
La frecciata dell'associato di Cividale conduce la nostra conversazione, risaliti in macchina, al difficile problema della fisionomia del coltivatore di ieri, di oggi, di domani: in Friuli c'erano 60.000 aziende, vent'anni fa, iscritte alla Coldiretti, mi spiega Micolini, oggi quelle professionali sono scese ad un decimo, 6.000, ma le autentiche imprese, quelle con una produzione vendi bile superiore a 100 milioni, quindi con un futuro sicuro, sono circa 1.000. Alla diminuzione del numero ha corrisposto un'imponente crescita della qualità dei servizi che chiedono al sindacato: contabilità, denunce fiscali, risposte tecniche. Per la cui erogazione non basta più il perito: oggi il figlio del coltivatore ha il diploma di istituto agrario, se voglio che si confronti con un interlocutore capace di dare risposta alle sue domande debbo mandargli un laureato. La scelta del personale per soddisfare la domanda di una base che sta vivendo una crescita culturale, ed una selezione, tanto rapida, é compito oltremodo impegnativo: assumiamo in prova, sottolinea Micolini, e dimettiamo, se i candidati non rispondono ai requisiti, senza remore. Non possiamo permetterci di screditare l'organizzazione presso gli iscritti. Una visita, nel crepuscolo della giornata afosa, alla soia e alle bietole del mio ospite, non priva, come vuole il rito, di qualche divergenza sulla stima delle produzioni future, e ci accoglie la grande casa di campagna, con la cena preparata dalla signora Micolini in ossequio alle sacre, universali tradizioni dell'ospitalità rurale. Conversiamo, ancora, di Coldiretti e organizzazioni consorelle e concorrenti, di regioni e di Ministero, delle reciproche esperienze di agricoltori in regioni tanto diverse, Friuli ed Emilia. Fino a quando Micolini mi riaccompagna all'albergo a Udine, in tempo per tornare in campagna per mezzanotte, quando dovrà cambiare la postazione dell'irrigatore: secondo i patti col fratello tra il consiglio nazionale della Coldiretti e la votazione del Craxi bis un paio di turni di notte toccano al Senatore.
Esodo e terremoto
La mattina successiva, a prova del potere catalizzante della Coldiretti in questo lembo d'Italia rivestito di vigneti e di mais tra l'Austria, la Yugoslavia e l'Adriatico, Micolini mi presenta, per un ideale dibattimento processuale sull'efficienza dell'istituzione regionale, i responsabili delle organizzazioni consorelle, della cooperazione, l'Assessore regionale. Con i quali celebro un processo il cui impegno sarà gloriosamente coronato, in una trattoria di campagna, da una tavola imbandita di specialità furlane irrorate da un'indimenticabile Tokay.
“Ero, per formazione culturale, antiregionalista -inizia la propria arringa il conte Camillo Asquini, presidente regionale della Confagricoltura-, fino a quando, come responsabile del Consorzio di bonifica dell’Alto Friuli, fui costretto a frequentare gli uffici ministeriali a Roma, dove mi accorsi che, vent'anni dalla fine della guerra, non avevano ancora aggiornato, sulle proprie carte, i confini dello Stato. Tornai a casa convertito al regionalismo: siamo una regione di confine, con problemi peculiari, che debbono essere risolti da chi li conosce. Mi professo, quindi, regionalista, anche se riconosco che la Regione Friuli Venezia Giulia é creatura ibrida: fu immaginata per dare risposta alle esigenze di una terra dalle peculiarità inconfondibili, fu realizzata, per le scelte di Roma, per risolvere il problema politico di Trieste. Fuori dal Friuli forse non si sa, ma il Friuli e Trieste sono cose pressoché prive di qualunque punto di contatto. Diverse e indifferenti. Dopo la nascita la regione non ebbe vita facile. Erano gli anni del grande esodo: vivo in alta collina, dove la partenza di tante famiglie era una necessità dolorosa, ma ineludibile. Una popolazione tanto fitta non poteva continuare a vivere su tessere di mosaico incapaci di assicurare un reddito. Eppure la gente era attaccata alla terra, e quell'attaccamento ha reso l'esodo più amaro. Anche per il compimento di quel sacrificio la nostra agricoltura lentamente affrontò il cammino dello sviluppo, mentre la regione cambiava volto con la nascita delle prime industrie, e nel cambiamento l'Ente regione svolgeva, indubbiamente, un ruolo positivo. La prova più grande di coraggio é stata affrontare il riordino, con piani che non conoscono l'equivalente in tutto il Paese. Poi é arrivato il terremoto, una sciagura che ha sprigionato, da noi, una quantità enorme di energie latenti, che hanno impresso un'accelerazione altrimenti impensabile alle trasformazioni della nostra economia. Un'accelerazione che si é scontrata, tuttavia, con gli effetti della crisi generale del Paese: la crisi degli assetti tradizionali dell'industria, la crisi dell'agricoltura. E la crisi dell'agricoltura é, anche in Friuli, una crisi grave: vantiamo tanti primati produttivi, ma nelle campagne c'é insicurezza, non si investe, non si rinnova, non si crede nel futuro. Il compito della politica agraria di oggi, per l'agricoltura di domani, é di offrire agli imprenditori le certezze senza le quali le campagne si fermano. Esponendo il sistema agricolo nazionale al rischio di uscire perdente dallo scontro con la concorrenza.”
