Gli amori/La Venere di Siracusa

La Venere di Siracusa

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Un giglio L'Estro

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LA VENERE DI SIRACUSA



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razie, amica gentilissima, dell’amabile letterina. Tutti i miei sospetti e tutte le mie supposizioni sono dunque senza fondamento, ed ella non m’ha scritto per un motivo semplicissimo, «per mettermi,» dice, «alla prova». L’esperienza pare sia andata secondo i suoi desiderii; io dirò che, se lei se ne contenta, sono contento anch’io. Quanto a Vico Dastri, avevo proprio indovinato; ella mi scrive che questo mio amico è «insoffribile ma delizioso;» stasera, appena lo vedrò, gli voglio riferire il suo giudizio. Non abbia paura: Dastri non si avrà a male dell’«insoffribile,» anzi se ne compiacerà molto più del «delizioso.» Gli dia anche dell’«impertinente,» perchè egli pensa che quando un uomo è apprezzato dalle donne, vuol dire che vale pochissimo...

E, da ultimo, quanto alla sentenza dell’amico mio ed alla storiellina del Giglio, ella mi dice una cosa — onore al merito! — giustissima. Sì, Bernazzi avrebbe potuto essere un poco più galante con la Hundington e, pure non spingendo le cose fino a un punto troppo rischioso, dare a quella donna qualche soddisfazione di [p. 102 modifica]amor proprio; se così avesse fatto, il vantaggio sarebbe stato tutto suo. Vedendolo andar via dopo due ore che erano soli in una camera d’albergo senza che egli le avesse detto una parola amabile, quasi si fosse trovato dinanzi a un altro uomo, Donna Clara, che aveva fatto unicamente per lui tante spese di civetteria, fu scusabile se, ferita nella vanità muliebre, lo punse con l’ironica offerta del simbolico fiore dell’innocenza; se invece egli avesse dimostrato d’appetire la sua compagna, se avesse finto di lodare la bellezza che la poveretta non possedeva, ella naturalmente si sarebbe schermita, per modestia o mentita o sincera, ed egli si sarebbe potuto ritrarre lasciando di sè un lieto ricordo.

Per ottenere questo risultato Bernazzi doveva fingere. Mentre Donna Clara gli pareva disgraziata e peggio che brutta, ridicola, egli doveva darle a intendere che la giudicava seducente. Questa finzione, questa menzogna non sono molto biasimevoli. Tanto è naturale che gli uomini appetiscano avidamente le donne, che essi, come quasi tutti i maschi animali, non debbono quasi aver preferenze: dinanzi a qualunque persona del sesso diverso hanno da rammentarsi del proprio. Quella specie di diritto che le donne hanno acquistato alla lode, alla deferenza, alla reverenza di questi uomini, non riconosce la sua origine nel dovere sessuale di costoro? Noi possiamo asserirlo. Sicuramente la debolezza del sesso chiamato appunto debole diede agli uomini l’obbligo di rispettare e proteggere le loro compagne, specialmente quando il cristianesimo fortificò nei cuori umani i sentimenti di fratellanza e di carità; ma se le donne fossero state deboli senz’altro, voglio dire senza esser necessarie agli uomini, questi non le avrebbero nè protette nè rispettate; e la predicazione d’amore del cristianesimo sarebbe stata poco feconda. Invece gli uomini hanno tanto bisogno di piegare le donne, che per ottenerne l’assenso le esaltano: essi si sono obbligati a lodarle, a incensarle, tutte, indistintamente. Dinanzi a una vecchia, a una gobba, a una storpia, si comportano ga[p. 103 modifica]perchè da questo loro contegno le giovani e le belle li giudichino degni d’essere amati.

