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atto quinto 295


Don Ignazio. E s’avesse il potere non avrei il volere.

Polisena. Vi darò rimedio: che avrete Carizia.

Don Ignazio. La morte sola saria il rimedio, ché cavandomi dal mondo, il spirito mio s’unisse col suo.

Polisena. Vo’ che senza morir godiate la vostra Carizia: sperate bene.

Don Ignazio. Come può sperar bene un afflitto dalla fortuna?

Polisena. Carizia ancor vive per voi.

Don Ignazio. So che lo dite accioché fra noi cessino l’ire e li sdegni; ma con queste speranze piú m’inacerbite le piaghe.

Polisena. Dico che è viva.

Don Ignazio. O Dio, sognando ascolto o sogno ascoltando?

Polisena. Dico che vegliando ascoltate il vero.

Don Ignazio. Il mio cuore non è capace di tanta allegrezza, e s’io non muoio per allegrezza è segno che nol crede. Non sapete che l’innamorati appena credeno agli occhi loro? ma se è vero, fa’ che veggia colei da cui dipende la vita mia.

Polisena. Va’ tu e fa’ venir qui Carizia. — Quando voi li mandaste quella cruda ambasciata, il dolor la fe’ cader morta. Il mio marito per l’offesa dell’onor, che s’imaginava aver ricevuto da lei, la fece conficcare in un’arca, volea farla sepellire. Io, non potendo soffrir che la mia cara figlia fosse posta sotterra senza darle le lacrime e gli ultimi baci, feci schiodar l’arca; e mentre la baciava tutta, intesi che sotto le mammelle li palpitava il core. Oprai tanti remedi che rivenne. Rivenuta, fu veramente spettacolo miserabile: stracciandosi i capelli si dolea della sorte che l’avesse di nuovo ritornata in vita assai peggior che la morte, pensando al torto che l’era fatto. Io, reimpiendo l’arca di un altro peso, la mandai a sepellire. Ella volea entrarsene in un monastero e servir a Dio, per non aver a cadere mai piú in podestá di uomo.

Don Ignazio. O madre, cavami fuor delle porte della morte, dimmelo certamente se è viva; perché ella sará mia, ancorché voglia o non voglia tutto il mondo.

Polisena. Ed ella piú tosto vol esser vostra che sua, e per non esser d’altri volea esser piú tosto della morte.