Un progetto di spesa
“La scelta regionale corrisponde ad esigenze profonde, assolve ad imperativi obiettivi della realtà -esordisce la professione di fede regionalista di Dante Savorgnan, trentotto anni, laureato in filosofia, presidente regionale della Confcoltivatori-. Sussistono peculiarità locali che generano problemi locali, la cui soluzione può essere realizzata solo da chi ne possiede la percezione diretta. E di queste peculiarità la nostra regione é un condensato: basti pensare ai problemi delle minoranze etniche. E' vero, d'altra parte, che i problemi dell'agricoltura sono sempre più problemi internazionali: sugli equilibri dei nostri bilanci aziendali pesano le decisioni di Bruxelles, pesa l'accordo con i paesi Acp, pesa il conflitto con gli Stati Uniti. Di questa dipendenza occorre avere la lucida consapevolezza, misurarla, prevederne le conseguenze: mi chiedo, ad esempio, perché la Regione non abbia costituito un assessorato preposto alle questioni comunitarie. In tema di rapporti con la politica comunitaria é doveroso -prosegue Savorgnan-, chiedersi la ragione della mancata applicazione, da noi, delle direttive strutturali: la risposta che la loro emanazione ha coinciso con quella delle misure regionali per la ricostruzione, più favorevoli, fornisce, indubbiamente, una spiegazione. Si deve anche riconoscere, tuttavia, che si sono verificate, successivamente, occasioni diverse per adeguare i nostri strumenti legislativi al quadro, più vasto, comunitario e nazionale: il Quadrifoglio, ad esempio, e la legge 797. Ma quell'adeguamento non é stato realizzato, soprattutto non si è fatto lo sforzo per uniformare le nostre disposizioni alle coordinate complessive della normativa comunitaria. Se si deve riconoscere, quindi, che per l'agricoltura la Regione ha speso molto, sostanzialmente con risultati positivi, l'appunto che si può muoverle é di non avere operato entro quella cornice di programmazione che avrebbe reso più produttivi tutti gli interventi. Aggiungerei la tara di un'impostazione ancora assistenzialistica, stile anni '60, che una moderna legislazione agraria avrebbe già dovuto superare. Se possiamo vantare, infatti, quello che é stato fatto per il riordino, bisogna anche riconoscere che non é stato sufficiente a contenere la piaga della frammentazione aziendale, una piaga di cui dobbiamo persino riconoscere l'aggravarsi. Contro la quale non si può, quindi restare inerti.”