A onor del vero bisogna riconoscere che questo calcolo è divenuto incosciente. Bisogna riconoscere ancora che, talvolta, non c’è calcolo di sorta, nè cosciente nè incosciente, e che un istinto pervertito oppure un particolare sentimento induce gli uomini a dimostrare amore per donne vecchie od orribili. Ha ella letto quella novellina di Catulle Mendès dove si discorre del giudizio di Don Giovanni?... Quando l’anima del morto eroe compare dinanzi al Giudice supremo, tutte le donne che in vita egli ingannò, offese e perdè, sorgono a deporre contro di lui: le accuse sono innumerevoli, le testimonianze schiaccianti; pare inevitabile la più severa condanna; ma ecco sorgere a un tratto una vecchia, una donna che già conobbe le dolcezze dell’amore e, volendo ancora gustarle, non le potè più trovare quando, per gl’insulti del tempo, gli uomini già supplici e adoranti la fuggirono e la derisero. Or bene, Don Giovanni, l’insaziabile, non fece come gli altri; si chinò verso di lei, la raccolse, le procurò ancora una volta gli spasimi ineffabili... e per questa carità d’amore egli è perdonato!

Catulle Mendès fa opera di fantasia, ed io so che ella non tiene nessun conto delle finzioni. Le narrerò dunque un fatto, una storia vera e non una novella. Il protagonista è un romanziere francese che ebbe gran fama verso la metà di questo secolo e che si legge ancora, quantunque l’opera sua, innegabilmente rivelatrice d’un grande ingegno, non procuri le squisite impressioni e i fremiti arcani dei quali sono avidi gli amanti della dea Arte. Senza tanti discorsi: Eugenio Sue. Eugenio Sue, dunque, s’atteggiava, come tutti gli scrittori del romanticismo, a depravato; ma forse, o senza forse, era naturalmente sano, e la troppa salute dovè nuocere alla sua grandezza se è vero che il genio è una malattia. Per dimostrare la propria corruzione egli narrava agli amici alcune gesta che Alessandro Dumas riferisce giustamente come altrettante prove di bontà. Oda questa. Una sera l’autore [p. 104 modifica]dell’Ebreo Errante seguì per via una di quelle creature che i Francesi chiamano filles forse perchè non sono mai madri, e salì in casa di lei. In un angolo della camera — lascio parlare l’autore dei Tre Moschettieri — egli vide un mucchio di scialli, di vesti, di stracci, dai quali usciva tratto tratto un sospiro.

— Che cos’è? — domandò il Sue.

— Non ci badare, — rispose la mercenaria: — è una mia amica.

— Una donna, quell’affare?

— Ma sì!

— E dove ha cacciato la testa?

— Non puoi vederla, la tiene nascosta fra le mani.

— Perchè?

La mercenaria, chinatasi allora all’orecchio del romanziere, gli spiegò:

— Il suo amante le ha gettato in viso del vetriolo: è tutta sfigurata...

E la disgraziata, compreso che parlavano di lei, ruppe in pianto. Eugenio Sue le si fece dappresso.

— Ah, povera ragazza! — esclamò. — Ti duole, è vero, di non poter più fare la vita?

— Qualche volta... — rispose la sfregiata, sogguardandolo di tra le dita. — Qualche volta... quando vedo un bel giovane come te...

Allora il Sue andò a spegnere la candela... e poi lasciò anche due luigi sul caminetto.

Lo scrittore che con tanta simpatia studiò le umane miserie nei Misteri di Parigi, fece dunque una doppia elemosina alla infelice, e noi non possiamo dire quale delle due riuscì più gradita: il denaro o l’amplesso. Sicuramente uno scrupolo caritatevole, l’idea di consolare la deturpata, di dimostrarle che, nonostante la perduta bellezza, qualcuno poteva ancora chiederle — e darle — la sensazione d’amore, spinse Eugenio Sue a quell’atto. Egli che quasi invidiava l’infame reputazione del marchese di Sade — il quale era semplicemente conte — diede una vera prova di gentilezza. Ma che riesca facile imitarlo non è da [p. 105 modifica]credere.

Quando pure ogni uomo volesse fare la carità d’amore alle donne orride, gli accadrebbe, novantanove volte su cento, come a quei pietosi che, posto mano alla borsa per dare una moneta in elemosina, la trovano vuota... Far concepire una speranza e non appagarla è senza dubbio molto peggio di non far niente; talchè chi prevede di trovar vuota la borsa farà bene di non portarvi la mano...

