Pagina:De Roberto - Gli amori.djvu/120

egli udì gridare: «Franz!... Franz!... Franz!...» Era la voce del suo giovane compagno.

Franz accorse, cercandosi istintivamente un’arma addosso, credendo che l’amico chiamasse aiuto, rammentandosi le parole del cicerone che li aveva sconsigliati d’avventurarsi in quei luoghi... Egli s’ingannava, nessun pericolo li minacciava; il compagno lo chiamava per farlo partecipare alla sua meraviglia. La donna che questi aveva portata via, con una testa orribile e ignobile, irregolare, cotta dal sole, premuta da una zazzera untuosa come quelle delle Abissine, aveva il corpo della statua. Viva, calda, palpitante, essi si vedevano dinanzi la forma di Venere: avevano toccato il marmo ed era parso loro carne; ora toccavano la carne che parea marmo. Le loro mani tremavano nel premere le polpe scultorie; la loro meraviglia era estatica, non riusciva a saziarsi. Chi li avrebbe creduti, quando avrebbero narrato l’incontro? Aver visto la statua della Dea qualche ora prima, quelle forme che tutti i viaggiatori ammirano con un secreto senso di sfiducia, pensando che l’arte sola ha potuto plasmarle, ma che in realtà quella perfezione non esiste; e trovarle qualche ora dopo, non di pietra inerte, ma di muscoli elastici, e così perfette, in ogni parte, in ogni linea? Tutta lei, nel seno, nei fianchi, nel grembo: tutta lei, dai piedi al collo; solo la testa, la testa orrida e turpe, pareva una terracotta barbarica sovrapposta al marmo di Paros!

Il signore di Sade, redivivo, avrebbe pensato di decapitare quel corpo; Franz von Rödrich ripensava le parole del Maupassant: «Non ha testa! Che importa? Il simbolo è per ciò stesso più integro. E’ un corpo di donna che esprime tutta la poesia reale dell’amplesso....»