Cinque peccati
“Si dice che il friulano abbia cinque difetti -esordisce Ivano Mattiussi, trentotto anni, un altro laureato in filosofia tra i miei interlocutori, presidente regionale della Confcooperative, tra gli avvocati del processo che stiamo celebrando quello dalle analisi più taglienti-: parlare, sotto il camino, male del fratello, alzare il gomito, bestemmiare, battere la moglie e dimenticare i genitori. Può essere un profilo sconcertante per chi crede nello stereotipo del Friuli devoto e obbediente, uno stereotipo falso perché questa é terra laica, dove gli emigranti riportarono, fino dall'Ottocento, insieme al pugno di marchi, le idee di Marx, dove il predominio democristiano é contrastato dal qualunquismo del Melone a Trieste, dall'autonomismo del movimento Friuli all'interno. E Friuli é movimento sostenuto dal clero, che si é sentito escluso dalla ricostruzione, e che non ama la Dc. Poi al quadro si deve aggiungere una Cisl a lungo dominata dagli extra parlamentari, e troppi brigatisti rossi, figli di coltivatori diretti, per negare l'esistenza di impulsi non sporadici di opposizione all'assetto pubblico costituito. Senza dimenticare, ancora, i solidi caposaldi della massoneria. In questo quadro del Friuli reale, non di quello immaginario, l'agricoltura é indubbiamente uno degli elementi più sani del tessuto complessivo, e nel contesto agricolo la cooperazione é una forza preminente. Tra centinaia di cooperative non si ricorda, ad esempio, un caso solo di corruzione di un dirigente: un dato non privo di significato rispetto ad altre realtà regionali. Durante il primo anno del mio mandato ho partecipato, ne ho tenuto la contabilità, a 282 assemblee e a 80 consigli di amministrazione, e la mia contabilità ha verificato solo due casi di contestazione degli amministratori: un livello altissimo di consenso. Eppure, guardandolo in controluce, il nostro sistema di cooperative presenta elementi di debolezza: l'agricoltore ha, radicato, ineliminabile, il vizio di lamentarsi, di aspettare soluzioni dall'alto. E non credo che la Regione potrà continuare per sempre a dare all'agricoltura quanto le ha dato in passato. Dovrebbero essere gli agricoltori a cercare, con le proprie forze, le strade nuove, e a percorrerle: perché, mi chiedo, ad esempio, siamo ai confini con Austria e Germania e non mandiamo a Vienna, o a Monaco, un solo camion di ortaggi o di frutta, per la cui produzione godiamo di condizioni ideali? Tra le ragioni possiamo iscrivere la carenza di veri manager: ma i manager costano cari, e stipendi elevati sono difficili da fare accettare ai soci. Poi, anche a essere disposti a pagarli, sono un genere raro: pensi che le maggiori banche della regione, con una sola eccezione, hanno dirigenti che vengono di fuori, il segno di una carenza di cultura dirigenziale ancora da colmare, in tutti i comparti economici, al primo posto in agricoltura.”
Cento elementi positivi, altrettanti negativi: quale il bilancio, chiedo a Mattiussi?
“Nei settori tradizionali –è la risposta- la nostra cooperazione é molto vicina a toccare i propri limiti: per varcare confini nuovi occorrerebbe uno spirito d'intrapresa di cui non é dato percepire il fervore. E restando ferma, l'agricoltura continuerà a perdere importanza nel contesto economico generale: oggi rappresenta il 6 per cento del prodotto lordo regionale, con l'indotto tocca il 25. Ma il resto dell'economia cresce, e se l'agricoltura non esprime maggiore creatività, esplorando terreni nuovi, affrontando nuovi rischi, perderà, progressivamente e ineludibilmente, il peso attuale. Che può voler dire perdere più dei valori equivalenti al ridimensionamento economico, siccome oggi politicamente é sovrastimata, e se il suo peso fosse ricondotto a quello obiettivo, si troverebbe, già oggi, ai margini del sistema. Stiamo seguendo -si accalora Mattiussi- alcune esperienze assolutamente originali nella sfera industriale, nate dalla legge Marcora: nonostante le difficoltà, nonostante la guerra della Cgil contro ogni iniziativa che possa trasformare l'operaio in padroncino, nonostante i problemi commerciali, constatiamo un dinamismo che in agricoltura non è dato verificare. Senza nessuna profusione di mezzi: alle cooperative agricole tutte le banche offrono denaro, le coperture sono più sicure, a quelle industriali il credito lo erogano col contagocce. La differenza nella vivacità delle risposte al mercato mi pare emblematica di una diversità di radici e di cultura, che apre interrogativi oltremodo impegnativi sulle strade attraverso le quali accelerare l'evoluzione della mentalità del nostro mondo agricolo, la prima condizione della sua prosperità futura.”
Quali poteri?