Tuttavia, quando pare che le ricerche siano inutili, può ancora darsi che una moneta si trovi in fondo a qualche scompartimento, e l’atto di carità non è, alle volte, tutto caritatevole, perchè una donna orrida di viso può ancora avere un corpo perfetto; e allora, superata la repugnanza per il viso deforme, l’ammirazione per il rimanente spiega la possibilità d’un atto che non è più generoso, ma interessato. La sciagurata in cui Eugenio Sue s’imbattè aveva soltanto il viso rovinato; le sue forme erano rimaste intatte. Gli anni che sciupano troppo presto la faccia visibile lasciano durare più a lungo le celate bellezze; l’amore per una donna che pare finita mentre possiede ancora secrete seduzioni da far valere resta pertanto spiegato. Senza dubbio le due bellezze sono diversamente importanti, e se le donne, non potendole avere entrambe, fossero costrette a sceglierne una, è certo che tutte eleggerebbero d’avere un volto stupendo con un corpo sgraziato, e nessuna si contenterebbe d’avere un corpo divino con un’orrida faccia. Il giudizio degli uomini forse non sarebbe altrettanto sicuro, e più d’uno, pensando che il viso è una parte troppo piccola e non troppo importante, si rassegnerebbe alla sua bruttezza pur di trovare venusto tutto il resto della persona da amare.

Io già la vedo, cara contessa, battere le mani e godere cogliendomi in fallo. Ella dice che l’amore degli uomini deve pur essere materiale, volgare e indegno, se preferisce la consistenza delle membra stupide e inerti, trascurando la perfezione del viso che è il vivo specchio dell’anima. Sì, la bellezza della faccia importa specialmente per questo: che la faccia, la bocca, gli [p. 106 modifica]occhi esprimono le interiori qualità della creatura, e la cordiale simpatia e il puro sentimento non si possono destare senza la bellezza del viso. Per una donna orribile di volto e apprezzabile soltanto in ciò che non si vede, si potrà provare un amore fatto soltanto di desiderio, un amore quasi costretto a nascondersi come nascoste sono le qualità di chi lo ispira; ma non è sempre vero, mi consenta di dire, che, tolto il viso, il resto del corpo sia stupido e inerte e senza espressione. Ne domandi, se non mi crede, agli artisti, ai pittori, agli scultori specialmente: li sentirà affermare che, a parte la faccia, l’eleganza delle forme, la purezza dei contorni, l’armonia delle proporzioni hanno una loro propria virtù espressiva e producono, più che un moto di cupidigia, un senso di pura felicità, un vero e proprio e tutto morale sentimento. Ed io le voglio a questo proposito narrare un altro fatterello che fa proprio al caso nostro.

C’è nel Museo nazionale di Siracusa un meraviglioso pezzo di scultura greca: una statua di Venere, dinanzi alla quale si resta compresi di stupore e quasi di religioso rispetto. Però, mentre la fama delle sue sorelle di Milo, dei Medici, del Campidoglio, vola per il mondo, la Siracusana è quasi sconosciuta, e solo i vagabondi inglesi che non sdegnano spingersi fino nell’estrema Sicilia sanno qualcosa di lei. Poichè ella non l’ha veduta, avrei il dovere di dirgliene una parola; ma, per fortuna mia, un grande scrittore francese che amò, come gli scialbi figli dell’Inghilterra, girare per il mondo, descrisse con mano maestra la statua della Dea. Riferendole la pagina del Maupassant io eviterò che ella mi accusi di mania descrittiva e mi risparmierò una prova della quale sento tutto il pericolo. Come potrebbero infatti le mie parole esprimere la sublime bellezza del marmo greco?