Conclusa la serie delle arringhe dei patroni di parte civile ascolto la perorazione del difensore, per ufficio istituzionale, della politica agricola regionale, l'assessore Antonini Canterin. Primario della di visione di medicina generale all'ospedale di Pordenone, presidente dell'ordine regionale dei medici, dalle ultime elezioni regionali, che in Friuli si sono svolte nel 1983, Silvano Antonini Canterin é insediato all'Assessorato all'agricoltura: si mormora in adempimento del disegno della Democrazia Cristiana di sottrarre la carica, nella regione onusta di influenza, ai condizionamenti dell'onnipossente Coldiretti. Cosa ha fatto la Regione, cosa sta facendo, cosa prevede di fare per l’agricoltura, una sfera economica inserita in un planisfero in rapida, inarrestabile trasformazione, chiedo al dottor Canterin? “Gestire la responsabilità dell'agricoltura regionale, é la risposta dell'Assessore-primario, impone la percezione, innanzitutto, che alla responsabilità non corrisponde la disponibilità di leve di comando adeguate: la percezione di una dipendenza cogente dalle disposizioni comunitarie e nazionali. Non é una tossico-dipendenza, se vuole, ma una dipendenza burocratica che riduce un assessorato ad ufficio periferico dello Stato. E' stato il Friuli ad impugnare, di fronte alla Corte Costituzionale, il Quadrifoglio, contestando i vincoli che il testo imponeva alla destinazione degli stanziamenti: la Corte ha accolto il ricorso. E la coartazione degli spazi regionali non é tendenza episodica, ma, ormai, prassi sistematica.” Ma riconoscere un'esigenza di coordinamento non costituisce, obietto, assolvere ad un imperativo obiettivo, di fronte alle sfide internazionali, cui i più generosi impulsi localistici non possono dare che risposte inadeguate?
“Tutte le politiche di erogazione, assistenziali, sociali, quindi anche agricole, presuppongono necessità di coordinamento -risponde all'obiezione l'Assessore-, e il coordinamento riduce, inevitabilmente, l'autonomia. Mi dichiaro fautore della programmazione: in agricoltura ce la impone l'appartenenza alla Comunità, per l'esigenza di risposte nazionali univoche alle scelte di Bruxelles, ce la impongono gli equilibri dei mercati internazionali, ma pretendo che la programmazione che si definisce a Roma sia programmazione a maglie larghe, che lasci aperti tutti gli spazi entro i quali, per assolvere a specifiche esigenze locali, io possa fissare, autonomamente, le direttrici della mia microprogrammazione.”
Ma anche quando, replico, dei provvedimenti di Bruxelles, trasformati, in leggi nazionali, é stato concesso alle regioni di varare la propria versione, adattata alle esigenze locali, le regioni hanno dimostrato di essere incapaci di operare, di fornire risposte locali alle istanze nazionali. Le direttive comunitarie sulle strutture, una grande opportunità di finanziamento, sono rimaste vacua dichiarazione di buone intenzioni anche in Friuli, regione modello.
“Le direttive comunitarie in Friuli erano inapplicabili -proclama categorico il mio interlocutore-, erano concepite per realtà incomparabili alla nostra, e non avrebbero potuto portare alcun autentico contributo alla sua evoluzione. Non siamo negli Stati Uniti, non possiamo neppure pensare ad una politica agricola reaganiana: delle nostre campagne dobbiamo preoccuparci senza dimenticare mai gli assetti occupazionali.”
Ma esistono possibilità obiettive, chiedo al dottor Canterin, in un quadro economico quale quello entro il quale operiamo, di sostenere un'agricoltura ad elevata occupazione?
“Senza farci illusioni -é la risposta dell'Assessore- possiamo verificare, sul mercato, l'esistenza di spazi interessanti. Le propensioni dei consumatori stanno mutando, si accentua la disponibilità a pagare prezzi più elevati per prodotti dalle spiccate peculiarità locali e di sicura genuinità. Sono spazi che dobbiamo saper occupare: se non sapremo farlo la nostra agricoltura corre, obiettivamente, rischi enormi. Il nostro tessuto aziendale non ha certamente le caratteristiche per sostenere la sfida mercantile delle derrate di base.”