Prima di tradurre il passaggio del mirabile prosatore, io le riferirò una sua dichiarazione. Discutemmo già intorno al prezzo che la bellezza degli uomini ha per le donne, ma non abbiamo detto quanto la bellezza delle donne sia importante per gli uomini. [p. 107 modifica]È bensì vero che questi uomini sono tanto accensibili che qualunque donna, anche non bella, può essere oggetto del loro desiderio; tuttavia il desiderio ardente, se per un verso è di facile contentatura, è anche capace d’apprezzare molto più che il tepido le qualità dell’oggetto; così noi vediamo che, mentre tutte le donne possono essere desiderate, pure il loro dovere è di essere belle. Ciò che io vorrei farle particolarmente notare è che l’ammirazione degli uomini per la bellezza arriva a tal grado, da liberarsi dall’istinto erotico che la determina e da mutarsi in un culto quasi ideale, in un sentimento estasiato e purissimo. Già Enrico Heine aveva malinconicamente confessato: «Io non ho mai amato altro che statue e donne morte...» Guido de Maupassant dice: «Se avessi da scegliere fra la più bella delle creature vive e la donna dipinta da Tiziano, io preferirei la donna dipinta da Tiziano». Capovolgiamo la proposizione e facciamo che una donna debba scegliere fra il più bell’uomo vivo e l’Apollo del Belvedere: costei sceglierebbe... un abbonamento a un giornale di mode.

L’autore di Bel-Ami, dunque, avendo visto nell’album d’un viaggiatore la fotografia della Venere siracusana, narra che s’innamorò di lei «come ci si innamora d’una donna viva. Ella, probabilmente, mi decise a fare il viaggio: io parlavo e sognavo di lei assiduamente prima ancora d’averla veduta.» E arrivatole dinanzi così comincia a parlarne, senza nominarla, quasi non si possa dubitare di chi parla: «Entrando nel museo la scorsi in fondo a una sala, bella come l’avevo imaginata... Non è la donna poetizzata, la donna idealizzata, la donna divina o maestosa come la Venere di Milo; è la donna come realmente è, come noi l’amiamo, come la desideriamo, come vogliamo abbracciarla. E’ grassa, col petto forte, l’anca potente e la gamba un poco pesante; è una Venere carnale che sogniamo coricata vedendola in piedi. Il braccio che ha perduto nascondeva le mammelle; la mano che le resta solleva un drappo per ricoprire, con un gesto adorabile, le grazie più misteriose. Tutto il [p. 108 modifica]corpo è fatto, concepito, inchinato per questo movimento tutte le linee vi si concentrano, tutto il pensiero vi corre. Questo gesto semplice e naturale, pieno di pudore e d’impudicizia, che nasconde e mostra, vela e rivela, attira ed evita, sembra definire tutta l’attitudine della donna sulla terra;» — (quell’attitudine contraddittoria, ella noti di passata, sulla quale ho già richiamato la sua attenzione). — «E il marmo è vivo. Vorremmo palparlo, con la certezza che cederà sotto la mano come carne. I fianchi, segnatamente, sono animati e belli in modo inesprimibile. Si svolge in tutta la sua grazia la linea sinuosa e grassa dei dorsi muliebri che va dalla nuca ai talloni e che mostra, nel contorno delle spalle, nella rotondità decrescente delle anche e nella lieve curva del polpaccio assottigliato fino alla caviglia, tutte le modulazioni della grazia umana. Un’opera d’arte non è superiore se non quando è nello stesso tempo un simbolo e l’espressione esatta di una realtà. La Venere di Siracusa è una donna, ed è anche il simbolo della carne.»

Qui il Maupassant fa una digressione per parlare di quell’amore misterioso e mistico che suscita la testa della Gioconda e lo sguardo di certe donne vive. La Venere di Siracusa non ha testa. E ciò nonostante, quantunque per la mancanza del viso e dello sguardo parrebbe dover mancare anche l’espressione, ella ha pure il suo significato. Se lo sguardo di certe donne ci dice cose che realmente non sono nelle loro persone e determina in noi un’esaltazione per la quale ci crediamo capaci di spiccare le stelle dal cielo, altre eccitano nelle nostre vene l’impetuoso amore dal quale è uscita la nostra razza. «La Venere di Siracusa è la perfetta espressione di questa bellezza potente, sana e semplice. Ella non ha testa! Che importa? Il simbolo è perciò stesso più integro. E’ un corpo di donna che esprime tutta la poesia reale dell’amplesso.»

Ora un pittore tedesco amico mio, Franz von Rödrich, andato anche egli in pellegrinaggio a Siracusa per ammirare il portentoso marmo, ne restò, come accadde al Maupassant e come accade a quanti hanno [p. 109 modifica]occhi, turbato e quasi oppresso. Egli non era solo, un giovanotto suo connazionale lo accompagnava. Dovevano partire il domani per Malta e Tunisi, e non sapevano come occupar la serata in quella piccola città che, racchiudendo tante memorie d’un grande passato, è troppo sprovveduta delle attrattive della vita presente. L’artista sarebbe andato a letto se avesse potuto dormire, se la contemplazione del capolavoro non l’avesse sconvolto come ci sentiamo sconvolti incontrando una troppo bella creatura di carne e d’ossa. Seguì pertanto, sperando distrarsi, il suo giovane amico, al quale la vista della Venere aveva messo addosso un’altra febbre, meno pura e più facilmente guaribile. Nonostante il contrario consiglio di un cicerone di piazza, l’acceso giovanotto volle andare in cerca di veneri vive; e la turpitudine del luogo e l’orrore delle due sole creature che lo popolavano non valse a tranquillarlo; scelta la meno orrida, andò con lei. L’artista restò solo, disgustato, pentito di aver accompagnato il troppo ardente amico, e con la mente perduta dietro la raffigurazione della sublime bellezza della statua, col rammarico di non essere vissuto ai tempi che gli artefici incontravano i viventi modelli di simili opere.

Siracusa! La Magna Grecia! La statua di marmo pario! La Venere callipige! Ateneo e Lamprido!... Egli ripeteva tra sè quei classici nomi, quasi assaporandoli, quasi esprimendone la secreta virtù prima di abbandonare i memorabili luoghi dove forse non sarebbe tornato mai. I luoghi erano immutabili, ma come il tempo aveva compito l’opera sua! Il teatro era vuoto, vestito d’erba; il tempio di Diana era divenuto una mediocre cattedrale di provincia: non più Dionisio udiva dall’alto dell’orecchiuta latomia le voci dei prigionieri; il papiro dell’Anapo dava inutilmente al vento le verdi chiome vegetali, spodestato dalla carta fatta di stracci. E che cosa era divenuta la razza, l’uomo e la donna, dopo tanti miscugli di sangue? Come paragonare, senza sentirsi stringere il cuore di pietà e senza fremere di sdegno, la statua del Museo alla turpe creatura che gli stava dinanzi e che tentava di eccitarlo?... A un tratto [p. 110 modifica]egli udì gridare: «Franz!... Franz!... Franz!...» Era la voce del suo giovane compagno.

Franz accorse, cercandosi istintivamente un’arma addosso, credendo che l’amico chiamasse aiuto, rammentandosi le parole del cicerone che li aveva sconsigliati d’avventurarsi in quei luoghi... Egli s’ingannava, nessun pericolo li minacciava; il compagno lo chiamava per farlo partecipare alla sua meraviglia. La donna che questi aveva portata via, con una testa orribile e ignobile, irregolare, cotta dal sole, premuta da una zazzera untuosa come quelle delle Abissine, aveva il corpo della statua. Viva, calda, palpitante, essi si vedevano dinanzi la forma di Venere: avevano toccato il marmo ed era parso loro carne; ora toccavano la carne che parea marmo. Le loro mani tremavano nel premere le polpe scultorie; la loro meraviglia era estatica, non riusciva a saziarsi. Chi li avrebbe creduti, quando avrebbero narrato l’incontro? Aver visto la statua della Dea qualche ora prima, quelle forme che tutti i viaggiatori ammirano con un secreto senso di sfiducia, pensando che l’arte sola ha potuto plasmarle, ma che in realtà quella perfezione non esiste; e trovarle qualche ora dopo, non di pietra inerte, ma di muscoli elastici, e così perfette, in ogni parte, in ogni linea? Tutta lei, nel seno, nei fianchi, nel grembo: tutta lei, dai piedi al collo; solo la testa, la testa orrida e turpe, pareva una terracotta barbarica sovrapposta al marmo di Paros!

Il signore di Sade, redivivo, avrebbe pensato di decapitare quel corpo; Franz von Rödrich ripensava le parole del Maupassant: «Non ha testa! Che importa? Il simbolo è per ciò stesso più integro. E’ un corpo di donna che esprime tutta la poesia reale dell’amplesso....»