E per quanti non riusciranno ad inserirsi in questi spazi di mercato quale futuro preconizza, Assessore, il part-time? Quale é la filosofia regionale sul part-time?
“Il Friuli può vantare -é la risposta del mio interlocutore- di avere varato per primo l'albo professionale. E stata una scelta coerente in tempi di boom economico, quando chi coltivava qualche ara lavorando nell'industria non poteva essere equiparato, ai fini delle erogazioni, a chi traeva interamente dall'agricoltura il proprio reddito, il soddisfacimento, quindi, di un'istanza di tutela della categoria. Tutti, comunque, coltivatori professionali e coltivatori part-time, fruiscono delle agevolazioni assicurate alle cooperative. La Regione fornisce i fondi per anticipare, alla consegna, al 5 per cento di interesse, una quota del valore del mais, tutto il mais consegnato a una cooperativa, qualsiasi sia la fisionomia professionale del produttore. Oggi, però, di fronte ad un quadro mutato, é doveroso proporsi alcuni interrogativi: i criteri comunitari dell'attività principale portano ad escludere dai benefici tutti gli agricoltori di collina, dove di sola agricoltura non si vive, impediscono, quindi, obiettivamente, di operare per la salvaguardia dell'occupazione agricola nelle aree svantaggiate. E una distorsione cui sarà necessario ovviare.”
Come la Sanità?
Lei postula, deduco dalle asserzioni del mio interlocutore, la sussistenza di due esigenze, quella del coordinamento e quella dell'autonomia, parzialmente complementari, parzialmente antitetiche: esistono possibilità concrete, istituzionali, di realizzare la complementarità evitando i conflitti? “Sul piano istituzionale la composizione delle due esigenze non può essere ricercata -mi risponde l'Assessore-primario- che con la creazione di una sede istituzionale in cui realizzare il confronto tra Regioni e Ministero e assumere le decisioni comuni: una sede di collaborazione, sottolineo. non una remora all'autonomia del Ministero sui terreni in cui esso é direttamente responsabile. Penso a un organismo simile al Consiglio nazionale che é stato creato per la sanità, che non pare, peraltro, fornisca prove esemplari di efficienza.
Sanità e agricoltura, due materie rimesse alla competenza regionale, due sfaceli nazionali. Esistono elementi comuni tra le cause dei due fallimenti, dottor Canterin?
“Direi che non esistono -é la diagnosi del Primario dell'Ospedale di Pordenone-: la sanità è materia pubblica, gestita direttamente dagli organi dello Stato, centrali o periferici, l'agricoltura é attività imprenditoriale, in cui gli organi dello Stato coordinano le scelte autonome delle imprese. Per la sanità, bisogna avere la coerenza di riconoscere, le conquiste di una società evoluta non possono essere rimesse in discussione: certe proposte di privatizzazione, più o meno ampia, non hanno senso. Il vero problema é che, senza numero chiuso le facoltà di medicina continueranno a produrre disoccupati, l'urgenza della cui collocazione manterrà sempre il sistema in tensione. Questo, rigettando la demagogia, é il nodo da sciogliere: per il resto, un poco meno di burocrazia, più autonomia alla gestione sanitaria, e il sistema potrebbe funzionare. Ma é ordine di problemi del tutto diverso da quelli dell'agricoltura.
Il riordino
Dal confronto nelle sfere della filosofia politica alla verifica della realizzazione che assicura al Friuli un vanto che nessun regione diversa é in grado di contendere: quello del riordino fondiario, in molte aree della Penisola la prima urgenza per il rinnovamento delle strutture agrarie, ovunque inevasa per l'acquiescenza di una classe politica incapace di sfidare anche un'impopolarità temporanea.
Che l'impopolarità che un programma di riordino accolla a chi lo vara sia onere temporaneo me lo spiega il direttore generale del Consorzio di bonifica della Sinistra Tagliamento, Antonio Nonino, che dell'impresa affrontata dal Consorzio, nel contesto della politica regionale, mi riassume, alla terza giornata del mio soggiorno friulano, la storia. Che ebbe inizio quando il Consorzio, che si estende tra il Tagliamento, a ovest, le colline moreniche e il Canale. Ledra-Tagliamento a nord, il fiume Torre a est e il Canale Napoleonico a sud, complessivamente 57.000 ettari di terreni alquanto sciolti, in un'area dalla piovosità elevata ma concentrata tra l'autunno e la primavera, priva di risorse idriche, si impegnò nel progetto della rete di distribuzione dell’acqua. Che si scontrò immediatamente con una situazione fondiaria la cui frammentazione avrebbe reso impossibile qualsiasi disegno razionale di distribuzione: la superficie media delle ditte catastali era di 1,2 ettari, ma la dimensione media delle particelle di 0,7, anche se le aziende, per affitto o comunione, toccavano i 6,7 ettari, con una media di 7,8 corpi ciascuna. Inestricabile la rete delle servitù di passaggio. Fu tentata, tra il '52 ed il '53, qualche esperienza di irrigazione a pioggia: qualsiasi irrigatore avrebbe adacquato due o tre proprietà, si tentò lo scorrimento, ma la rete delle canalette avrebbe dovuto comporre un autentico labirinto. Si decise, allora, la strada dell'esproprio-riaccorpamento.
Scelta un'area di 7.000 ettari priva di insediamenti abitati vi furono acquistati tutti i terreni disponibili, poi si procedette, sulla base della normativa specifica della legge Serpieri, mai altrove applicata a scopo di riordino, ad espropriare i terreni, per restituirne ai proprietari un'entità equivalente dopo l'esecuzione dell’accorpamento. Il valore di ogni appezzamento veniva stimato sulla base della natura del suolo, della distanza dalle strade e dai borghi, dell'esistenza di servitù. Tutti, riconosce Nonino, avrebbero preteso di ricevere più di quello che avevano conferito: l'esperienza insegnava che la maggior parte delle dispute si assopisce automaticamente dopo il nuovo raccolto, quando, con la disponibilità di acqua necessaria ad una coltura intensiva, i proprietari verificano di poter raddoppiare, mediamente, le rese di mais, passando dai 55 quintali in asciutto ai 110 che in Friuli, con l'irrigazione, costituiscono produzione ordinaria. Le nuove unità poderali sono costituite da moduli da 5.000 o 10.000 metri quadrati. Salvo siano state realizzate acquisizioni sufficienti, la superficie restituita ai privati risulta, comunque, inferiore a quella espropriata, siccome tra i settori in cui sono suddivise le nuove unità fondiarie vengono create strade pubbliche della larghezza di 6 metri. Dopo la prima esperienza, che si é conclusa nel 1975, un nuovo intervento é previsto, su 3.000 ettari, mi spiega Nonino, per i quali é già stato approvato uno stanziamento Fio: il piano esecutivo prevede la realizzazione di tutte le opere, durante ogni inverno, su tutta la superficie che possa essere accorpata, che sarà dotata degli impianti irrigui e restituita, nel nuovo assetto, in tempo per le semine del mais, una condizione, anche questa, per limitare le opposizioni.
Macchie e lepri
Conclusa la spiegazione, tra mappe e disegni, nella sede del Consorzio, una rapida escursione mi consente la conoscenza diretta dello scenario del riordino, immensa scacchiera di lotti eguali, verdeggianti di mais, medica e soia, in un orizzonte senza case, senza siepi, senza alberi: un paesaggio irreale nel sovrappopolato Friuli. Ma ecologi e cultori del paesaggio non si oppongono alla trasformazione, chiedo al Direttore del Consorzio? “Una cosa così non ce la lascerebbero ripetere –è la risposta-, per il prossimo progetto abbiamo destinato il 3 per cento della superficie a macchie, ripe, aree alberate, con la valorizzazione, insieme, di alcune significative vestigia storiche e preistoriche. I cacciatori, invece, dopo la prima opposizione, sono diventati fautori dell'accorpamento: credevano che l'uniformità avrebbe impedito la riproduzione della selvaggina, invece le lepri sono aumentate. A loro basta questo.”
Sul bordo della grande scacchiera sorge villa Manin, la grandiosa residenza estiva dell'ultimo Doge: tragica beffa della storia, a poche miglia dal borgo in cui Napoleone avrebbe graziosamente fatto dono della Serenissima all'Austria. L'ha acquistata la regione, al momento della mia visita ospita una grande mostra sul terremoto e sulla rinascita del Friuli dalle macerie. Nelle antiche scuderie ci ospita un accogliente ristorante dove il mio amabile anfitrione, partendo per Roma per il voto al Craxi bis, mi ha fatto predisporre un incontro con tecnici e responsabili agricoli. Con i quali la conversazione si snoda scintillante rallegrata da un etereo Collio. Poi, con Nicola Tonini, un funzionario della Coldiretti dalle numerose responsabilità nel mondo della cooperazione, affronto, in un pomeriggio di solleone, una lunga carrellata di organismi grandi e piccoli, in rigogliosa salute o in faticosa convalescenza: un panorama della cooperazione agricola friulana quale essa è nella realtà e non solo negli auspici sindacali.
Latte, pesche, vino
E la realtà della cooperazione comprende, in Friuli, un colosso quale il Consorzio latterie friulane, 570.000 ettolitri di latte lavorato annualmente, 36 miliardi di fatturato per latte fresco e a lunga conservazione, 27 per i prodotti trasformati, compreso il Montasio acquistato fresco dalle latterie “turnarie” e stagionato. La liquidazione del latte, ne1l'85, 620 lire per litro conferito, 50 più del prezzo regionale. Comprende la Cofi, un grande impianto per la lavorazione degli ortofrutticoli in un'area particolarmente vocata, collocata tra Trieste e i grandi centri balneari, eppure rimasto senza conferenti, che la Regione si é impegnata a reclutare finanziando la creazione dei frutteti a chi si impegni a conferire la produzione futura.
Comprende, ancora, la Cantina produttori vini Collio e Isonzo di Cormons, 213 soci, 16.000 ettolitri di vino prodotto, il cui direttore, Luigi Soini, incarna il più singolare ibrido tra un enologo e un organizzatore di gallerie d'arte. Il piazzale di scarico costellato di sculture, i fusti di rovere per l'invecchiamento del rosso affrescati da astri del firmamento della pittura, Soini è l'apostolo del connubio tra vino e arte: ha fatto della cantina un centro di incontro di artisti di paesi diversi, e siccome la Cantina ha allestito, a fianco dello stabilimento, un campo catalogo comprendente 400 vitigni di tutto il Mondo, ne ha vinificato i grappoli insieme, in segno di fratellanza tra le uve e tra i popoli, e con etichette disegnate da tre numi del pennello ne ha inviato tre bottiglie, col supporto logistico dell' Alitalia, a tutti i capi di stato del Pianeta.
Il vino della pace
Dopo avere brindato, col Tokay di Soini al futuro pacifico del vino e dell'arte, a conclusione dell'itinerario friulano Tonini mi conduce all'azienda di Luigi e Paolo Rodaro, padre e figlio, viticoltori a Spessa di Cividale, dove, col direttore regionale della Coldiretti, Bruno Chinellato, trascorriamo un'ora di vivace discussione e di operosa attività di assaggio. Tra una fetta di prosciutto casareccio, un pezzetto di Montasio, un bicchiere di ciascuna delle bottiglie schierate sul tavolo dibattiamo di un tema insolubile: i grandi pontefici del vino, i vati che dalle rubriche enologiche dei rotocalchi emettono giudizi che valgono, per chi produce e vende, decine di milioni, sono disinteressati asceti del gusto, o furbi negozianti di lodi non disinteressate? Con Paolo Rodaro, sul tema il disaccordo é incolmabile: del suo Verduzzo gli assicuro, comunque, che, seppure non porti la tiara del pontefice, proclamerò l’apprezzamento incondizionato. Sfidando la malignità di chi possa pensare che me ne ha regalato una bottiglia.
Didascalie
- Villa Manin, simbolo delle antiche proprietà venete. Centro di grani aziende e sede di villeggiatura, costellavano la parte più fertile del Friuli.
- La scacchiera dell'area di ricomposizione fondiaria di Campoformido. Sullo sfondo le prime colline dell'alto Friuli.
- I colori del primo'autunno tra i vigneti del Collio una delle aree da cui hanno origine i più pregiati vini del Friuli.
- Lo stabilimento del consorzio Latterie friulane, il colosso lattiero-caseario della cooperazione nella regione.
- Terra e Vita n. 37 1986